“Invisibili”, “alieni”, “nell’ombra”, “inutili”, “cani randagi”. Difficile riuscire ad accettare che siano dei bambini a definirsi così, ma è quanto emerge dal rapporto “I am Here, I Belong: the Urgent Need to End Childhood Statelessness“, realizzato da Unhcr, che ha intervistato minori apolidi in sette stati.
«Nel breve tempo che i bambini hanno per essere bambini, l’apolidia può scolpire nella pietra gravi problemi che li perseguiteranno per tutta la loro infanzia e li condanneranno ad una vita di discriminazione, frustrazione e disperazione – commenta l’Alto Commissario delle Nazioni unite per i Rifugiati, António Guterres – Nessuno dei nostri bambini dovrebbe essere apolide. Tutti i bambini dovrebbero avere un luogo a cui appartenere».
Costa d’Avorio, Repubblica Dominicana, Georgia, Italia, Giordania, Malaysia e Thailandia sono i paesi dove, tra bambini, giovani, genitori e tutori, in 250 hanno raccontato la propria storia. Ricorrenti alcuni elementi: dalla privazione del diritto allo studio a quella dell’infanzia. Le esperienze raccolte parlano di bambini trattati come stranieri nel paese in cui sono nati, di titoli di studio negati e lavori umili, di sfruttamento e abusi, di emarginazione e povertà.
Con la pubblicazione del rapporto, l’Unhcr ha rilanciato la campagna #IBelong, rinnovando l’appello che chiede ai governi di porre fine all’apolidia. L’Italia di recente ha autorizzato l’adesione alla Convenzione del 1961 sulla riduzione dell’apolidia, impegnandosi così a livello internazionale a porre fine a questo status giuridico.
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