Di Paolo Lambruschi su Avvenire
Profughi rom ucraini discriminati in Polonia. Faticano ad essere accolti, più spesso non riescono a uscire dai centri perché nessuno li vuole. In ogni caso è meglio che tacciano la propria origine e non rivelino dove si trovano per evitare aggressioni. La denuncia viene dagli attivisti della minoranza in Polonia che stanno affrontando un’emergenza nell’emergenza.
«Il nostro Paese – spiega Ela Mirga, artista polacca – sta offrendo una grande prova di generosità in questa tragedia accogliendo oltre due milioni di profughi. Ogni giorno ai valichi di confine arrivano circa 100 profughi ucraini rom ed è un problema. In Ucraina prima dell’invasione russa ne vivevano circa 400mila. Molti sono privi di documenti e spesso non sanno dove andare: sono stati costretti ad accamparsi e presi di mira da bande neonaziste nei giorni scorsi. Ma il problema è che molti sono bloccati dentro i centri».
Prova a chiarire la situazione Joanna Talewicz-Kwiatkowska, antropologa culturale polacca, docente all’istituto di studi interculturali all’università Jagellona di Cracovia e collaboratrice del museo di Auschwitz. Attivista di diverse organizzazioni polacche per i diritti civili che tutelano i rom ed essa stessa membro della comunità, dallo scoppio della guerra gira per Varsavia, Cracovia e altri centri minori dove sono arrivati molti profughi ucraini rom. Che attualmente, pur nella difficoltà di tenere una contabilità, sono circa duemila.
«La situazione era già tesa in Ucraina – ricorda – infatti nel 2018 ci sono stati pogrom e omicidi. Queste tensioni si sono spostate oltre confine quando è iniziata la guerra. In molti Paesi dell’Europa orientale i rom sono vittime di aggressioni a causa di stereotipi razziali, di xenofobia e odio in rete. Nei centri di accoglienza polacchi, quando gli altri ospiti li vedono, le tensioni scattano immediatamente. Le accuse sono le solite, il più delle volte senza prove: rubano, rivendono all’esterno gli aiuti, ne ricevono troppi. Dove sono? Per ragioni di sicurezza non posso dirlo perché rischiano di venire aggrediti. Stanno in luoghi riconvertiti all’accoglienza come teatri, scuole, musei».
Quanto alle accuse, la ricercatrice smentisce seccamente. «Non è vero che ricevano troppi aiuti perché stanno arrivando famiglie numerose con persone anziane e malate. Il problema principale spesso è la mancanza di documenti, ma come per molti altri profughi. Nei primi giorni del conflitto è arrivata la prima ondata di ucraini benestanti con documenti e con mezzi propri. Questo è successo anche per i rom, non siamo diversi dagli altri. E nessuno infatti se n’è accorto. Poi sono arrivate le persone più povere o quelle che sono state giorno sotto le bombe negli scantinati con i bambini a Kiev o a Kharkiv e poi sono fuggite in treno. Alcune di queste persone sono anche rom, anche loro hanno sofferto le conseguenze della guerra e sono fuggite senza documenti o senza soldi. Oppure appartengono alle classi sociali più vulnerabili. E sono cominciate le discriminazioni. Sono tutti ladri? Alcuni lo sono. Ma tra i profughi ci sono anche i delinquenti e i mafiosi ucraini e nessuno dice nulla».
Oltre alle tensioni interne ai centri, la docente rileva difficoltà nel farli accogliere. «Ci sono stati diversi casi. Sono dovuta intervenire con le autorità per far entrare in un centro di Varsavia un’anziana malata di Parkinson, e una famiglia con dodici bambini e due sole donne che le accompagnavano mentre i mariti erano rimasti in Ucraina. Erano accampati. E poi molti non riescono a uscire dai centri di accoglienza perché per loro non c’è posto. La Polonia sta facendo qualcosa di straordinario nell’accoglienza dei profughi ucraini. Ma i rom non li vuole nessuno e sono costretti a restare nei centri».
Cosa chiede? «Lancio due appelli. Il primo è alle comunità rom dei Paesi dell’Unione Europea. Aiutiamoci. Finora abbiamo organizzato trasferimenti in autobus solo verso Svezia e Germania. Il secondo è alle autorità polacche perché lancino una campagna contro l’antitziganismo, il razzismo, la xenofobia e le parole di odio. In questo clima ho paura anche per me e per la mia famiglia».
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