«Non siamo “travolti” da uno “tsunami” di migranti. Come si può giustificare questo brutale e fuorviante linguaggio?». A chiederlo è David Shariatmadari dalle pagine online del Guardian. Da quando, alcune settimane fa, il primo ministro David Cameron ha usato il termine “sciame” durante una trasmissione radiofonica riferendosi ai migranti di Calais, nel Regno Unito il dibattito sul linguaggio utilizzato da parte di politici e media si è intensificato.
Anche in Australia i media riflettono sull’uso del linguaggio e su come esso, negli ultimi decenni, sia cambiato insieme alle politiche di accoglienza del Governo, trasformando i “richiedenti asilo” in “illegali”.
Il linguaggio influenza il modo di pensare? A prescindere dalle numerose teorie e dagli studi che attribuiscono all’uso delle parole un’influenza maggiore o minore sulle nostri menti, è importante essere consapevoli dei termini di cui i media fanno un uso improprio, osserva Shariatmadari, se si vuole «mantenere la capacità di pensare in modo chiaro e indipendente all’immigrazione». Esempi recenti nel panorama britannico sono le metafore “sciame” – usata da Cameron, “saccheggio” – a cui ha fatto ricorso il segretario per gli Affari Esteri, Philip Hammond,”tsunami” – scelta dal Daily Mail, “inondazione” – preferita dal Daily Express. Neppure la virtuosa BBC ne è rimasta immune, scegliendo il verbo “inondare” per descrivere gli spostamenti di chi, giunto in Italia, vuole proseguire verso nord.
Rifacendosi alla linguistica cognitiva, l’autore dell’articolo riflette su come il ricorso a tale linguaggio considerato “figurato” porti con sé molte implicazioni: qual è il concetto che queste metafore trasmettono alla mente di chi ascolta o legge? Il messaggio che arriva, a livello inconscio, e che determina il modo di inquadrare sentimenti, fenomeni, cose e persone potrebbe essere questo: “i migranti sono insetti”, “i migranti sono un esercito invasore”, “l’immigrazione è un’inondazione”. Aggiunge Shariatmadari: «Non dovrebbe essere necessario sottolinearlo, ma: la piaga degli insetti distrugge i raccolti e rovina il cibo; gli eserciti invasori riducono in cenere le città e commettono genocidi; le inondazioni distruggono le case e fanno annegare le persone. I migranti non fanno nessuna di queste cose».
Non è questione di libertà di espressione, ricorda il giornalista, non si vuole in alcun modo limitarla o proibire l’uso di alcune parole; si tratta, piuttosto, di rivedere quegli «schemi di pensiero che non riflettono la realtà»: «Anche mettendo da parte la questione della compassione e del decoro – conclude l’articolo – non può esserci spazio per “i migranti sono insetti” o “l’immigrazione è un’inondazione” in nessuna discussione che pretenda di avere a cuore l’interesse dei cittadini».
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Spostandoci dalla Gran Bretagna all’Autralia, troviamo invece la ricerca «Call me illegal» (in italiano «Chiamami illegale»), di Ben Doherty, giornalista dell’edizione australiana del Guardian, che per il Reuters Institute ha analizzato i cambiamenti del linguaggio nel definire i migranti dagli anni Settanta a oggi.
Il primo a toccare terra è stato Lam Binh, rifugiato giunto dal Sud del Vietnam a bordo di una barca. Era il 1976 e la sua sarebbe stata la prima di tante imbarcazioni nel corso di quattro cicli distinti d’immigrazione, in cui persone in fuga dai paesi del sud-est asiatico hanno cercato salvezza in Australia. In occasione di quel primo arrivo il Governo australiano dichiarava di assumersi le sue responsabilità di fronte alla questione globale dei rifugiati. I vietnamiti che riuscivano ad arrivare erano chiamati dalle istituzioni e dai media “richiedenti asilo” , “rifugiati”.
Oggi le persone che arrivano dal mare sono definite nelle dichiarazioni ufficiali del governo, come spiega Doherty, “illegali”. «I ministri hanno pubblicamente supposto che i richiedenti asilo “potrebbero essere assassini, potrebbero essere terroristi” e hanno riportato che “interi villaggi” stanno venendo in Australia in incontrollate “inondazioni”», sottolinea il giornalista. Allo stesso tempo – e modo – è cambiato il dibattito sull’immigrazione: dalla «questione umanitaria e di diritto internazionale» di cui il Governo parlava negli Settanta, politici e media sono passati oggi a discutere di «protezione delle frontiere» e di «minaccia alla sicurezza nazionale».
«Le alterazioni del linguaggio e del pensiero hanno il potere di cambiare il corso della storia – scrive Doherty – e nel caso dei richiedenti asilo e dei rifugiati, il destino di alcune tra le persone più vulnerabili al mondo […] Spesso sono privi di voce nel dibattito pubblico, definiti solo dal linguaggio usato da altri per descriverli. La loro immagine – la comprensione pubblica di chi essi siano – non è creato da loro stessi, ma da altri».
L’analisi di Ben Doherty, che ripercorre gli ultimi quaranta anni, giunge a una conclusione: i cambiamenti nella terminologia riflettono i cambiamenti dell’approccio politico e amministrativo al fenomeno dell’immigrazione, di cui il linguaggio stesso è strumento. I media, di volta in volta, hanno recepito e fatto loro questi cambiamenti, in un processo che non riguarda solo l’Australia. Lo stesso è accaduto e continua ad accadere negli Stati Uniti e in Europa.
«La terminologia conta perché plasma la nostra comprensione di un fenomeno – ha scritto Jane McAdam, docente universitaria esperta in diritto internazionale, le cui dichiarazioni sono citate nella ricerca – se le persone sono descritte come “illegali”, questo presuppone che abbiano infranto la legge e meritino di essere trattati come criminali». I media, in quanto mezzo principale attraverso il quale i governi comunicano coi cittadini – giocano un ruolo fondamentale nelle diffusione del linguaggio.
«I media non dicono alle persone cosa pensare. Ma hanno una palese influenza nel dire alle persone cosa pensare riguardo a qualcosa» afferma Doherty.
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