L’informazione per essere corretta deve essere completa, ben contestualizzata e scritta nel rispetto della verità sostanziale dei fatti. L’articolo dal titolo “Un richiedente asilo su due è matto da legare e va curato” pubblicato in prima pagina su Libero venerdì 23 marzo, non rispetta nessuno di questi tre criteri. Carta di Roma ha deciso di fare un fact-checking coinvolgendo diversi esperti del settore.
di Sabika Shah Povia
Sono ragazzi giovani e in forma. Ci rubano il lavoro. Hanno gli smartphone. Quanta poca compassione si prova in Italia nei confronti di chi non fugge da una guerra a noi nota, ma dalla povertà, dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, dall’assenza di un futuro.
Nessuno sceglie di essere migrante, di abbandonare la propria terra e i propri affetti, di fare un viaggio che gli potrebbe costare la vita. Sono persone senza un’alternativa. Disperati che giungono sulle nostre coste dopo aver passato anni in viaggio, a piedi, attraversando il deserto del Sahara, dove neanche si contano i corpi sotterrati dalla sabbia. I più fortunati passano mesi nei centri di detenzione libici, altri vi restano prigionieri per anni. Alcuni non ne escono mai. Muoiono lì dentro.
E poi ci sono i compagni di viaggio, fratelli, madri, amici, persi tra le onde del Mediterraneo.
Il sospiro di sollievo che si tira appena sbarcati in Italia, dura l’istante del respiro stesso, poi comincia un nuovo calvario.
L’accoglienza in Italia non è stata gestita con la giusta progettualità, ma come un’emergenza temporanea che poi tanto temporanea non si è rivelata, motivo per cui chi arriva in Italia viene sottoposto ad ulteriore stress causato dal limbo in cui si ritrova a vivere.
“Sarei infelice anche io se fossi costretto a vivere una vita che non ho scelto. Mi chiamereste malato di mente per questo?” chiede Gianfranco de Maio, referente medico per i programmi di supporto alle vittime di tortura del centro operativo di Bruxelles di Medici Senza Frontiere. “Il migrante forzato non è felice e di conseguenza non dorme, piange, può avere incubi. Non aiutano certamente le condizioni vergognose in cui spesso vengono accolti”.
Molti ragazzi che vengono classificati come “migranti economici” e che si lasciano alle spalle democrazie dell’Africa occidentale, non sono “vittime” in partenza, come invece possono essere coloro che fuggono da guerre e persecuzioni, ma lo diventano durante il viaggio per via degli abusi che subiscono.
“Quando una persona passa due anni in detenzione in Libia e viene sottoposto a torture fisiche e/o psicologiche , è vittima di un meccanismo micidiale,” continua De Maio. “Le nostre istituzioni sono parte della causa perché non permettono a queste persone di fare richiesta per un visto di lavoro in maniera regolare, recandosi al consolato nel proprio Paese di origine. E quando per costruire un futuro migliore affrontano il viaggio, diamo a loro la colpa di essere incappati nella Libia. È una logica perversa”.
Nel 2016, MSF ha pubblicato il rapporto “Traumi ignorati” per affrontare la questione del disagio mentale associato all’esperienza migratoria e/o alle condizioni di accoglienza in Italia, un fenomeno tutt’oggi gravemente sottovalutato. Partendo da un’analisi dei bisogni e dei servizi esistenti, MSF, che da anni fornisce supporto medico e psicologico nelle strutture di prima e seconda accoglienza in Italia, aveva evidenziato la necessità di adottare un modello di accoglienza che prendesse in carico i bisogni specifici legati alla salute mentale per questa popolazione particolarmente vulnerabile.
La ricerca era stata condotta all’interno dei Centri di accoglienza straordinaria del ragusano. Questi centri, come si evince dalla denominazione stessa, privi di un’adeguata politica di integrazione, non sarebbero dovuti diventare strutture di accoglienza “ordinarie” e non erano in grado di fornire supporto psicologico ai richiedenti asilo, cosa a cui provvedeva lo staff di MSF.
“Avevamo raccolto dati su 387 pazienti e nel 60% dei casi, avevamo riscontrato una forma di disagio mentale”, sottolinea Silvia Mancini, curatrice del rapporto. “Questa percentuale saliva all’87% quando si prendeva in considerazione il senso di ansia e depressione derivante non solo dai traumi e violenze subite nel percorso migratorio, ma le condizione di vita attuali, il limbo in cui restavano per mesi in attesa di risposta delle commissioni territoriali, l’ansia per il futuro e quello che viene definito lo stress di transculturazione”.
Le patologie riscontrate più frequentemente erano, e continuano a essere ad oggi, il disturbo da stress post traumatico, la depressione e l’ansia.
“Disagi mentali, sofferenza psicologica, sì, ma non disturbi psichiatrici”, ci tiene a precisare Mancini. “Non si possono confondere le due cose”.
“Disagio è un termine generico con cui si indicano vissuti di sofferenza sul piano mentale. Ogni essere umano ha più volte nel corso della vita momenti in cui esprime un disagio mentale, anche in relazione a ciò che vive”, puntualizza Salvatore Geraci della Caritas romana, a nome del Gruppo “Salute mentale e migrazioni” della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM). “Disturbo è nato anch’esso come termine generico ma negli ultimi 35 anni è diventato di fatto un termine tecnico all’interno delle classificazioni psichiatriche dei disturbi mentali. Per avere un disturbo mentale secondo i criteri correnti bisogna avere sintomi specifici e superare una soglia di gravità/malfunzionamento. Usato in questo modo, è di fatto divenuto sinonimo di malattia mentale”.
Malattia mentale di cui non soffrono un richiedente asilo su due.
“È un falso ideologico che le vittime di tortura siano perturbate a livello psichico”, precisa De Maio. “Sono spesso persone equilibrate, ma con particolari necessità sociali. Hanno bisogno di ritrovare un senso di comunità, un senso di appartenenza”.
L’anno scorso il Ministero della Salute, con l’aiuto di diverse associazioni e organizzazioni attive nel settore dell’accoglienza, ha redatto delle linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei richiedenti asilo, dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria, i ricorrenti e i “dublinati” che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.
Geraci, che ha collaborato alla stesura di queste linee guida, sostiene che “Le Regioni, che le hanno sottoscritte attraverso un Accordo Stato-Regioni il 30 marzo 2017, devono attivarsi perché nelle varie aziende sanitarie nascano percorsi multidisciplinari appositi, in relazione alle necessità presenti sul proprio territorio. Al momento non sono molte le esperienze effettivamente già operative”.
Ancora oggi succede che persone che hanno un disturbo post traumatico si presentino in pronto soccorso per essere curate dopo aver avuto un momento di crisi e, se si dovessero guardare i numeri senza contestualizzarli, si potrebbe pensare che siano di più gli stranieri con questo tipo di problemi che gli italiani. La differenza fondamentale, però, sta nell’accesso ai servizi di un certo tipo, che ad un cittadino italiano vengono garantiti prima, in modo da prevenire eventuali “crisi”.
“Al richiedente asilo vittima di violenza viene chiesto di dimostrare l’esperienza della tortura o della violenza subita,” dice De Maio. “Gli chiediamo di provare che è stato vittima, di certificarlo, che nel caso di mancanza di segni fisici diventa molto complicato. Bisogna basarsi su quello che la persona narra, non cercare di capire se mente o meno”.
Ultimamente l’Europa sta finanziando diversi progetti di psichiatria per i migranti, ma De Maio sostiene che non è questo l’approccio giusto. Anzi, lo trova controproducente.
“Il discorso della vulnerabilità del migrante in qualche modo lo vittimizza e spesso si finisce per ricevere fondi per progetti che vanno ad aiutare questi ‘poveri malati’ ”, continua De Maio. “Ma noi per le vittime di tortura abbiamo nel tempo sviluppato un sapere, una coscienza civile, che ci dice che queste persone non vanno aiutate perché malate o vittime, ma perché ne hanno il diritto. È stato violato il loro diritto alla dignità e noi dobbiamo supportarli nel recupero di questa dignità. Per fare questo è necessario che cambi anche l’approccio delle istituzioni”.
Nel suo lavoro sul campo, MSF non ha mai incontrato casi socialmente pericolosi. Persone estremamente sensibili, molto provate e che sono state esposte a traumi successivi anche all’arrivo in Italia, ma sicuramente non pericolose. Anche perché non si sta parlando di “pazzi”.
“Nei 387 individui da noi seguiti e presi in carico, noi non avevamo registrato nessun caso psichiatrico grave”, sottolinea Mancini. “I migranti che arrivano in Italia non sono persone pericolose, sono persone che hanno bisogno di accoglienza e hanno subito dei traumi”.
Sostenere dunque la pericolosità di questi individui altro non è che una grave strumentalizzazione di studi e statistiche che ha il solo scopo di creare allarme e sollecitare paura.
“Inoltre, non si possono estendere i risultati di una ricerca compiuta due anni fa su 387 soggetti all’interno dei CAS del ragusano a tutti i richiedenti asilo oggi presenti sul territorio”, aggiunge con fermezza Mancini. “È profondamente scorretto dal punto di vista scientifico”.