“Questo è prima di tutto un appello per proteggere il giornalismo stesso”, sono le parole di apertura di Christiane Amanpour, giornalista della CNN, che davanti al Committee to Protect Journalists di New York il 22 novembre riflette sul ruolo che i media dovrebbero assumersi oggi, nell’era di Trump, nell’era che è stata definita “della post verità”.
Tutto è iniziato con il tweet di Trump all’indomani delle elezioni dell’8 novembre che l’hanno visto vincitore:
Just had a very open and successful presidential election. Now professional protesters, incited by the media, are protesting. Very unfair! — Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 11 novembre 2016
Just had a very open and successful presidential election. Now professional protesters, incited by the media, are protesting. Very unfair!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 11 novembre 2016
Nel tweet il futuro presidente degli Stati Uniti d’America si è scagliato contro il ruolo di “sobillatori“ dei media, a sostegno di “sovversivi e oppositori”. Rispetto a questa semplificazione, con la quale Trump equipara i protesters ai media, i contestatori ai giornalisti, la Amanpour commenta: “Ho imparato molto tempo fa, lavorando in Bosnia ad un articolo sul genocidio che si stava perpetrando, che non bisogna mai mettere allo stesso livello la vittima con l’aggressore, mai creare una falsa morale, perché questo ti rende complice delle conseguenze che ne derivano. Io credo che il giornalista debba essere attendibile, non neutrale. E credo che dovremmo smetterla di banalizzare la verità”.
E aggiunge: “Si assiste a un vero e proprio tsunami di siti di fake news, ma non tutti le riconoscono, o non tutti vogliono farlo”. In questo contesto internazionale, dove la viralità prevale sulla verità, appaiono sempre più determinanti i social network. Citando Wael Ghonim, uno dei promotori della primavera araba, l’Amanpour scrive: “I social media tendono a ridurre la complessità delle sfide sociali a slogan che risuonano come in una echo chamber – una sorta di stanza dell’eco, dove c’è spazio solo per opinioni conformi alla propria, senza possibilità di confronto e contraddittorio – i discorsi d’odio e le falsità si trovano accanto alle buone intenzioni e alla verità”.
Per l’Amanpour, il ruolo del giornalista deve essere reattivo: “Dobbiamo combattere contro la normalizzazione dell’inaccettabile (e lo strumento indicato è l’esercizio del libero pensiero). Il nostro superpotere è la cultura, perché le cose cattive accadono quando le brave persone non fanno niente”.
L’attenzione della giornalista si focalizza in particolare sui media americani: “Gli Stati Uniti sono emulati in tutto il mondo, come giornalisti statunitensi abbiamo perciò la responsabilità di essere un esempio positivo, di giornalismo attendibile e credibile, senza essere disonesti e, soprattutto, senza girarci dall’altra parte”. Altrimenti il rischio è, come scriveva Corrado Augias pochi giorni fa su Repubblica, di diventare un finto innocente che “china la testa e guarda altrove perché ha paura – o forse peggio: perché è già rassegnato”.
Il discorso di Christiane Amanpour è sul Guardian in maniera integrale.
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