Di Ciro Gardi su Altreconomia
Le previsioni dell’entità dei fenomeni migratori per cause ambientali variano tra i 25 milioni e il miliardo di persone entro il 2050. Tutto dipenderà dagli interventi che riusciremo ad attuare nei prossimi anni in termini di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico. L’analisi di Ciro Gardi
Un articolo pubblicato lo scorso anno sulla rivista scientifica statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) indicava che se attualmente solo lo 0,8% delle terre emerse presenta temperature così elevate da essere considerato inabitabile (temperatura media annua ≥ 29.0 °C), nel 2070 questa percentuale raggiungerà il 19%, coinvolgendo (in assenza di fenomeni migratori) 3,5 miliardi di persone. Le previsioni dell’entità dei fenomeni migratori per cause ambientali, fornite da diverse ricerche, variano tra i 25 milioni e il miliardo di persone entro il 2050. Tutto dipenderà dagli interventi che riusciremo ad attuare nei prossimi anni in termini di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, e di contrasto ai numerosi processi di degrado ambientale.
La 26esima Conferenza delle parti sul clima di Glasgow costituisce probabilmente un “tipping point” per la politica ambientale globale e per definire il futuro che vorremmo per il nostro Pianeta. Al di la’ degli accordi che si riusciranno o meno a siglare, degli obiettivi che si prefiggerà di raggiungere, un cambiamento delle condizioni ambientali sulla Terra è inevitabile e con esso le migrazioni indotte dalle sempre più frequenti crisi climatiche. Lo stesso “padrone di casa”, Boris Johnson, intervistato dal Guardian ha affermato che un eventuale fallimento nella trattativa alla Cop comporterebbe entro il 2050 migrazioni di massa e carestie, mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha presentato alla Conferenza quattro punti chiave in relazione alle migrazioni ambientali.
Ottantadue milioni e quattrocentomila persone nel 2020 sono state costrette a lasciare le proprie case, villaggi, paesi e città a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o di disastri ambientali. Si stima che questo numero possa raggiungere i 260 milioni entro il 2050.
Una moltitudine di persone in fuga che comprende sia i rifugiati, che si spostano al fuori dei propri confini nazionali, sia gli sfollati interni che si muovono invece all’interno dei rispettivi Paesi. Questi dati sono forniti dall’Unhcr, ma si tratta tuttavia di una contabilità incompleta e probabilmente ampiamente sottostimata, poiché considera solo le persone aventi lo status giuridico di rifugiato, i richiedenti asilo e appunto gli sfollati interni. Ma le persone che migrano sono molte di più: 281 milioni a livello internazionale, una persona su trenta che abita questo Pianeta è un migrante: migranti economici, migranti ambientali, rifugiati, ma anche studenti che si trasferiscono all’estero e molto altro e i limiti tra queste categorie non sono così netti.
È evidente che i disastri naturali e quelli indotti o aggravati dall’azione dell’uomo rappresentano circostanze che minacciano non solo l’ordine pubblico ma la stessa sopravvivenza delle persone. Tuttavia da parte del diritto internazionale non esiste a oggi un pieno riconoscimento consolidato dello status di “rifugiato climatico” o “rifugiato ambientale”. Esiste tuttavia una piccola breccia in questa monolitica definizione, costituita dalla decisione assunta dal Comitato dei diritti umani dell’Onu il 7 Gennaio del 2020 in relazione al caso di un cittadino della Repubblica di Kiribati, un atollo dell’Oceano Pacifico, che si era visto negare dalla Nuova Zelanda il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra e che pertanto era stato rimpatriato nel Paese di origine.
Il problema delle migrazioni è estremamente complesso, poiché esiste una strettissima correlazione tra i fattori che ne sono alla base. Gli effetti del cambiamento climatico o delle crisi ambientali non sempre sono distinguibili o dissociabili dalle crisi economiche, sociali o dai conflitti che costringono milioni di persone a fuggire dai propri territori di origine. In molti casi i disastri ambientali possono essere la causa di crisi economiche, tensioni sociali, conflitti elimina, in altri casi ne sono la conseguenza.
Le primavere arabe, i conflitti per il controllo dell’acqua ne sono un esempio, così come le devastazioni ambientali lasciate sul campo dai vari conflitti, grandi e piccoli, che si susseguono a ritmi crescenti nelle varie parti del mondo.
In molti Paesi del mondo il numero di migranti e sfollati per cause ambientali supera il numero di persone costrette a fuggire per causa di guerre o persecuzioni razziali o religiose. Secondo i dati dell’Internal Displacement Monitoring Centre (2020) il numero di sfollati a causa di conflitti è stato pari a 9,8 milioni di persone, contro i 30,7 milioni di sfollati per cause ambientali.
In questa fase storica, nella quale dopo decenni di appelli inascoltati di una parte della comunità scientifica ci si occupa finalmente del cambiamento climatico, si utilizza spesso la definizione di migranti climatici. Ma anche in questo caso alla base di questi processi migratori (prevalentemente interni ai Paesi fino ad ora) c’è una molteplicità di cause, in parte gli effetti diretti e indiretti del cambiamento climatico, ma anche l’inquinamento, la degradazione delle terre, il sovrasfruttamento delle risorse naturali, la deforestazione e la perdita degli habitat. Il cambiamento climatico agisce da “amplificatore” di vulnerabilità preesistenti i cui effetti sono tanto più gravi quanto maggiore è la fragilità economica, sociale, culturale delle comunità e dei territori colpiti.
Processi di urbanizzazione spingono le popolazioni delle zone rurali a migrare verso le città con la speranza di trovare maggiori opportunità di sopravvivenza. Questo porta ad aggravare le condizioni di vita, spesso già molto precarie, nelle megalopoli dei Paesi più poveri del Pianeta, innescando vere e proprie bombe sociali e potenziali conflitti. È una dinamica che ci “interessa”?
Nell’ambito della Campagna “#Climate of Change” nell’autunno del 2020 è stata condotta un’indagine tra i giovani (tra i 17 e i 35 anni) di 23 Paesi dell’Unione europea in relazione alla percezione della questioni legate a cambiamento climatico, sostenibilità ambientale e migrazioni. Come si può osservare di seguito, il cambiamento climatico, la degradazione ambientale e la diffusione di malattie infettive (effetto Covid-19) sono in testa alle preoccupazioni dei giovani europei, mentre il tema delle migrazioni a scala globale viene considerato un problema secondario. La metà dei giovani intervistati si ritiene sufficientemente informata sul cambiamento climatico, un terzo sul tema delle migrazioni e solo un quarto sulle migrazioni ambientali.
A Glasgow i nodi verranno al pettine, capiremo se i timori, il desiderio di cambiamento delle nuove generazioni verranno presi in seria considerazione. Gli esiti della COP26 sul cambiamento climatico saranno fondamentali, non solo per poter mitigare il cambiamento climatico in atto e limitarne gli effetti sul Pianeta e sulla popolazione umana, ma costituiranno uno spartiacque per decidere verso quali priorità l’uomo, o meglio i decisori politici, intendono andare.