Di Laura Zanfrini su Avvenire
Nell’edizione di ieri della Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Decreto Flussi 2021, firmato sul filo di lana a fine anno dal presidente del Consiglio Draghi, che fissa in 69.700 gli ingressi di lavoratori stranieri: un numero inferiore alla bozza circolata, ma più che raddoppiato rispetto alle quote degli ultimi anni e con una timida apertura verso il lavoro non stagionale con riferimento ai settori (trasporto, edilizia, turistico-alberghiero) che denunciano difficoltà nel reclutamento di personale. Peraltro, le 27.700 quote non stagionali andranno ripartite tra gli oltre 30 Paesi sottoscrittori di accordi elencati nel decreto e saranno in parte assorbite dalle conversioni di permessi già rilasciati per altri motivi. Questo – insieme alla “promessa” di possibili ulteriori decreti nei prossimi mesi – è probabilmente il massimo che si poteva fare con un governo composito come l’attuale e in un quadro ancora molto compromesso dalla pandemia.
Ancora una volta, il provvedimento ha visto la luce secondo la logica della “programmazione transitoria” e in assenza del documento programmatico cui il testo unico sull’immigrazione affidava, tra le altre finalità, quella di individuare i criteri generali per la definizione dei flussi in ingresso. L’ultimo documento di cui si ha notizia è relativo al triennio 2007-2009, rimasto eternamente “in fase di elaborazione”. Da allora, nessuno dei governi che si sono succeduti ha voluto cimentarsi nel compito, politicamente audace, del governo delle migrazioni economiche, e tutti hanno finito col ridurre la questione al contrasto dell’immigrazione irregolare.
I limiti delle procedure in vigore (a partire dalla loro rigidità, distante da un mercato del lavoro sempre più flessibile); quelli che derivano dalle scelte – o non scelte – nella loro applicazione; quelli, infine, relativi al contesto in cui gli schemi migratori si trovano a operare (dalla diffusione del lavoro irregolare ai deficit nella intermediazione istituzionale tra domanda e offerta di lavoro) hanno concorso al fallimento del sistema di programmazione dei flussi, facendo dell’Italia un caso “esemplare” del disallineamento tra il piano delle politiche e quello dei concreti processi migratori e di inclusione.
Mentre le più importanti agenzie internazionali non cessano di ricordare come le migrazioni, se adeguatamente gestite, possano rappresentare un vantaggio per tutti gli attori coinvolti, tale disallineamento risalta come dato comune perfino ai Paesi tradizionalmente considerati dei punti di riferimento in materia. In particolare, milioni di posti di lavoro essenziali sono occupati, in Canada come negli Stati Uniti e nella stessa Europa, da immigrati undocumented titolari di permessi temporanei, studenti e tirocinanti stranieri, richiedenti asilo diniegati. La necessità di politiche innovative, sostenibili nel lungo periodo, capaci di rispondere anche al consistente fabbisogno di lavoro a bassa qualificazione garantendo i diritti dei lavoratori è dunque auto-evidente. Tanto più in Italia, dove i modelli di inclusione prevalenti sono decisamente inadeguati ad agganciare una ripresa la cui cifra dovrà essere la qualità in senso lato del lavoro.
Governare le migrazioni economiche implica gestire una serie di bilanciamenti: si tratta di far convivere la dimensione economica della programmazione con la dimensione politica (in particolare, l’esigenza di offrire canali legali che scoraggino i flussi irregolari); la richiesta di rispondere a fabbisogni contingenti e spesso appiattiti sui lavori a bassa qualificazione con quella di promuovere modelli d’integrazione sostenibili nel lungo periodo; la necessità di dotarsi di regimi migratori coerenti col ruolo dell’Italia nello scenario internazionale (in particolare euro-africano) con quella di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro delle ampie componenti della popolazione residente (inclusa quella immigrata) che ne sono escluse; e, ancora, la dimensione tecnico-procedurale della programmazione – che richiede schemi migratori flessibili, che rispondano rapidamente alle richieste di persone e mercato – con il carattere politico, nel senso nobile del termine, del governo dell’immigrazione, che come tale incorpora una visione sul futuro.L’auspicato ridisegno delle politiche migratorie non può allora essere disgiunto dal compito di ripensare i regimi di accumulazione, le reti di produzione e distribuzione del valore e i modelli di riproduzione sociale cogliendone, proprio attraverso la “lente” dell’immigrazione, tutte le criticità. Basterebbe citare l’esempio del lavoro per le famiglie – da sempre il comparto più etnicizzato del mercato del lavoro italiano – per comprendere come la gestione delle migrazioni va integrata con l’insieme di interventi, a vari livelli, necessari per affrontare quella che l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) ha definito la «crisi globale della cura». Il governo e la governance delle migrazioni devono dunque diventare parte integrante di quel grande cantiere di innovazione economica e sociale che si sta aprendo nella scia del Pnrr, secondo le indicazioni contenute nella stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Immagine in evidenza di Agenzia Ansa
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