Sono usate ormai quotidianamente le parole “migranti” e “respingimenti”. Ad analizzarle, per Linkiesta, è l’Accademia della Crusca
Rilanciamo l’interessante approfondimento pubblicato dalla testata online Linkiesta che, con la collaborazione dell’Accademia della Crusca, spiega le origini e il significato di due tra i termini più usati nel parlare di immigrazione: migranti e respingimenti.
Respingimenti, migranti ed espulsioni. Le parole sono importanti
A cura dell’Accademia della Crusca, pubblicato da Linkiesta
La parola migrante è attestata già dall’Ottocento nella sua funzione di participio presente del verbo migrare, quindi con il significato di “chi si trasferisce momentaneamente o stabilmente dal suo paese d’origine”. Ha assunto invece un significato più specifico negli ultimi decenni con le nuovi grandi ondate migratorie, arrivando a indicare tutti coloro che lasciano il loro Paese d’origine e si muovono alla ricerca di migliori condizioni di vita (nel nostro Paese e in molti altri Paesi europei) e ha sostituito progressivamente i più comuni emigrante e immigrato.
Possiamo ricostruire la storia della parola e il suo rilancio nella nuova accezione specifica, ma dobbiamo tenere sempre presente che non si tratta solo di una questione terminologica: le denominazioni svolgono funzione di “etichette” e, in questo caso in particolare, contribuiscono in larga misura a contenere categorie concettuali che possono diventare stereotipi, luoghi comuni e, nei casi peggiori, epiteti discriminatori.
E che non si tratti solo di un problema terminologico lo confermano anche gli atti politici e giuridici che hanno riguardato la questione: il Consiglio d’Europa alla fine degli anni Ottanta si era posto il problema della scelta del termine con cui denominare gli “immigrati” che sempre più numerosi stavano arrivando nei paesi della Cee. Le indicazioni furono quelle di utilizzare immigrato e straniero: la prima, da utilizzare per le persone che si erano trasferite in un Paese diverso da quello d’origine, doveva poi essere sostituita dalla seconda dopo la stabilizzazione nel nuovo Paese. Se immigrato rischia di attribuire un’etichetta che diviene permanente anche quando ormai la fase di ingresso in un nuovo Paese è del tutto superata, straniero così come extracomunitario risultano semanticamente escludenti in quanto identificano il cittadino come “non appartenente” alla comunità in cui effettivamente vive e lavora.
Nonostante le indicazioni del Consiglio d’Europa, la lingua usata ha seguito percorsi diversi e decisamente più variegati. Molto diffuse sono rimaste anche le forme del participio presente immigrante, emigrante e migrante che, proprio per il modo e tempo verbale, svolgono la funzione di indicare lo svolgersi dell’azione e quindi la transitorietà dello status di chi viene così denominato.
Le prime attestazioni del termine migrante nell’attuale accezione sono del 1982 in alcune Direttive Cee in materia di formazione dei lavoratori migranti e di scolarizzazione dei loro figli; nel 1983 la Risoluzione 1 della Conferenza permanente dei ministri europei riguarda “l’educazione e lo sviluppo culturale dei migranti”. Le massime istituzioni europee operano quindi una scelta terminologica che richiama l’attenzione su problemi più profondi. I mezzi di comunicazione, almeno alcuni, sembrano cogliere queste indicazioni visto che è possibile rintracciare nell’archivio on-line di Repubblica articoli del 1987 in cui si parla dei “diritti del migrante” (l’archivio on-line del Corriere della Sera parte dal 1992 e, a questa data, si trovano ormai molte attestazioni). Un’attestazione d’autore del termine in questa nuova accezione è registrata nel volume di Bencini e Manetti, Le parole dell’Italia che cambia: si tratta di un articolo dello scrittore Amin Maalouf, apparso sul Corriere della Sera del 1 gennaio 2000 in cui ci si chiede se sia possibile “in nome della generosità, della solidarietà umana, o in nome del liberalismo, spalancare le porte a tutti i migranti…”.
In effetti, negli ultimi mesi, il termine migrante è stato fortemente rilanciato ed è apparso come quello più utilizzato, soprattutto in televisione, per far riferimento agli stranieri che cercano di raggiungere le nostre coste su barconi fatiscenti. Non bisogna dimenticare che la maggior parte degli ingressi in Italia avviene in realtà via terra, dal Nord, ma di questi viaggi è decisamente più difficile tracciare i percorsi, far vedere le immagini reali dei trasferimenti e degli arrivi e quindi, forse, è anche meno immediata l’idea del migrante, di chi si sta trasferendo: proprio per questo i migranti, nella percezione comune, sembrano essere soltanto le persone che arrivano dal mare sui barconi, colti nei momenti dell’effettivo spostamento. Rispetto a migrante, il termineemigrante pone l’accento sull’abbandono del proprio Paese d’origine dal quale appunto si ‘esce’ (composto con il prefissoex ‘via da’) per necessità e mantenendo un senso profondo di sradicamento su cui proprio quel prefisso ex sembra insistere; in Italia in particolare, la parola rimanda alla storia, non troppo lontana, degli italiani che lasciarono il loro Paese per cercare fortuna in America, Germania, Belgio. Migrante sembra invece adattarsi meglio alla condizione maggiormente diffusa oggi di chi transita da un paese all’altro alla ricerca di una stabilizzazione: nei molti transiti, questo è il rischio maggiore, si può perdere il legame con il Paese d’origine senza acquisirne un altro altrettanto forte dal punto di vista identitario con il Paese “d’arrivo”, restare cioè migranti.
Un’altra parola, recentemente rilanciata dai mezzi di comunicazione, è respingimento. È tornata tristemente in auge nelle ultime settimane per indicare l’operazione compiuta dalle autorità italiane di intercettazione in acque internazionali dei barconi di migranti con lo scopo di rimandarli là da dove erano partiti, prima che potessero raggiungere le nostre coste. Anche in questo caso non possiamo certo parlare di una parola nuova, mentre appare inusuale il contesto in cui è stata reintrodotta. Proprio alla luce dei nuovi impieghi del termine, non è strano che siano arrivate alla redazione dell’Accademia richieste di chiarimento: le attestazioni nei vocabolari, anche quelle antiche (la prima registrata nel GDLI Grande Dizionario della Lingua Italiana risale al Cinquecento) testimoniano usi in cui il termine viene riferito sempre al “rinvio” di un oggetto. Nel corso dei secoli la parola è stata impiegata soprattutto nella lingua burocratica con “il respingimento di una lettera, di una richiesta, di una pratica, di un ricorso”, assumendo quindi una connotazione di formalità e astrazione che mal si adatta a un contesto in cui l’oggetto di tale azione è una o più persone.
A questo proposito appare significativo che, nella relazione della XIV Commissione della Camera dei Deputati (seduta del 24 settembre 1997) il termine respingimento fosse “glossato” e spiegato come sinonimo di ‘espulsione mediante accompagnamento alla frontiera’ e venissero specificate le condizioni in cui fosse possibile questo tipo di intervento: “In primo luogo, alla persona fatta oggetto di un decreto di espulsione è assicurato un esame giudiziale preventivo della sua posizione soltanto nei casi in cui non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l’indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo (articolo 12, comma 1)”. Possiamo collocare proprio nella seconda metà degli anni ’90 l’ingresso di respingimento nell’accezione specifica appena indicata: da questo periodo infatti la parola ricorre in atti legislativi sia europei che italiani, sempre con riferimento agli Accordi di Schengen del 1985 dove però il termine non compare.
Dal testo citato emerge la differenza del termine respingimento rispetto a espulsione: l’atto di espulsione infatti presuppone che l’ingresso (in questo caso in un Paese) sia già avvenuto e che quindi si proceda a ‘far uscire qualcuno da un luogo in cui è entrato precedentemente’; il respingimento ha in sé il significato di ‘spinta indietro’ prima però che si sia effettivamente entrati o riconosciuti come tali. Si tratta infatti – come ben spiegato nel già citato volume di Bencini e Manetti in cui si trova anche un’attestazione del termine sul Corriere della Sera del 29 marzo 2002 – di quel “provvedimento col quale la polizia di frontiera rimanda indietro lo straniero che non abbia i requisiti per rimanere” (p. 129). In questa prospettiva che prevede il controllo dei requisiti delle singole persone suona ancora più strano il respingimento di barconi stracarichi di migranti di cui sarà particolarmente difficile controllare i requisiti.
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