Può il linguaggio che utilizziamo per definire migranti e rifugiati cambiare il nostro modo di vederli? Traduciamo e pubblichiamo un articolo di Adam Taylor per il Washington Post. L’originale è qui.
Di Adam Taylor
In un’intervista rilasciata giovedì con la britannica ITV, David Cameron ha detto agli ascoltatori che il porto francese di Calais era sano e salvo nonostante lo “sciame” di migranti che tentano di accedere al Regno Unito. I politici rivali si sono precipitati nel criticare il linguaggio del primo ministro: persino Nigel Farage, leader dello UKIP, partito anti-immigrazione, si è lanciato nel dibattito per dire che non aveva intenzione di usare “un linguaggio del genere” (anche se lo aveva già fatto in passato).
Cameron, chiaramente, ha scelto male le sue parole. Come Lisa Doyle del Refugee Council ha affermato, l’uso del termine “sciame” è disumanizzante – i migranti non sono insetti. Anche il tempismo è stato sbagliato, arrivando proprio quando la Francia ha spiegato squadre anti-sommossa dopo che un uomo sudanese è stato il nono a morire in meno di due mesi nel tentativo di entrare nel tunnel della Manica, che attraversa il canale unendo la Francia all’Inghilterra.
Molto dello sdegno per i commenti del leader britannico dimenticano, a ogni modo, un punto importante: Cameron è lontano dall’essere solo quando si tratta di un uso preoccupante del linguaggio per descrivere l’attuale crisi migratoria mondiale. Il linguaggio è per natura politico, e il linguaggio usato per descrivere i migranti e i rifugiati è politicizzato. La maniera in cui, a turno, parliamo dei migranti influenza il nostro atteggiamento nei loro confronti, alcune volte con conseguenze preoccupanti.
Considerate gli elementi più basilari del linguaggio relativo all’immigrazione: scrivendo sul Guardian alcuni mesi fa, Mawuna Remarque Koutonin chiedeva perché le persone bianche sono spesso definite “espatriati”. «I migliori professionisti africani andati a lavorare in Europa non sono considerati espatriati – scriveva Koutonin – Sono immigrati». Esaminando anche le altre parole usate per descrivere diversi tipi di immigrazione tutto risulta essere molto “codificato”, come il blogger libanese Karl Sharro, che vive a Londra, ha ironicamente fatto notare:
The Lexicon of Global Migration. (Thanks to @trillingual for coming up with the idea.) pic.twitter.com/PnHPFUoe19 — Karl Sharro (@KarlreMarks) 20 Maggio 2015
The Lexicon of Global Migration. (Thanks to @trillingual for coming up with the idea.) pic.twitter.com/PnHPFUoe19
— Karl Sharro (@KarlreMarks) 20 Maggio 2015
Quando teniamo in considerazione i circa 60 milioni di persone intorno al mondo costrette ad abbandonare la propria casa, certe parole irritano gli esperti più di altre. «Chiamare qualcuno “migrante irregolare” non ha più senso di chiamarlo “illegale”» ha scritto Bill Frelick, di Human Rights Watch, l’anno scorso. L’uso ripetuto della definizione “boat people” per descrivere le persone che usano imbarcazioni per attraversare il Mediterraneo o le acque del Sud-Est asiatico pone una questione simile. «Non chiamiamo gli europei della classe media che vanno in vacanza all’estero regolarmente “EasyJet people”, o i super ricchi di Monaco “yacht people”», mi ha detto Daniel Trilling, redattore del New Humanist. «Mi dà l’impressione di essere un modo, intenzionale o meno, per evitare di discutere circa le ragioni per cui i rifugiati del Burma, per esempio, salgono su quelle barche e perché alcuni paesi sono riluttanti nel dare loro asilo».
Il modo in cui le persone sono etichettate ha ripercussioni importanti. Che li si chiami migranti economici o richiedenti asilo rappresenta una questione importante nei paesi dove arrivano, nei quali una definizione può ripercuotersi negativamente sul loro status legale nel momento in cui a restare. Conta anche nei paesi di origine. L’Eritrea, per esempio, ha ripetutamente negato che le migliaia di persone che abbandonano il paese vadano via a causa della pressione politica, insistendo invece sul fatto che abbiano scelto di andare all’estero in cerca di salari più alti. Altri paesi sostengono ragionamenti simili: a maggio il primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina ha affermato che i migranti che lasciano il paese sono alla ricerca di fortuna e mentalmente malati. Il messaggio dietro a questa affermazione era chiaro: la colpa è loro, non nostra.
Ci si preoccupa che persino “migrante”, forse la definizione più ampia e neutrale che abbiamo, possa diventare politicizzato. Daniel Trilling ha osservato come Katie Hopkins, una controversa scrittrice del Regno Unito, abbia paragonato i migranti a “scarafaggi” in una rubrica pubblicata dal The Sun, ad aprile. «Se sia il governo che la retorica politica assegnano a queste persone il ruolo di indesiderati, minaccia alla sicurezza, elementi criminali, prosciugatori di risorse, le parole usate per definirli acquistano una nuova e negativa accezione», afferma Trilling.
Termini come “sciame” o “invasione” possono avere ripercussioni così negative anche quando usate in relazione ai rifugiati. James Hathaway, direttore del Programma su Rifugiati e Asilo nella University of Michigan Law School, sostiene che queste parole hanno la «chiara intenzione di instillare paura». Ed è pericoloso, perché la situazione a Calais è già calda e colma di paura: i tabloid britannici hanno addirittura chiesto a Cameron di inviare l’esercito, come se i migranti rappresentassero una forza straniera che si prepara all’invasione. Una reazione così forte è profondamente sbagliata, spiega Alexander Betts, direttore del Centro studi sui rifugiati della Oxford University: «È molto importante avere il senso della prospettiva. Ci sono circa 20 milioni di rifugiati nel mondo. Le poche migliaia di persone a Calais, che provano a raggiungere il Regno Unito, vengono principalmente da paesi che generano rifugiati come la Siria, l’Eritrea e la Somalia e siamo obbligati dal diritto internazionale a concedere loro di presentare richiesta di asilo».
Coloro che vivono nei campi vicino a Calais, soprannominati “la giungla”, sembrano capirlo da soli. «È più semplice lasciarci vivere così se dite che siamo cattive persone, che siamo disumani» ha raccontato Adil, 24 anni, dal Sudan, al Guardian.
Può un cambiamento nel linguaggio cambiare davvero il modo in cui pensiamo a migranti e rifugiati? È difficile negare che tale interpretazione possa essere sottile e soggettiva. Tuttavia questa settimana abbiamo osservato un grande esempio di come umanizzare le vittime possa provocare una reazione positiva globale – ed è da notare che questo esempio ci arriva dal regno animale. Ovunque nel mondo la gente ha pianto la morte di Cecil, il leone dello Zimbabwe, mentre altri animali altrettanto importanti, ma senza nome, sono stati uccisi nel silenzio generale. Se possiamo umanizzare un animale, esiste di certo un modo per umanizzare gli esseri umani.
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