Alì Muse è morto tra le fiamme della struttura nella quale era rientrato per recuperare i suoi documenti, ecco alcuni dei retroscena dietro il dramma umano
A cura di Cronache di ordinario razzismo
Recuperare i documenti necessari per ottenere il ricongiungimento familiare con la moglie e i due figli: è questo il motivo che ha indotto Alì Muse a sfidare le fiamme. Quei pezzi di carta li ha considerati così importanti da rischiare la sua vita rientrando all’interno della struttura occupata in cui viveva, mentre era in corso un incendio causato probabilmente da una stufa lasciata accesa.
E la sua vita l’ha persa.
Alì Muse, era somalo, aveva 44 anni ed era titolare di protezione internazionale.
In Italia dal 2008, nel 2012 era stato ospitato nel centro di accoglienza Paci per sei mesi. In seguito, in mancanza di un lavoro stabile e di un alloggio alternativo, nel 2014 era andato ad abitare insieme a molte altre persone nella struttura dismessa dell’ex mobilificio Aiazzone nel comune di Sesto Fiorentino, occupata dal Movimento di Lotta per la Casa.
Le pessime condizioni strutturali e igienico-sanitarie dei locali erano ben note alle istituzioni come ricorda in un comunicato diffuso ieri Medu, attiva sul posto dal maggio 2015 con un servizio di assistenza sanitaria. Da gennaio Acea aveva persino interrotto l’erogazione di energia elettrica.
Alì non è solo vittima di un incidente.
Non conosciamo i dettagli della sua storia e del suo percorso in Italia. Non servono per constatare che dopo diversi anni di residenza in Italia, un titolare di protezione internazionale non dovrebbe vivere in questo modo.
Tra le molte torsioni e le numerose omissioni che caratterizzano il dibattito pubblico e istituzionale di questi giorni, c’è una rimozione particolarmente grave. È la totale assenza nelle priorità dell’agenda di governo di un piano che preveda politiche efficaci di inclusione sociale, di formazione e di inserimento lavorativo dei titolari di protezione presenti nel nostro paese. Interventi indispensabili, per garantire di potersi ricostruire una vita autonoma e dignitosa a chi è stato costretto a lasciare il proprio paese, e utili anche ad evitare la perenne congestione del sistema di accoglienza.
Non è solo un problema di risorse che, pare, si vogliano trovare per affinare le attività di controllo dei mari e delle frontiere, per ampliare il sistema dei Cie e per eseguire i rimpatri di coloro che saranno definiti migranti “irregolari”.
È miopia politica pura che, se perpetrata, continuerà a causare, se non morti assurde e inspiegabili come quella di Alì, condizioni di vita precarie e ai limiti della dignità umana di molte migliaia di persone.
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