Di Federico Faloppa
Settimana decisamente interessante, quella passata. Perché ha offerto più di un elemento di riflessione, da un punto di vista socio-linguistico.
Si è cominciato domenica primo febbraio, con un articolo comparso su «La Lettura», del Corriere della Sera, in appoggio alla petizione – a firma di Olga Rickards e Gianfranco Biondi – con cui si chiede di eliminare il termine razza dall’articolo 3 della nostra Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali ecc.”); qui il testo della petizione: «Appello per l’abolizione del termine razza», rilanciata proprio nei giorni scorsi dall’Associazione nazionale universitaria degli antropologi culturali, come riportato anche dal sito di Carta di Roma (l’articolo qui).
È un testo chiaro e documentato, quello della petizione, e basa la sua richiesta sulle note ricerche nel campo della biologia e della genetica che hanno dimostrato “per via sperimentale” che il “concetto di razza non può essere applicato alla nostra specie”. Ed è altrettanto chiaro l’endorsement di Adriano Favole e Stefano Allovio, gli autori del pezzo pubblicato su «La Lettura», che hanno appoggiato la petizione sostenendo che «i motivi a favore dell’abolizione costituzionale del termine razza sarebbero molteplici», in primis quello di dar vita a una campagna dal forte valore simbolico.
Non c’è dubbio che una campagna del genere farebbe parlare molto di sé. E quindi di razza e razzismo all’interno non solo dei nostri testi giuridici, ma anche della nostra società. Tuttavia, da linguista, mi lascia perplesso l’idea di modificare il testo della Carta costituzionale, eliminandone un termine (e solo quello: ma allora varrebbe la pena riflettere anche sulla complessità e la potenziale ambiguità dei termini “sesso”, “lingua”, e “religione” contenuti in quell’articolo).
Certo, essendo la Costituzione – per sua natura – un testo sempre attuale, dovrebbe confrontarsi, anche, con le novità giuridiche, sociali, culturali emerse negli ultimi decenni. Come è certo che, cambiando le conoscenze, anche il linguaggio dovrebbe in qualche modo adeguarsi e modificarsi, per rendere ragione di quei cambiamenti.
Ma, ed è questo è il primo elemento di perplessità, il linguaggio si modifica a partire dall’uso dei parlanti. È l’uso – all’interno di una visone linguistica che sia descrittiva e non prescrittiva – la prima vera cartina di tornasole di ciò che si dice e non si dice (più). Prima di imporre un cambiamento dall’alto, sarebbe quindi utile capire, forse, se e quanto gli italiani usano la parola razza, e come lo usano. Siamo certi che nel linguaggio corrente razza sia stata sostituita, che so, da gruppo etnico o da altre formule ritenute più accettabili sul piano epistemologico e sociale, o che sia addirittura scomparsa per lasciar spazio, implicitamente, allo slogan – tanto caro a molti di noi – “Razza: umana”?
Un’inchiesta a largo spettro sulla lingua d’uso (e non penso solo alla lingua dei quotiani o degli altri media, ma proprio al cosiddetto “italiano neo-standard”) forse ci aiuterebbe a capire se e come parole e concetti si sono modificati non solo nel campo della conoscenza scientifica o dell’insegnamento superiore, ma anche nelle competenze linguistiche dei parlanti “medi”.
Inoltre, ed è il secondo elemento di perplessità, questa petizione mi pare offrire il fianco a chi dice che noi “intellettuali” abbiamo il vizio non soltanto del politicamente corretto (espressione che io personalmente non ritengo offensiva: è offensiva semmai la ridicolizzazione del dibattito cui abbiamo sempre assistito, su questo tema, in Italia), ma anche di un politicamente corretto “retroattivo”. Ovvero: non vogliamo solo censurare la lingua dell’oggi, ma cambiare anche la lingua di ieri. Imponendo, di fatto, categorie e definizioni in modo anacronostico.
Sarebbe davvero legittimo intervenire su un testo scritto in un determinato contesto storico, per determinate ragioni e con determinate attenzioni formali, a partire dalla lingua? E cambiarne il lessico per scrupoli che nulla avevano a che fare con quel contesto?
Alla fine della seconda guerra mondiale, malgrado le atrocità commesse in suo nome, razza era termine di impiego corrente, in tutti i registri linguistici. Ce lo dicono dizionari, libri, giornali, ecc. E quindi, necessariamente, di razza doveva parlare la Carta Costituzionale se voleva rispondere agli orrori del razzismo nazista e fascista; se voleva annullare le tassonomie razziste; se voleva, soprattutto, essere compresa dalle persone cui si rivolgeva.
C’è una cosa che non andrebbe mai dimenticata, quando si parla di Costituzione. Lo ha ricordato Tullio De Mauro, tra gli altri, anche in tempi recenti: il lessico e la sintassi della Carta sono stati scrupolosamente scelti, discussi, corretti, limati. Come è noto, fu chiesto a Piero Pancrazi di rivedere linguisticamente tutto il testo, affinché non ci fossero ambiguità, inutili orpelli, barocchismi. Perché quella grande attenzione? Perché dopo la stordente retorica fascista, la priorità era quella di riprendersi il linguaggio, e di renderlo il più semplice e accessibile a tutti. Dove quei “tutti” erano per gran parte analfabeti o semianalfabeti, e dove l’urgenza era quella di offrire alla neonata Repubblica non solo un fondamento giuridico democratico e moderno, ma anche – soprattutto – comprensibile. Per questo si ebbero quelle frasi così limpide e brevi, quelle costruzioni sintattiche così lineari e semplici, quella parole così selezionate. Razza era, appunto, una di queste. Perché era stata sulla bocca di tutti gli italiani, perché era stato uno dei pilastri concettuali e terminologici della dittutura fascista, perché era stata parola-chiave di un’intera epoca (ce lo ricordano anche i lavori di Ashley Montagu di quegli anni) che si sperava e si voleva conclusa.
Estirparla dal dettato costituzionale sarebbe non solo, quindi, un anacronismo, ma non ci restituirebbe quell’articolo 3 in tutta la sua potenza, in tutta la sua chiarezza, in tutta la sua contestuale motivazione. Meglio sarebbe lasciarla, invece, razza: così, qualora si leggesse in classe con i nostri studenti, o a casa con i nostri figli, la Costituzione ci aiuterebbe a raccontare non soltanto l’oggi, ma anche lo ieri. Quello ieri.
Sia chiaro: le campagne per sensibilizzare i parlanti circa l’uso indiscriminato – e quindi l’abuso – di certi termini ed espressioni non mi lasciano indifferente. Ho sostenuto con convinzione e vigore, anche nei miei scritti, quella per la messa in discussione del sostantivo clandestino, il cui impiego è in quasi sempre impreciso e ingiustificato, a cominciare dagli articoli di giornale o dai servizi di cronaca. Tra l’altro, proprio questi abusi hanno condizionato in modo diretto il linguaggio comune, banalizzandolo: un’azione di verifica e di critica andava pensata e proposta non soltanto per motivi etici, ma anche e soprattutto per la correttezza dell’informazione nei confronti dell’opinione pubblica, e per una de-banalizzazzione semantica.
Ma non tutte le campagne, necessariamente, hanno gli stessi scopi e le stesse potenzialità. Certo, mi si può far notare che una proposta simile a quella italiana è stata accolta nel 2013 dall’Assemblea nazionale francese, che ha deciso di rimuovere race dalla Costituzione repubblicana e dai testi giuridici. Vero. Ma è altrettanto vero che le polemiche seguite a quella scelta hanno in parte indebolito la campagna stessa, ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato: la riverniciatura linguistica “retroattiva” non solo non ha sortito gli effetti positivi sperati, ma ha indebolito i promotori dell’iniziativa ed esacerbato posizioni e barriere ideologiche.
Piuttosto, quindi, avverto un’altra urgenza. Quella di chiedere ai nostri giurisperiti di definire meglio che cosa si intenda con razzismo nella nostra legislazione, e in particolare con razzismo verbale, i cui segni e le cui conseguenze sono sul piano psicologico – ce lo dicono gli studi di psicologia sociale sull’hate speech – spesso traumatiche. La legge Mancino del 1990 e i successivi decreti attuativi hanno anche in Italia posto le basi per un intervento deciso della magistratura nel caso di aggressioni e comportamenti razzisti. Ma – mi pare – l’interpretazione di quei testi poco dettagliati è spesso a discrezione del giudice, come documentano alcuni noti casi degli ultimi anni (cui faccio riferimento alle pp. 26 sgg. del mio libro «Razzisti a parole», 2011, cui rimando per brevità). Si avverte, anzi, ancora una sorta di vuoto legistlativo, che ha consentito appunto l’emissione di sentenze dagli esiti opposti. Occorrebbero perciò, forse, precisazioni ulteriori, che permettano di sanzionare allo stesso modo comportamenti analoghi, come ad esempio gli insulti razziali o le aggressioni verbali.
Invece di eliminare la parola razza dal testo della Costituzione, insomma, non sarebbe più produttivo riflettere sul fatto che anche in assenza di razze, e in presenza di gruppi etnici o di qualsiasi altra formulazione alternativa si voglia utilizzare, il razzismo non è affatto scomparso, ma si articola anzi in nuove pericolose forme, anche sul piano linguistico?
In questo contesto fa specie il (ridicolo) balletto dei senatori del Pd presenti nella Giunta delle immunità del Senato che nei giorni scorsi hanno assolto Calderoli dall’accusa di razzismo, avendo questi dato dell’orango all’ex ministro dell’Integrazione Kyenge. Giustamente ha fatto notare Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa di domenica (»Così il Senato sdogana il razzismo») che la Costituzione e la legge condannano il razzismo, «in modo che esso non rientra nella libertà di espressione». Tanto meno – aggiunge il giurista – «il razzismo è tollerabile quando chi se ne fa portavoce, per la posizione pubblica che riveste, ha influenza e eco nella società».
Ora, come sappiamo i parlamentari non rispondono delle opinioni espresse nell’esercizio della loro funzione. Lo prevede la Costituzione. Ma la Giunta delle immunità del Senato, o almeno la parte “progressista” di essa, non poteva almeno esecrare quell’insulto? Non poteva ad esempio sostenere che non si è trattato affatto di lecita critica politica, come è stato detto a fini giustificativi proprio da alcuni senatori Pd, ma di un vero e proprio atto di razzismo verbale, per di più non richiesto dall’esercizio delle funzioni parlamentari? Almeno nelle sedi istituzionali, non si dovrebbe evitare di “sdoganare” certo linguaggio, che invece per sciatteria e per calcolo parrebbe diventato prassi politica, e quindi tollerato e addirittura nobilitato – scrive Zagrbelsky – «come legittima manifestazione della funzione parlamentare»?
E ancora, non dovremmo richiedere a gran voce che vengano considerati atti di razzismo anche gli insulti che compaiono, sempre più copiosamente, sui social network? Bene ha fatto Lunaria, nel suo «Terzo Libro Bianco sul Razzismo» (si legga in particolare il capitolo «Il perverso intreccio tra odio virtuale e odio “virale”», di Paola Andrisani) a mettere in luce la virulenza e la pervasività di certo linguaggio aggressivo, violento e razzista su blog, commenti ad articoli di giornale, Facebook, Twitter ecc. La blogosfera è il vero Far West dell’intolleranza, oggi: perché è luogo deresponsabilizzato, incline agli estremismi e alle iperboli, povero di argomentazione e reale dibattito. Ebbene, davvero libertà di espressione significa libertà di insultare, facendo ricorso a un vocabolario e immaginario chiaramente razzista e discriminatorio nei confronti di migranti, omosessuali, rom ecc.?
Davvero non si potrebbe chiedere di costituire un osservatorio permanente, come è stato fatto per la carta stampata e i media tradizionali, per monitorare l’esplosione dei razzismi sul web? Per capire come la xenofobia si muova, articoli, diffonda in rete e – a detta degli osservatori – in una parte spesso poco visibile e silente della società “reale”?
Se eliminassimo “razza” dalla Costituzione, davvero avremmo posto le basi per una discussione più matura e più civile per eliminare il razzismo? Davvero il razzismo, senza le sue razze, sarebbe depotenziato? Davvero riusciremmo a rendere più civile la discussione, a tutti i livelli e attraverso i vari registri? O non servirebbe piuttosto agire – dovendo scegliere di fare una campagna forte, su cui investire energie, saperi, persone, – stigmatizzando concreti atti (verbali) di razzismo: che questi avvengano nelle istituzioni, alle fermate degli autobus, o nel mondo sempre meno virtuale di internet?
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