L’organizzazione riflette sulle sfide poste dall’evoluzione del giornalismo: la tecnologia e le dinamiche sociali richiedono oggi un impegno compatto, a livello globale, da parte dei media, per contrastare la disinformazione
Quale futuro per un giornalismo etico in un’epoca in cui è così complesso individuare i fatti e ancor più l’umanità dietro di essi? È una delle domande alle quali l’Ethical Journalism Network (Ejn) ha cercato di rispondere con il rapporto “Ethics in the News” lanciato oggi per fotografare i cambiamenti e le prospettive etiche del giornalismo.
Bufale e fiducia
Tra le sfide principali per il giornalismo, secondo l’Ethical Journalism Network vi è la necessità per i media tradizionali di contrastare le fake news, quelle che noi chiamiamo “bufale”. Ma come?
“Le notizie false o fuorvianti possono diffondersi in lampo sui social network, attraverso i like e le condivisioni da parte dei nostri amici. Ciò sfrutta un elemento della psicologia umana secondo cui accettiamo con più facilità informazioni che confermino il nostro punto di vista”, scrive nel rapporto Aidan White, direttore di Ejn. Importante, per i giornalisti è imparare e poi insegnare ai lettori come riconoscerle; l’Ethical Journalism Network fornisce alcune indicazioni: dalla verifica sui siti di fact checking al controllo dell’estensione dei siti fino all’incrocio delle fonti.
Se sulle policy dei social network – a partire da Facebook, col suo ambiguo ruolo di azienda tech o media – le testate giornalistiche non hanno capacità d’intervento, esse possono, inoltre, interrogarsi sul motivo per cui molti lettori e ascoltatori tendono a credere a fonti inattendibili, dubitando, invece, dei media tradizionali. Come e quando il rapporto di fiducia è venuto meno? Come confrontarsi con la crisi delle notizie in formato tradizionale, considerate non più “appetibili”?
Ejn definisce la condizione attuale come una “rivoluzione della comunicazione, grazie alla quale le persone hanno a disposizione differenti modi per avere accesso alle informazioni”. Per circa 150 anni i giornali hanno gestito le notizie, ma la tecnologia digitale ha rivoluzionato questa dinamica, modificando, di conseguenza, il processo di selezione e produzione dei contenuti. A scarseggiare, per l’organizzazione, è soprattutto il giornalismo d’inchiesta, capace di comprendere e raccontare i cambiamenti di un’epoca scavando in profondità. “I media seguono sempre di più l’agenda dei politici e dell’élite“, commenta White, spiegando perché i lettori siano sfiduciati rispetto ai media, soprattutto a quelli mainstream.
Riconquistare la fiducia dei lettori deve essere, perciò, l’obiettivo principale del giornalismo nei prossimi anni, rileva il rapporto. “L’aumento della propaganda, dell’hate speech, della politica autoreferenziale ha condotto a una comunicazione non basata sui fatti – afferma il direttore dell’Ethical Journalism Network – Ciò ha reso le persone scettiche riguardo a come i media, online e offline, possano diffondere il proprio messaggio”. Un impegno, dunque, di tipo etico, che pone la categoria di fronte alla necessità di riacquistare credibilità per riconquistare la fiducia dei lettori, contrastando il dilagare di razzismo e intolleranza.
L’odio non è sempre palese
Non poteva mancare, nel rapporto, anche una riflessione sull’hate speech, inteso come strumento di denigrazione di un gruppo, per ragioni legate alla religione, all’orientamento sessuale o all’appartenenza etnica. Cherian George, professore al dipartimento di giornalismo nell’Università Battista di Hong Kong, sottolinea come l’hate speech sia stato utilizzato per attaccare i media, nel 2016: “Con le elezioni di Trump e l’ondata di estrema destra in Europa si sta assistendo alla denigrazione dei media su scala mondiale”. I media, dunque, non sono stati solo megafono diretto o indiretto dei contenuti d’odio, ma ne sono stati anche il target.
In particolare le elezioni statunitensi hanno scatenato anche un altro genere di critiche nei confronti dei media, le quali secondo Bill Orme, giornalista e collaboratore del Global forum for media development, sono dovute alla “riluttanza, durante la campagna presidenziale, a dar voce agli attivisti pro Trump della destra razzista, per non volerli far apparire più influenti di quanto questi fossero“. Il tentativo di arginare l’hate speech, dunque, avrebbe portato i media a soffermarsi su un quadro non davvero aderente alla realtà, secondo cui Trump non sarebbe stato eletto presidente; la scarsa capacità di prevedere il risultato elettorale dimostrata dalla maggior parte dei media generalisti ha aperto, dunque, un acceso dibattito nel mondo del giornalismo, mettendo in luce ancora una volta quanto sia delicata la gestione dei contenuti d’odio e della presenza dei personaggi di pubblico rilievo che ne sono promotori.
L’hate speech, inoltre, non è sempre così palese. Per quanto le espressioni d’odio ne siano la parte più evidente, il messaggio d’intolleranza può essere espresso in modo più celato. Osserva Cherian George che “i giornalisti debbono essere vigili non solo rispetto ai messaggi d’odio ma anche verso la propaganda dell’odio che si nasconde dietro termini pseudoscientifici e discorsi apparentemente sensati“. Un esempio concreto è quello di quanto accaduto in Francia, dove la leader del Front National Marine Le Pen smussato la durezza della retorica del partito per far sì che la posizione anti-immigrati sembrasse più accettabile.
Lo ricordava Tullio De Mauro con le sue “parole per ferire”: “Non ci sono solo stereotipi a far da punto di partenza per parole che esprimano odio e disprezzo e servano a denigrare e insultare“.
Tra gli strumenti elaborati nel 2016 per svelare questo sostrato di hate speech si colloca, per esempio, il glossario elaborato a Hong Kong nel giugno 2016 da gruppo di giornalisti e accademici provenienti da Cina, Giappone, Corea e Taiwan, in collaborazione con l’Etica Journalism Network. Il documento analizza alcuni termini connotati negativamente e che promuovono sentimenti d’odio e intolleranza. È il caso di definizioni quali “fake refugee (falso rifugiato), che pone l’accento sull’accusa della mancanza dei requisiti per lo status, o di “the Taliban of ethics“, usato in modo dispregiativo per indicare chi avrebbe, a detta dell’interlocutore, “orizzonti etici irrealizzabili e utopistici”.
Il punto di partenza per la promozione di un dibattito pubblico costruttivo.