Di Paola Barretta
Negli ultimi anni, molti si sono interrogati sul ruolo della rete e dei social rispetto alla proliferazione di manifestazioni di violenza e intolleranza di matrice razzista e xenofoba. Anche pochi giorni fa la notizia della morte di un giovane ragazzo nigeriano sotto i binari di un treno è diventata l’ennesima occasione di commenti razzisti e violenti.
Proprio nell’ambiente digitale, infatti, si assiste a frequenti performances razziste, spesso collegate a dichiarazioni violente, banalizzate e socialmente condivise. Anzi proprio per la facilità e la velocità della diffusione, queste dichiarazioni trovano, prima nel mondo della rete, poi in quello “reale”, una qualche forma di accettazione sociale.
Il libro di Stefano Pasta, “Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio on line” (Scholé-Morcelliana Editrice), ha il merito di entrare nel merito della questione in modo analitico ed esaustivo. In che modo la rete riesce ad amplificare il discorso razzista? È la prima domanda che l’Autore si pone, alla quale risponde in modo convincente con dati, interpretazioni, e analisi della letteratura sociologica, pedagogica e filosofica.
Così si scopre che “in Internet il tempo non accelera, si contrae: è il movimento dell’informazione che accelera […]. La sensazione che sia il tempo a scorrere più veloce dipende dal fatto che processi per i quali tradizionalmente occorrerebbe più tempo, si verificano in Internet in un tempo assolutamente più contratto. Questa è la ragione per cui, dopo poche settimane di amicizia sui social network, si può aver scambiato un numero di informazioni ben più elevato di quanto si sarebbe fatto magari via posta cartacea. Non è quindi il tempo a scorrere più veloce, ma i processi che, in virtù della velocità dell’informazione, si sviluppano in un tempo inferiore”. Dinamiche che riguardano anche la propagazione di istanze e contenuti razzisti.
Scorrendo le pagine, si legge il ruolo dei meme, vignette, immagini stereotipate o allocuzioni verbali che spesso vengono utilizzate in associazione a una descrizione discriminatoria e offensiva di individui in quanto rappresentanti di gruppi. I meme sono strumenti straordinari dal punto di vista espressivo, ampiamente utilizzati nello scambio comunicativo in rete, e del tutto funzionali alla banalizzazione del razzismo. Nel testo, vengono proposti gli esempi di meme divenuti virali nel web nel corso di questi ultimi anni.
Proprio attraverso l’analisi empirica (quantitativa e qualitativa) condotta su 130 performances razziste on line, si propone una classificazione delle istanze razziste e delle motivazioni ad agire, distinguendo, per esempio, tra “razzismo tribale”, “razzismo mirato” e “razzismo di circostanza”.
Una volta individuate le forme di razzismo on line, l’Autore propone le strategie, sperimentate empiricamente, di reazione: in primis l’uscita dal silenzio.
“Ai processi di disumanizzazione si risponde educando alla comune Umanità”, scrive Stefano Pasta, che è ricercatore del CREMIT (www.cremit.it) dell’Università Cattolica. Soprattutto occorre spingere gli spettatori ad assumere il ruolo di soccorritori, processo che può essere facilitato in rete proprio dalla “co-autorialità della cultura partecipativa”.
Così, scorrendo le pagine, si scoprono gli “anticorpi”, performances antirazziste, narrazioni alternative, singoli o gruppi che reagiscono di fronte all’elezione di un bersaglio. Perché, come afferma l’Autore, citando Hölderlin, «là dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva».
Una lettura interessante anche per i più giovani che troveranno spunti per agire digitalmente in modo responsabile. Il che non significa usare gli stessi strumenti dell’hate speech ma far sentire la propria voce, lasciare una traccia digitale della propria opinione anche se minoritaria. Come disse Martin Luther King (citato nel testo): “Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma i silenzi dei nostri amici”.
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