Pluralismo negato. «A noi giornalisti senza passaporto italiano non è permesso essere soggetti – e non solo oggetti – dell’informazione»
Di Domenica Canchano
Se è una coincidenza temporale, essa ha una forte valenza simbolica. Assumo l’incarico di direttrice del sito dell’Associazione Carta di Roma, mentre su tutte le tv scorrono le immagini dei rifugiati seduti sugli scogli nella costa di Ventimiglia, non così distante da Genova, la città in cui vivo dal 1991. Qui, tra mare e monti, sono cresciuta, ho studiato ed è a “Zena” che tutt’ora lavoro come giornalista.
In questo momento in cui prendo l’incarico ho quelle immagini in testa, ma anche le parole di un amico eritreo, in una delle manifestazioni di piazza per sensibilizzare l’opinione pubblica sui rifugiati, si ragionava di prospettive. Di quanto poco si parlasse di quello che accade internamente in Eritrea, dove un popolo vive sottomesso ad uno dei più feroci regimi dittatoriali al mondo, e di quante pagine e titoli fossero dedicati a quelle persone, parte di una umanità sofferente che cresce di giorno in giorno – secondo l’ultimo rapporto dell’Unhcr ogni 122 persone al mondo 1 è un rifugiato – e che affida il proprio futuro, la propria stessa vita chiusi in una stiva di una delle tante carrette del mare che solcano, e spesso s’inabissano, il Mediterraneo.
È la prospettiva che modifica la percezione di un fenomeno. Faccio parte dell’Ansi, (Associazione nazionale stampa interculturale) costituita con l’obiettivo di lavorare per un’informazione plurale, corretta e libera, beni sempre più rari, purtroppo, in un mondo della comunicazione dominato da una sorta di pensiero unico, omologato. E qui il punto cruciale: a causa dell’articolo 3 della Legge italiana sulla Stampa (47/1948) ci viene negato esercitare il nostro diritto ad una informazione veramente plurale. A me e ad altri colleghi senza passaporto italiano non è permesso essere realmente, e fino in fondo, soggetti e non solo oggetti dell’informazione, come l’essere appunto direttori responsabili.
Andare controcorrente, per me, per noi, dovrebbe significare immedesimarsi in quell’umanità in fuga da guerre, pulizie etniche, stupri di massa, da uno sfruttamento che non conosce limiti. Dare voce a quanti la voce viene tolta con la forza, parlare di diritti umani, di cittadinanza, dalla parte dei milioni ai quali questi diritti vengono negati. Andare controcorrente, infine, vuol dire provare a spiegare, con umanità, semplicità, ma con altrettanta determinazione, ad una opinione pubblica influenzata da messaggi razzisti lanciati da chi invece che ponti di dialogo erige muri di odio, che la domanda da porsi non è dove quelle donne e quegli uomini seduti, prigionieri, sugli scogli di Ventimiglia, quelli che attraversano le frontiere a piedi o chi arriva invece con un visto di turismo, intendono andare, ma da cosa fuggano, da quale girone dell’inferno, eritreo, somalo, libico, siriano, iracheno, e altri hanno provato a salvarsi, vedendo negli scafisti non dei criminali, quali sono, ma dei “salvatori”, secondo un’altra prospettiva.
Se riuscissimo, tutti assieme, a far maturare nella coscienza collettiva questa domanda, beh, potremmo dire di essere stati al servizio di una causa giusta. Come persone, prim’ancora che operatori dell’informazione.
Domenica Canchano