di Silvia Maraone per Caritas
A partire da marzo, mano a mano che il coronavirus dilagava per l’Europa, alcuni stati disposti lungo la dorsale balcanica hanno messo in atto provvedimenti che hanno interessato non solamente la popolazione locale, ma anche e soprattutto la popolazione migrante che vive all’interno dei centri di transito e per richiedenti asilo, allestiti e istituiti lungo la cosiddetta Rotta balcanica a partire dal 2016.
Dopo il 2015, anno della “crisi dei rifugiati”, che ha visto arrivare in Unione europea quasi un milione di persone (di cui oltre 850 mila transitate dalla Grecia), a partire da marzo 2016 la Rotta balcanica è stata dichiarata ufficialmente chiusa, in base al controverso accordo turco-europeo, che prevede fondamentalmente che la Turchia – in cambio di 6 miliardi di euro versati dall’Ue e di un’accelerazione nelle trattative legate all’ingresso in Europa – gestisca i quasi 4 milioni di richiedenti asilo che si trovano nel suo territorio.
Di fatto, però, quell’accordo (in realtà una dichiarazione congiunta tra le parti coinvolte) non ha fermato il flusso di persone on the move, ma lo ha solamente rallentato e reso più pericoloso; si calcola, in effetti, che tra il 2016 e il 2019 siano comunque passate circa 160 mila persone lungo questo corridoio migratorio.
I paesi maggiormente interessati dalla presenza dei migranti in transito sono Grecia, Serbia e – a partire dal 2018 – Bosnia Erzegovina, diventata nella zona nord-occidentale il collo di bottiglia prima di entrare in Croazia e da lì nei Paesi Shengen, la meta cui maggiormente aspirano le persone, che provengono principalmente da Afghanistan, Pakistan, Siria, Iran e Iraq.
Poco prima che la pandemia prendesse piede a livello globale, a partire da fine febbraio, la Rotta balcanica era tornata sui principali giornali e siti di notizie, perchè il presidente turco Recep Tayyp Erdo?an aveva annunciato di aver aperto i confini del paese ai migranti intenzionati a raggiungere l’Europa. Quella che sino a poco tempo prima sembrava solo una minaccia si è fatta realtà; nel giro di pochi giorni almeno 10 mila persone hanno raggiunto il confine terrestre tra Turchia e Grecia e hanno provato a sfondare i cordoni di sicurezza greci, trovando una risposta violenta, anche con il sostegno delle polizie e dei militari di altri governi europei.
La situazione incandescente sul confine, che faceva immaginare uno scenario simile a quello del 2015, con migliaia di persone in transito lungo la rotta, si è però interrotta bruscamente con l’arrivo del virus e le misure di chiusura, limitazione di movimento e autoisolamento messe in atto in pratica da quasi tutti gli stati del mondo.
Gli stati posti lungo la Rotta balcanica hanno non solo imposto misure restrittive alla popolazione locale, ma hanno chiuso la popolazione migrante all’interno dei campi, dispiegando forze speciali a controllarne i perimetri: nessuna nuova persona entra e nessuno esce, in una quarantena permanente.
In Grecia si calcola una presenza di oltre 118 mila tra rifugiati e richiedenti asilo; circa 20 mila abitano nei 30 campi dislocati sul continente, molti vivono in appartamenti o shelter e oltre 38 mila sono bloccati nei campi ufficiali e informali sulle isole di Lesvos, Chios, Samos e Kos.
In Serbia sono oltre 8.500 i richiedenti asilo e i migranti distribuiti nei 17 centri in gestione governativa all’interno del paese. Durante il mese di marzo polizia ed esercito locali hanno portato le persone che vivevano negli squat delle periferie di Belgrado e di Šid all’interno dei campi, che sono ora sovraffollati.
Infine si calcola che in Bosnia Erzegovina ci siano circa 5.500 persone alloggiate in 9 campi per l’accoglienza, ma che almeno 2 mila vivano dormendo in edifici e fabbriche abbandonati o in tende e accampamenti di fortuna nei boschi lungo i confini con la Croazia. L’ampia presenza di persone che vivono fuori dai campi ufficiali ha fatto sì che il 17 aprile il consiglio dei ministri della Bosnia Erzegovina decidesse che ogni straniero che non ha un documento di identità valido e un indirizzo di residenza registrato presso l’ufficio stranieri del comune di competenza, verrà obbligatoriamente portato nei centri di ricezione, dove dovrà risiedere senza possibilità di uscire.
Per questo motivo già dalle settimane precedenti, in località Lipa, cantone di Una Sana, territorio di Bihac, sono stati avviati di gran lena i lavori per mettere in piedi un nuovo centro temporaneo di transito. Il campo, costituito da ampi tendoni in cerata con letti a castello, container sanitari e toilette chimiche, è stato fortumente voluto dalla municipalità di Bihac per spostare dalle strade e da edifici diroccati le migliaia di persone che vagano tra le rovine senza cibo, acqua corrente, elettricità e vestiti. A partire dalla mattina del 21 aprile sono iniziati in maniera pacifica i trasporti dei migranti, scortati dalla polizia locale, al nuove centro in gestione all’Organizzazione mondiale dei migranti e al Danish Refugee Council. Al tempo stesso, decine di persone che non vogliono vivere nei centri e rimanere bloccate in quarantena a tempo indeterminato, hanno deciso di prendere la strada dei boschi e tentare di andare verso la Croazia o rimanere tra le foreste, in attesa che si allentino nei paesi europei le misure anti-Covid.
Le preoccupazioni nutrite dalle diverse organizzazioni non governative e associazioni in tutti i contesti citati sono le medesime: i campi sono sovraffolati e non permettono di prevenire la diffusione del contagio, in molti centri i servizi igienici e i presidi sanitari sono insufficienti, in alcune realtà l’acqua non è potabile e fondamentalmente è impossibile mantenere le distanze. Le persone passano le giornate chiuse dentro strutture nella maggior parte dei casi fatiscenti, costrette a lunghe file per ricevere i pasti e sotto il controllo o della polizia e dell’esercito (come in Serbia e Grecia), che impediscono i tentativi di fuga dai campi, o delle imprese di sorveglianza private nei campi in Bosnia (campi gestiti da Iom, a differenza di Serbia e Grecia, dove sono in gestione governativa).
Naturalmente, se già per la popolazione locale è difficile trovare mascherine usa e getta e guanti, per i migranti nei campi è pressochè impossibile, al punto che sia in Grecia che in Serbia, in alcuni dei centri i migranti hanno cominciato a cucire mascherine in stoffa, per la popolazione dei campi ma anche per la popolazione locale, supportati da alcune organizzazioni.
In tutti i campi le organizzazioni che non si occupano di servizi primari, ma per esempio di interventi psico-sociali come Caritas, hanno dovuto sospendere o modificare le loro attività e instaurare una modalità di lavoro degli staff a rotazione, per preservare i propri operatori.
Nonostante in Serbia e in Bosnia Erzegovina non siano stati ufficialmente accertati casi di persone positive al Covid19 tra i migranti nei centri, la stessa cosa non si può dire della Grecia, dove sono scoppiati almeno tre focolai, il primo a Ritsona, una ex base militare a 70 chilometri da Atene, che ospita oltre 3 mila persone, il secondo nel campo di Malakasa, dove è stato trovato un caso positivo tra gli oltre 1.600 residenti, il terzo nel sud della Grecia, a Kranidi, dove 150 su 497 persone di un ostello che ospita famiglie monogenitoriali sono risultate positive al test. In tutti i casi i campi sono stati posti in totale isolamento e quarantena per 14 giorni, e le persone non sono autorizzate a uscire dai loro container, stanze o tende. Per evitare che il fenomeno esploda soprattutto nei contesti come le isole, dove i campi sono sovraffolati e le condizioni di vita più miserevoli, il governo greco ha previsto lo spostamento di almeno 2.300 persone considerate più vulnerabili al virus sulla terraferma, in appartamenti, hotel e altri campi.
In generale le reazioni dei migranti alle misure che sono state messe in atto sono state simili in tutti i luoghi. In primis vi è la sincera preoccupazione di ammalarsi nei campi; le persone sono consapevoli che igiene e misure di distanziamento sociale sono impossibili da tenere. Per fare un esempio, il Bira, un campo in Bosnia Erzegovina per uomini single e minori non accompagnati, che ha una capacità ufficiale di 1.500 persone, ne ospita più di 1.800 e nei container abitativi vivono non 6 persone, ma almeno il doppio. In luoghi così è impossibile fisicamente mettere in atto tutte le procedure necessarie a evitare il contagio.
Altro punto che risulta particolarmente frustrante, soprattutto nei campi in Serbia e in Bosnia Erzegovina, è l’impossibilità di uscire fisicamente dai centri. Questo significa non poter esercitare nessuna libertà di movimento, non poter andare a comprare beni e cibo, magari non necessari per la sopravvivenza, ma di aiuto per resistere psicologicamente. Significa non poter andare a ritirare i soldi che i parenti mandano tramite Western Union e Money gram e ovviamente significa non poter tentare il game, il “gioco” di recarsi a piedi, da soli o guidati dai trafficanti, verso i confini, per cercare di valicarli.
La frustrazione di rimanere bloccati a tempo indeterminato è molto alta; in molti dei campi sono scoppiate risse a volte anche molto violente, tra gli stessi migranti ma anche con le forze di polizia e di sicurezza preposte al controllo dei centri. Questi episodi, in Bosnia Erzegovina, sono avvenuti tra i minori non accompagnati del campo Bira, al Miral di Velika Kladuša, a Blažuj vicino a Sarajevo. Stesse dinamiche, con conseguente intervento pesante della security, a Krnja?a, Preševo e Adaševci in Serbia.
Le organizzazioni impegnate nei centri per migranti potrebbero avere un importante ruolo di stress-relief (supporto in situazione di pressione psicologica) in un contesto di frustrazioni e violenze così diffuse, ma le organizzazioni che gestiscono i campi e i governi locali preferiscono una dimesione di chiusura quasi totale, senza capire che sarebbe importante prevenire la crescita di ulteriori tensioni.
Caritas e Ipsia Acli, partner dei progetti lungo la rotta dei Balcani dal 2016, continuano – nella misura del possibile – le loro attività in Grecia, Serbia e Bosnia. Gli operatori locali sono portavoce e testimoni dei bisogni delle persone; anche se, a seguito dell’emergenza sanitaria, i ragazzi e le ragazze in Servizio civile all’estero hanno dovuto tornare in patria per non rimanere bloccati, e ciò ha tolto forze ed energie ai team locali, gli operatori sul terreno continuano il supporto alla popolazione migrante lungo la Rotta. Un piccolo apporto, in un mare di bisogni, ma il segno di un’attenzione e una prossimità che non devono essere cancellate dal virus.
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