Di Fatou Diako su Articolo 21
Nel clima mediatico (e purtroppo pienamente giustificato) della paura collettiva generata dalla crisi ucraina, sembra andare sempre di più diversificandosi il concetto della diaspora, derivante da un significato etimologico comune di fuga o dispersione di un “popolo” o delle sue istituzioni nel mondo.
Se è vero che i conflitti, soprattutto se di violenza indiscriminata, e vicino casa nostra, come quello odierno, stimolano i più atavici timori e si stemperano tiepidamente soltanto nel conforto dell’accoglienza suggerita dalla “pietas” per i più deboli e dall’empatia per le sofferenze umane, è altrettanto vero che fino a poco tempo, nella nostra generale ottusa ignoranza, se si comprendeva in qualche modo che le migrazioni hanno (e hanno avuto nel tempo) origini e natura diversa, corrispondentemente alle differenti situazioni geopolitiche di provenienza, apparivano comunque tendenzialmente univoci il sentimento e l’espressione di quella pietas, che vuole abbracciare il più debole, come concetto o categoria generale, per non farne più distinzione con il sè e con gli altri. Non si è trattato in questo di una banalizzazione dei concetti e delle categorie, ma di una esternazione autentica di un antico senso di compassione umana, che appunto trae origine dalla consapevolezza e ricognizione di sofferenze e debolezze che appartengono indistintamente all’uomo come individuo. Da tale consapevolezza si è sviluppata l’esternazione dell’empatia, nel riconoscimento di una dignità che mai deve essere negata.
Ora, la crisi ucraina con la fuga di massa dei disperati ci sta mettendo di fronte ad uno stravolgimento di quanto sopra indicato e dello stesso concetto di umana compassione. L’empatia nostra non sembra più muoversi indistintamente verso i profughi, o il profugo inteso come individuo destinato alla dispersione, sua, di una collettività originaria, o identitaria, ma comunque degna di attenzione, ascolto e tutela, ma pare perseguire un assurdo ondeggiare suggerito da criteri discriminatori. La guerra che strazia un territorio, non è più la guerra di quel territorio, in grado di ospitare, fino a un certo momento, non un popolo, ma le popolazioni che lo abitano anche se non necessariamente autoctone. È, o sembra essere, la guerra contro i diritti degli ucraini, cui giustamente si volge il nostro sguardo affettuoso, ma solo verso questi appare muoversi l’attenzione, nella generale commozione collettiva, sprezzante degli altri. Ma che ne è di quei profughi, già profughi in terra ucraina e oggi straniti, smarriti e disconosciuti dal mondo? Come non ammettere che la migrazione della migrazione “non è ammessa” o non sempre tollerata? Forse le nostre limitazioni mentali, che ci fanno tendere alle eccessive semplificazioni non sono in grado di cogliere le sfumature delle migrazioni, dei loro caratteri. Nella nostra semplificazione eccessiva, e banalizzazione, del concetto di diaspora, non solo non vediamo le diaspore, ma le discriminiamo, addirittura, lasciandole fuori dall’accoglienza, bloccandole ai confini, facendo differenze che offendono l’uomo vulnerato, non riconoscendolo più come tale, destinandolo all’oblio, mediatico e sociale.
Questa lunga osservazione gira sull’idea di fondo che l’accoglienza è di tutti e per tutti; certamente sarà più facile la via della salvezza per la middle class munita di passaporto, ma come tale categoria non deve essere discriminata perchè in qualche modo già privilegiata, non deve discriminarsi nemmeno il povero o il profugo dell’Ucraina o il passeggero di turno, l’uomo del transito. L’accoglienza, si diceva, è per tutti; è la nota che accorda e consente l’uguaglianza, sociale e sostanziale, che si fa portavoce e portatrice di diritti e di tutele… In fondo, è questione di pietas…
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