Il “Team Refugees” di Rio 2016 sta catalizzando l’attenzione mondiale. Ma a Olimpiadi concluse cosa accadrà?
“Il mondo è commosso dalla squadra rifugiati. Ma non lo è dai rifugiati”, scrive sul New York Times Roger Cohen.
In occasione delle Olimpiadi ha parlato di loro Obama, così come l’ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Samantha Power: il team refugees ha catturato l’attenzione di istituzioni e media. Ad accoglierla a Rio una standing ovation.
Della squadra rifugiati si parla molto e il mondo la ama. Eppure, scrive Cohen, “la glorificazione della squadra rifugiati e la denigrazione dei rifugiati coesistono“. Come è possibile, si chiede? La risposta è nel sempre ben radicato principio “not in my backyard“, non nel mio giardino: li amiamo finché uniti sotto alla bandiera olimpica a Rio, ma quando arriva il momento di accoglierli abbiamo più difficoltà.
Un’impressione che trova conferma nei risultati dell’indagine condotta in dieci paesi europei dal Pew Research Centre Overall: sono tanti i cittadini – in Polonia, Grecia, Ungheria, Italia e Regno Unito in particolare – che considerano i rifugiati una minaccia per la sicurezza e per l’economia. Collegano la loro presenza al terrorismo e temono che abbia un impatto negativo su finanza e occupazione.
Dopo la fanfara, se ne ricorderà qualcuno?
Il presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, ha affermato: «Vogliamo inviare un messaggio di speranza a tutti i rifugiati nel nostro mondo». Ma una volta spenti i riflettori cosa accadrà? Ci ricorderemo ancora di loro? “Ora camminano sotto una bandiera olimpica – osserva il NYT – Ma vogliono la bandiera di una patria”.
Una questione sui cui tornano anche Angelo Romano e Andrea Zitelli su Valigia blu: la squadra rifugiati è raccontata dai media attraverso le storie e le dimostrazioni di coraggio degli atleti, ma l’esistenza stessa della squadra secondo alcuni è la dimostrazione del “fallimento della politica internazionale” poiché “racconta una tendenza sempre più negativa: un viaggio pericoloso e anni di vita in un limbo”.
Valigia Blu riprende le osservazioni di Kathleen Newland, ricercatrice del Migration Policy Institute, la quale nota che “la parola ‘rifugiato’, che dovrebbe essere un’etichetta temporanea, si sta trasformando così nell’unica identità possibile” per moltissime persone. Il rischio di questa tendenza, evidenziato provocatoriamente da Newland, è che l’unica forma di appartenenza sia quella di rifugiato: il team presente alle Olimpiadi continuerà a ingrossarsi sempre di più.
Di rifugiati si parla soprattutto in caso di incidenti con un alto numero di morti o nell’ambito del dibattito politico, ma l’attenzione mediatica generata dalla presenza del team refugees a Rio 2016 ha una grande potenzialità: far aumentare – come si augura la giornalista Dara Lind su Vox – la sensibilità dell’opinione pubblica nei confronti dei rifugiati, senza che siano più necessarie delle vittime affinché l’opinione pubblica si accorga della crisi umanitaria in corso.
Solo in questo modo il messaggio di Thomas Bach avrà davvero un senso.