Un articolo di Marta Bernardini su Nigrizia
Ricordare le vittime del 3 ottobre 2013 significa ricordare le 40mila persone che sono morte nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni, i morti come quelli del 30 settembre 2013 a Sampieri, un’altra costa siciliana, e tutti i corpi ancora dispersi in mare. Dispersi che non verranno probabilmente mai recuperati, assenti ma presenti per i familiari che non possono piangerli. Tutto questo con l’amara certezza che altre persone continuano a morire.
Per cercare di restituire dignità e memoria, scegliamo di rivolgere il nostro impegno simbolico e politico ricordando, dando un nome e un volto dove possibile, perché le voci non siano più sempre solo le nostre.
Siamo e saremo a Lampedusa per denunciare quanto accade: chiediamo che non ci siano altri morti alle frontiere, altre persone costrette a subire violenze, torture, a dover fuggire dal loro paese, dall’Afghanistan alla Tunisia, fino alla Libia, ovunque siano. Crediamo nell’autodeterminazione delle persone e dei popoli, e che l’Europa si debba fare carico del diritto di ognuno ed ognuna a cercare una vita migliore, dignitosa, con sogni e desideri.
Servono corridoi umanitari, vie di accesso legali, serve che l’Europa condivida la responsabilità dell’accoglienza. E nel frattempo occorre che chi salva vite in mare lo possa fare nel migliore dei modi.
12.681 sono le persone arrivate dal 1 maggio al 31 luglio su questo piccolo lembo di Sicilia. Nel mese di agosto sono arrivate a Lampedusa 5.579 persone. Di queste, 3.773 sono partite dalle coste tunisine mentre 1.804 dalla Libia. Moltissime quelle respinte dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate in carceri infernali. Persone a cui vanno garantiti diritti, dignità, una possibilità di futuro.
Saremo a Lampedusa dunque – non solo in questi giorni ma tutti i giorni dell’anno – per ricordare le persone morte ma anche per continuare ad occuparci dei vivi. Donne, uomini, bambini e bambine che arrivano al molo, dopo giorni di navigazione in mare aperto. Ci guardano, spesso sembrano “morti viventi”, non ancora morti ma neanche pienamente vivi, de-umanizzati, camminano a stento.
Altre volte, con i loro sguardi, corpi dritti, affermano la loro determinazione, la resistenza alla violenza della frontiera, combattenti felici di avercela fatta. Sono sopravvissuti e sopravvissute, spesso all’orrore dei lager libici, altre volte allo sfruttamento delle risorse, altre ancora a crisi climatiche, politiche e democratiche di cui sappiamo sempre troppo poco.
Tutte queste riflessioni rientrano nel nostro impegno ecumenico, come chiese, ad essere dalla parte di chi è reso ultimo, a non voltare lo sguardo altrove, a dire che non sapevamo.
Alla commemorazione ecumenica in programma domenica 3 ottobre a Lampedusa sono intervenuti, tra altre voci, il pastore Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e monsignor Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, a partire da un passo biblico: Deuteronomio 4, 9-14.
Il filo rosso di questo brano è la memoria, un tema biblico fondamentale: nella Bibbia la memoria fa diventare coloro che ricordano dei contemporanei di coloro che vissero gli avvenimenti ricordati. Annulla cioè in qualche modo la distanza e si struttura non solo una solidarietà ma anche una immedesimazione nell’altro, nell’altra.
Il riferimento al mantenere viva la memoria indica inoltre un aspetto educativo e di testimonianza, la volontà di raccontare, di lasciare un segno per chi verrà dopo di noi. Diceva giustamente Greta Thunberg in questi giorni che «è ora di dire basta al bla bla bla» per le politiche sul clima, così strettamente connesse anche ai flussi migratori. Siamo d’accordo, il tempo è ora, per coltivare memoria e costruire così anche un futuro più umano.
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