Fotografie, installazioni e video per raccontare la crisi dei rifugiati e la sfida delle problematiche abitative nella mostra in corso al MoMA
Al mondo sono oltre 65 milioni i richiedenti asilo, rifugiati e sfollati interni, per i quali rifugio vuol dire fuga e costante movimento. Partendo da quest’idea Sean Anderson ha realizzato la mostra Insecurities: Tracing Displacement and Shelter visitabile fino al 22 gennaio al Museum of modern art (MoMA) di New York.
L’esposizione esplora i modi in cui l’architettura contemporanea e il design hanno declinato l’idea di rifugio a seguito dell’emergenza globale che ha coinvolto i rifugiati. I campi, una volta considerati insediamenti temporanei, sono infatti diventati posti nei quali indagare come i diritti umani s’intersechino con la creazione di città. La mostra espone progetti sviluppati nei campi profughi di tutto il mondo, dallo Sri Lanka all’Iraq fino a Lampedusa.
L’architettura transitoria come sfida per restare umani
I campi informali sono esempi di un’architettura transitoria e in continua trasformazione. Si tratta di luoghi nei quali s’incontrano differenti nazionalità, culture e religioni, costantemente alla ricerca di nuovi equilibri. I campi sono quindi interpretabili come piccole città in scala, sfida alla quale la mostra ha cercato di rispondere, pensando alle diverse esigenze degli abitanti dei campi, dalla scuola ai servizi sanitari.
In quest’ottica, fotografie, installazioni e video che compongono l’esposizione al MoMA sono uno punto di partenza di analisi e riflessione, perché, secondo Andersen «l’architettura e il design sono la cartina tornasole che testa la nostra identità, il nostro essere umani».
La mostra è parte della serie di progetti del MoMA “Citizens and Borders” relativi ai lavori che offrono, nella collezione, una prospettiva critica delle storie di migrazione, territorio e trasferimenti.
La foto in evidenza è di Brendan Bannon. Ifo 2, Dadaab Refugee Camp. 2011.