Scheletri di ombrelli, un gabbiano, kleenex usati e una grata arrugginita che si apre e si chiude. Un tappeto di melma, l’odore stordisce. Fathi si sposta il ciuffo di capelli, abbassa la testa e scende giù nel buco. «Meglio dormire fuori». Abdul risale la scaletta e si stringe nella felpa per il freddo. «Io sto qui, sotto l’albero». La sua vita è in un metro quadrato fatto di un cartone, una coperta marrone e due sacchetti di plastica blu. «Fuori è meglio, perché tira vento e non c’è quella puzza»,dice. Ma quella puzza, anche se tira vento, rimane impressa nelle narici. E non se ne vuole andare. Fathi ha 14 anni, vive qui da due anni ed è arrivato da solo da Gharbia, in Egitto. Abdul ne ha 16. Come lui Ibrahim e gli altri. Venti, trenta ragazzini che dormono per terra, rubano, si prostituiscono. Invisibili. In un giardino con pochi fili d’erba rinsecchiti, tra taxi che aspettano e pullman che scaricano turisti, dietro a chioschi di libri usati e reliquie del Ventennio. Nel cuore della Capitale. Attorno al più importante snodo ferroviario nazionale.
Si apre così il reportage di Floriana Bulfon e Cristina Mastrandrea per l’Espresso. «Orchi alla stazione» – questo il nome del pezzo – racconta la quotidianità vissuta da quei minori stranieri, principalmente egiziani, che non trovano alternativa allo sfruttamento sessuale per riuscire a racimolare il denaro necessario a sopravvivere.
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