Di Leonardo Filippi, Maurizio Franco e Maria Panariello per Premio Roberto Morrione
Ci è voluto un mese mezzo per approvare la regolarizzazione dei lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno o con permesso di soggiorno scaduto, nel settore agricolo, domestico e di cura. Il tutto nel bel mezzo di una pandemia globale, scandita nei primi giorni dall’auspicio di cambiare qualcosa nel nostro sistema, tornare ad essere più umani e iniziare a restituire alla terra la dignità che merita.
Un mese e mezzo di balletti e false partenze, in cui alla ininterrotta campagna della società civile #Regolarizzateli – condotta soprattutto da Terra! e dalla Flai-Cgil – e alle battaglie di movimenti e associazioni (Asgi, Adif, e non solo), la politica ha saputo rispondere con scontri e stracci in faccia. Perché quando si parla di immigrati il tema è delicato, specie se non si hanno idee politiche chiare e non si sa da che parte stare.
Non c’è dubbio che quello di ieri sia un passo avanti, un inizio, un tentativo di fare uscire queste persone dall’illegalità. È bene ricordare che solo qualche settimana fa, Coldiretti, la maggiore associazione di rappresentanza dei piccoli imprenditori agricoli, proponeva di reintrodurre i voucher, aboliti poco tempo fa proprio perché esponevano i lavoratori ad un ulteriore ricatto. Un passo indietro scongiurato solo dall’impegno del Terzo settore e dei sindacati, che hanno messo a segno il primo goal.
Resta la certezza che a fronte di un’altra classe politica si sarebbe potuto fare molto di più. Si sarebbe potuto ad esempio ragionare sui migranti come persone, e non come manodopera che raccoglie ciò che mangiamo: si sarebbe potuto riflettere cioè non tanto e non solo sul criterio della temporaneità dei diritti, ma sui diritti e basta. Non solo per braccianti e colf, ma per tutti quegli esseri umani sans papier che vivono o lavorano nel nostro Paese senza essere riconosciuti dallo Stato, a causa di una normativa sull’immigrazione obsoleta e criminogena.
Nel 2016 raccontavamo con l’inchiesta “Le catene della distribuzione” che il caporalato è il punto massimo dello sfruttamento in agricoltura. Grazie al Premio Morrione, che ci ha concesso di indagare senza sosta, abbiamo capito che le ragioni di quello sfruttamento non vanno solo cercate nei campi, ma sugli scaffali dei supermercati. Nel pieno di questa emergenza sanitaria, le due questioni, manodopera agricola e Grande distribuzione organizzata (i supermercati dove ogni giorno andiamo a fare la spesa) hanno avuto un ruolo di primo piano nel dibattito pubblico. Dell’una si è detto che scarseggiava e che erano in pericolo i raccolti, dell’altra si è detto che era in prima linea nel rispondere al fabbisogno alimentare dei cittadini. Tuttavia, come spesso accade, ci si è dimenticati di unire i puntini. La quantità dei prodotti agricoli venduti nel circuito dei supermercati è stabilita proprio dalla Gdo. Non solo, stessa storia per i prezzi, gli sconti, la posizione sugli scaffali. Ne deriva che la produzione agricola dei contadini sia fortemente legata alla domanda della Gdo, sia la parte “venduta”, ma soprattutto la parte “invenduta”, quella cioè lasciata marcire sui campi. Se si vorrà fare un secondo passo, quindi, oltre alla cancellazione di ogni parametro di temporaneità legato al permesso di soggiorno, andrà aggredita proprio questa filiera distorta in cui a monte il soggetto più forte, la distribuzione, fa il bello e il cattivo tempo, di fatto spesso imponendo i propri prezzi a chi coltiva e raccoglie frutta e verdura. Un modo per continuare a rendere meno invisibili non solo i braccianti, ma tutti i lavoratori della filiera che ci permettono di mettere in tavola i frutti preziosi della nostra terra.