Di Gianni Augello su Redattore Sociale
Per i ricercatori del progetto europeo Matilde, che da due anni stanno studiando l’impatto delle migrazioni nelle aree rurali, l’accoglienza in questi territori potrebbe risultare vantaggiosa per entrambi. Il coordinatore scientifico Membretti: “Dobbiamo pensare anche a come si trasformerà l’ondata di solidarietà che si sta manifestando in questi giorni”
Anche le aree interne italiane possono fare la loro parte nell’accoglienza ai profughi ucraini, ma attenti agli errori fatti in passato: solo con l’implementazione dei servizi di base e politiche che favoriscano – per chi intendesse farlo – il radicamento territoriale si arriva a realizzare strategie “win-win”, ovvero che possano diventare fruttuose sia per i profughi che per le stesse aree marginali. Ne è convinto Andrea Membretti, coordinatore scientifico del progetto europeo Horizon2020 Matilde che da due anni sta studiando l’impatto della migrazione internazionale nelle aree rurali, montane ed interne europee. Il progetto coinvolge Austria, Bulgaria, Finlandia, Germania, Norvegia, Spagna, Svezia, Turchia e Regno unito e tredici casi di studio, di cui due in Italia: Torino e la provincia autonoma di Bolzano.
Il crescente numero di profughi in arrivo in tutta Europa, causati dalla guerra in Ucraina, ha cambiato radicalmente lo scenario studiato dai ricercatori del progetto Matilde. Tuttavia, le valutazioni e i risultati ottenuti sul campo potrebbero fornire elementi utili per affrontare l’attuale emergenza. “Nelle aree interne, quelle rurali e montane, il fenomeno migratorio rappresenta una risorsa per rigenerare questi territori a livello demografico ed economico – spiega Membretti -. Tuttavia, è ovvio che oggi abbiamo a che fare con numeri e caratteristiche delle persone diverse rispetto agli anni passati”. Per Membretti, infatti, “mentre adesso arrivano in larga parte donne con bambini, tra il 2015 e il 2018 sono arrivati soprattutto giovani uomini che avevano minor tendenza a radicarsi in quei territori perché non avevano una famiglia”.
Il primo errore da non ripetere è quello dei numeri dell’accoglienza. “Uno dei problemi dell’accoglienza nelle aree interne è legato agli arrivi massicci – afferma Membretti -. Laddove le buone pratiche hanno funzionato è perché in un paese di mille abitanti sono arrivati 8 o 10 richiedenti asilo. Se in un paese delle stesse dimensioni ne arrivassero 30 o 40 ci sarebbero tutta una serie di problematiche. Il progetto Matilde mette in luce anche oggi la possibilità di accoglienza e di rivitalizzazione che in questo caso i profughi ucraini possono portare nei territori di cui stiamo parlando, però c’è una soglia che non va superata perché altrimenti finiamo nella situazione tipica di alcuni progetti di accoglienza degli anni passati dove sulle Alpi, nelle caserme abbandonate o in alberghi in disuso, venivano sistemate 100 o 200 persone in mezzo al nulla o in paesi che non li volevano”.
Per Membretti, infatti, occorre pensare l’accoglienza anche nel medio periodo e non solo nell’immediato. “Dobbiamo pensare anche a cosa si trasformerà l’ondata di solidarietà che si sta manifestando in questi giorni, quando il nostro paese non vedrà migliorare la propria condizione economica – aggiunge Membretti -. L’impatto dell’arrivo dei profughi ucraini sarà significativo, soprattutto perché in gran parte sono donne e minorenni e nei primi mesi rappresenteranno soltanto un costo dal punto di vista economico, poi potranno diventare eventualmente una risorsa in una logica win-win”.
L’accoglienza può rappresentare un’opportunità di rilancio anche per le aree interne? Per Membretti non ci sono dubbi. La risposta è sì, ma anche in questo caso, bisogna evitare di ripetere gli stessi errori. “Quello che con Matilde abbiamo cercato di mettere in luce sin dall’inizio è che diversamente dalla legislazione di molti paesi europei e dalle politiche europee in genere, il migrante è una risorsa – continua Membretti —. Il continente è vecchio, noi ne abbiamo bisogno. Al di là della solidarietà e dei valori di cui ciascuno di noi è portatore o meno, anche solo per un discorso di mutua convenienza, con politiche mirate, dovremmo non solo accettare che ne arrivino, ma attirarne anche una quota superiore”.
Se le aree interne rappresentano un’opportunità per un’accoglienza a misura d’uomo, la presenza di nuovi residenti, anche temporanei, può rappresentare un’occasione preziosa per gli stessi territori marginali. “Tutto il sistema di accoglienza Sprar ha mostrato che avere un richiedente asilo anche solo per un anno nelle Alpi del biellese o nell’entroterra ligure, ha comportato un impatto positivo per il territorio, in termini di risorse economiche, di risistemazione degli immobili, di opportunità lavorative e di presidio antropico del territorio – spiega Membretti -. Anche dove c’è stato il turnover, per la comunità locale questo ha rappresentato un elemento positivo. La temporaneità di questo periodo, quindi, può avere una ricaduta positiva per le aree interne”.
Quanto questi nuovi arrivi possano rappresentare anche un’opportunità dal punto di vista demografico per le aree colpite dallo spopolamento, invece, dipenderà dalle politiche che si metteranno in campo. “Se non c’è un set di interventi – dal lavoro, alla casa, ai servizi, all’accesso alle risorse locali e ai beni comuni -, la politica puramente demografica e residenziale che sposta le persone non funziona – spiega Membretti -. Ricordo sempre il caso di Taipana, un comune in provincia di Udine, che durante la guerra del Kosovo decise di mettere a disposizione dei profughi una serie di alloggi. Riuscirono ad attirare un numero consistente di persone, tutti nuclei familiari con bambini. Nel giro di pochi anni, però, quasi tutte quelle persone se ne sono andate a vivere in città, a Udine o Pordenone”. L’iniziativa del comune friulano ricorda un po’ quelle lanciate lungo gli anni da altri amministratori locali con l’obiettivo del ripopolamento: dalle case a un euro ai bonus per i nuovi residenti. Tuttavia, per Membretti, questi interventi una tantum sono tutti destinati a fallire senza altri interventi strutturali. “Se non c’è il lavoro, se non ci sono i servizi e la qualità culturale della vita è bassa, il migrante se ne va come se ne va anche l’autoctono, o addirittura prima perché non ha alcun legame col territorio – conclude Membretti -. Molti ucraini arrivano già con l’idea di non restare nel nostro paese perché vorrebbero tornare nel proprio paese o andare nel Centro Nord Europa. Oggi sono arrivati qui per le catene di solidarietà attivate, se non ci sono i servizi e le opportunità lavorative per rimanere è difficile che restino”.
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