di Francesco di Pietro
La Calabria è una terra bagnata da due mari. Su una collina in riva al mar Tirreno vi è il mio paese natìo, baciato dal sole ed accarezzato dal maestrale: Nicotera. È circondato a Sud dalla Sicilia col suo Etna sbuffante, e ad Ovest dalle isole Eolie con un altrettanto fumeggiante Stromboli. Nel mezzo, il mare con le barche dei pescatori. Che, per le loro vele bianche e triangolari, si sarebbero potute scambiare “per rondinelle dirette al nido” (scrive Alexander Dumas padre, in “Mastro Adamo, il calabrese”). Un giorno decido di andare dall’altra parte, sul versante jonico. Per visitare un paese di cui tanto avevo letto negli ultimi mesi: Riace. È la mattina del 17 agosto e sulla lunga spiaggia di Nicotera Marina i tanti bagnanti cercano riparo dal sole cocente sotto colorati ombrelloni. Altri nuotano nel blu del mare, a tratti biancheggiante a causa delle onde. Percorro la strada che taglia le campagne di agrumeti della piana di Gioia Tauro. Campagne ammirate da Carlo Levi, che passandovi in treno, così le descrisse nel romanzo “Le parole sono pietre”:
Sulle campagne di Nicotera, grigie nell’ora che precede l’alba, grande e rotonda, la luna, alla mia destra, dalla parte del mare e già, dall’altra parte, dietro i monti di Calabria, il cielo si schiariva e le incerte nubi si stringevano, e prendevano forma nel cielo limpidissimo. Guardavo, appena sveglio, quella luna lucente nel liquido metallo grigio-viola del cielo, dal quadro del finestrino del treno in corsa, quasi dubbioso che essa fosse un sole impallidito; vicini passavano i boschi d’argento e i campi degli aranci e dei limoni con le fresche ombre scure e le palle dei frutti fosforescenti di una loro intensa luce rossa e gialla, come mille piccoli soli.
Giungo a Rosarno, per poi imboccare la strada che collega i due mari. S’impiegano 40 minuti per raggiungere il mar Jonio. Ogni tanto incrocio qualche migrante africano in sella ad una bici sgangherata. Pedala a fatica, sul ciglio della strada, per raggiungere i campi, dove lo attendono altrettanta fatica ed una misera paga. Il ricordo va a scene viste tanti anni fa. Quando da studente mi recavo, alle prime ore del mattino, alla stazione di Rosarno. E vedevo le lunghe fila di migranti africani seduti su un muretto ad attendere il furgoncino del caporale.
Fonte: pagina Facebook “Gli Africani salveranno Rosarno”
Negli anni successivi, ho continuato a vedere: le baracche fatiscenti, le tende improvvisate, i vestiti stesi ad asciugare sui muri di cinta della famigerata Cartiera. E mio papà che, transitando da lì in auto, accostava, si avvicina ad un gruppetto di migranti per dare loro qualcosa, qualche lira. “Almeno stasera mangeranno qualcosa” – diceva rattristato una volta risalito in auto.
Il pensiero va anche ai lunghi ed appassionati dialoghi con l’amico Giuseppe Pugliese dell’associazione “SoS Rosarno”. Un eroe romantico calabrese. Uno dei pochi rimasti. Un Don Chisciotte del tempo presente contro i mulini a vento del tempo presente: le multinazionali alimentari e la GDO.
fonte:pagina Facebook Celeste Logiacco, Flai Cgil Piana di Gioia Tauro
Eccomi poi transitare accanto al porto di Gioia Tauro. Alte gru ed infinite distese di colorati container. Dentro, ben imballate, le merci in viaggio da un continente all’altro. A pochi chilometri, le tende fatiscenti di San Ferdinando con dentro miseri esseri umani, anch’essi in viaggio da un continente all’altro. Da lì s’imbocca la strada di grande comunicazione Jonio – Tirreno. Ci siamo lasciati alle spalle le campagne con mandarini e limoni. Il paesaggio cambia, diviene montano, pieno di fitti boschi. Siamo nei pressi dell’Aspromonte. E per un attimo mi ricorda la mia verde Umbria. Eccolo poi variare in distese brulle, quasi aride. Sono i letti asciutti delle fiumare. Caratteristica della Calabria.
Dopo pochi chilometri, compare in lontananza il mar Jonio. In 40 minuti, in Calabria, si passa da un mare all’altro. Arrivo a Gioiosa Jonica e proseguo verso nord. Statale 106. Strada pericolosa e spesso teatro di incidenti mortali. Attraversa e collega tra loro diversi paesi costieri. Proseguendo verso Nord, dopo Gioiosa, ecco Roccella, poi Caulonia.
Guido ed osservo il paesaggio. Mi hanno sempre colpito le case incomplete. Tanti palazzi hanno la facciata con i mattoni a vista e sono senza tetto: ci sono i pilastri per costruire poi un altro piano. Si vuole sopraelevare, si vuole costruire la casa per i figli, per quando si sposeranno. Quei pilastri son brutti: è vero. Ma il motivo della loro presenza mostra una cosa dell’animo dei calabresi: pensare ai figli. Lo ha ben narrato il registra calabrese Gianni Amelio nel film “Il ladro di bambini”. Mi ha sempre commosso la scena dell’abbraccio tra il nipote carabiniere e la nonna, in mezzo alle case incomplete e con alle spalle le auto che sfrecciano indifferenti sulla 106. In quella breve scena sono narrati tutti i pregi e tutti i difetti di questa terra.
Continuo il mio viaggio. Passando per Caulonia, mi ricordo di una storia letta al liceo. Quella dell’autoproclamata “Repubblica rossa di Caulonia” nel 1945 e della rivolta dei contadini, soggetti alle angherie dei potenti proprietari terrieri. Una sorta di repubblica partigiana del profondo Sud. O almeno mi piace pensarlo. Infine arrivo a Riace Marina. In quelle acque, nel 1972, furono scoperti i famosi bronzi. Uno dei doni più preziosi dei nostri antenati greci. La mia destinazione è Riace superiore. Dalla costa mi sposto verso l’interno, percorrendo una strada con tornanti in salita e che taglia un paesaggio arido e con scarsa vegetazione. La terra arsa dal sole mostra le difficoltà di vita che hanno sempre avuto gli abitanti di questa parte di Calabria. Giungo a Riace accolto da colorati segnali: “Il paese dell’accoglienza”. E faccio presto a capire che sia proprio così. Nella piazzetta, alcune ragazze nigeriane siedono sulle panchine, all’ombra degli alberi, con i loro bambini. Loro vicine, siedono alcune anziane signore. Entro nel bar per un caffè e scambio due chiacchiere con il barista. «Io sono di Nicotera», dico. «Ah! Dall’altro lato!» esclama. Subito vengo avvicinato da un anziano signore dai modi garbati. Mi chiede se fossi appena arrivato e mi da alcuni consigli sulle cose da vedere. Questi non era solo. Era accompagnato da un suo amico, anche lui con tante primavere sulle spalle. Sedevano insieme al tavolino del bar.
È facile imbattersi, nei tanti piccoli paesi della Calabria, in anziane persone sedute sul gradino dell’uscio di casa, su una panchina o al tavolino di un bar. Stanno seduti. Non fanno nulla e parlano pochissimo. Assorti nei loro pensieri. Ho sempre pensato che essi fossero come gli eredi degli antichi filosofi greci, vissuti anticamente in questi luoghi, in Magna Grecia.
A un osservatore distratto potrebbero sembrare dei meri sfaccendati. Ma a guardarli bene nei loro volti solcati dalle rughe, a guardare il loro sguardo assorto e gli occhi fissi nel vuoto, vengono in mente Eraclito o Empedocle. C’è un filo rosso, infatti, tra quei vecchi e i filosofi presocratici. “Era destino!” – si sente spesso dire sospirando ai nostri vecchi. “πάντα ῥεῖ” (Panta rei. Tutto scorre) – diceva Eraclito. C’è un filo rosso tra il divenire eracliteo ed il nostro fatalismo o la nostra rassegnazione. Altra eredità lasciataci dagli antichi greci. Come quei bronzi rinvenuti nel mare di Riace. Ma non altrettanto bella.
Percorro la via principale del paese e la mia attenzione è attirata subito dai colorati grandi disegni sui muri delle case. Ne riconosco subito uno già visto in una foto su un sito internet: tante nuvole con i nomi dei tanti paesi da cui arrivano i migranti. “Dove vanno le nuvole?” – c’è scritto in basso. Forse un omaggio a Modugno o forse a Pasolini. “Cosa sono le nuvole?” – faceva chiedere Pier Paolo Pasolini a Otello, Ninetto Davoli, nell’omonimo film.
“Villaggio globale”. La scritta campeggia su un piccolo colorato arco in legno. Dopo di esso, un laboratorio artigiano di ceramica. Entro per ammirare i lavori esposti. Al suo interno sedevano, intente a decorare, una ragazza di Riace ed una ragazza pakistana. «Lei non parla italiano. Comunichiamo in inglese.» dice la ragazza italiana. «Ma tu non parli urdu?» chiedo scherzosamente a quest’ultima, che risponde ridendo.
La giovane pakistana è molto bella. Ha dei lunghi capelli nero corvino. Non parla ed ha un contegno serio. Il suo silenzio la rende un pò misteriosa e quindi ancora più bella. Cammino per le viuzze del paese. Molto simili al centro storico della mia Nicotera. Mi ricordano il quartiere baglio ai piedi del Castello dei Ruffo. Ecco il bel murale dedicato a Peppe Valarioti, “giovane ribelle”. Rosarnese, comunista, ucciso a soli trent’anni dalla ‘ndrangheta. Fu ucciso proprio a Nicotera, a colpi di lupara. Un po’ di Rosarno in quel di Riace.
Da un grande portone sovrastato da un antico portale in pietra escono due ragazze nigeriane cinte da lunghe vesti colorate. Parlano a voce alta, come sono solite le nigeriane. E ridono. Salgono su per la viuzza in salita e si fermano a parlare con alcune persone. Passa per la piazzetta un’altra ragazza nigeriana con il figlioletto legato dietro la schiena a dormire beato. Il silenzio è rotto dal rumore di un piccolo trattore guidato da un giovane africano. Tira un altrettanto piccolo rimorchio con i sacchetti della raccolta differenziata. Percorro una via in discesa e mi dirigo verso un arco. Lì c’è un affaccio sulle campagne circostanti: un paesaggio brullo ed arido.
Su una parete, un grande disegno raffigura il volto rugoso di una nostra vecchia e, sullo sfondo, una giovane mamma africana tiene il figlioletto per mano. Sono il prima ed il dopo. Il paese in cui son rimasti solo i vecchi e che stava per morire, oggi rivive ripopolato dai giovani nuovi arrivati. È nella normalità delle cose. Da un lato abbiamo dei tetti senza le persone sotto. Da un altro lato abbiamo persone senza un tetto sopra la testa. Il resto va da sé. È semplice. È normale che quelle persone vadano a vivere sotto quei tetti. È l’utopia della normalità di cui parla il sindaco di Riace, Domenico Lucano. La giustizia è sorella della semplicità. Non dobbiamo stare a interrogarci su quale sia il migliore modello di giustizia, per poi dimenticarci di attuarla. La giustizia tende a manifestarsi nei fatti, scriveva Cicerone in un frammento al “De Re Pubblica”:
Iustitia foras spectat et proiecta tota est atque eminet
La giustizia deve essere un fatto. Un fatto semplice e normale. Ed a Riace la giustizia si manifesta nei fatti. Ed eccone tanti altri di tali fatti. Una bottega di lavorazione di oggetti in vetro e rame dove lavorano insieme una ragazza di Riace ed una ragazza somala. Una bottega di lavori di ricamo dove lavora un’elegante donna afghana con un colorato velo a coprirle il capo e dal portamento aristocratico. Non sorride e non parla, chiusa in un suo dignitoso silenzio. Compro qualche oggetto.
Non chiedo loro nulla. Ho sempre pensato che qualsiasi domanda posta ai rifugiati rischia di apparire stupida. Chiedo solo il paese di provenienza. Mi basta quello per capire la loro storia. Penso alla situazione di sottomissione ed ai drammi delle donne afghane. Penso per un attimo ad una mia assistita, Madina, ed a sua madre vittima dei talebani. Non chiedo nulla. Meglio un sorriso ed un incrocio di sguardi. Ci tengo però a dire loro: “buon lavoro”. Non può esserci asilo senza lavoro. Dire “buon lavoro” ad una donna che non ha mai potuto lavorare, poiché in Afghanistan alle donne è impedito, significa dire: “Stai lavorando. Adesso sei libera.”
Una vita tranquilla e normale. La normalità. La normalità a Riace non è più un’utopia, nel senso di “ù τόπος” (u topos, non luogo); ma ha trovato un luogo. Ed ha trovato un luogo anche in tanti altri paesi di questa Calabria. L’ha trovato nel vicino comune di Camini, grazie all’opera di Rosario Zurzolo e Giusi Carnà.
È l’accoglienza dei migranti che c’è nei tanti paesi della Locride. Un tempo qui i greci veneravano Giove Xeno, protettore degli ospiti. Ora si venerano altri Dei (o forse lo stesso con diversi nomi), ma è rimasta la sacralità dell’ospite. A poca distanza da Riace vi è Stilo. Il paese di Tommaso Campanella. Mi piace pensare che nei paesi della Locride si stia per costruire la sua “Città del sole”, dove tutto è di tutti, dove tutte le cose sono in comune.
… E’ bello vedere come tra loro non possano donarsi cosa alcuna, perché hanno tutto in comune. Gli ufficiali stanno molto attenti affinchè nessuno abbia più di ciò che gli spetti. Però nel momento del bisogno tutti hanno ciò che serve. L’amico lo riconoscono nelle guerre, nelle malattie, negli studi, dove si aiutano e si insegnano l’un con l’altro. (Tommaso Campanella, “La città del sole”)
Prendo la strada del ritorno. Per tornare sul Tirreno. In 40 minuti sono dall’altra parte. Rieccomi nella piana di Gioia Tauro, nelle campagne di agrumi. A poca distanza dalle baracche dei braccianti africani c’è un lussuoso campo da golf. Una delle contraddizioni di questa terra. Una delle contraddizioni del “civile” Occidente.
Ritorno nella mia Nicotera ed osservo l’esteso centro storico con le tante case poste sul pendio della collina a guardare il mare. Tante case tutte disabitate. E penso come sarebbe bello realizzare lì ciò che c’è a Riace. È molto semplice. Si tratta di dare ai neo arrivati ciò che noi abbiamo abbandonato.
Cui fu donato in copia, Doni con volto amico, Con quel tacer pudico, Che accetto il don ti fa. (Alessandro Manzoni, “La Pentecoste”)
Sarebbe un buon inizio per un mondo migliore. Per un mondo normale.
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