Di Paolo Lambruschi, inviato a Bialystok (Polonia), su Avvenire
Siriani e curdi, afghani, yemeniti e africani in fuga da guerre e persecuzioni provano a superare il confine dimenticato tra Polonia e Bielorussia: ma per loro l’Europa resta una fortezza
La lanterna verde è rimasta accesa, ostinatamente. Illumina la notte della foresta di Pogorzelce, dove inizia la zona rossa al confine dimenticato tra Polonia e Bielorussia, dove il filo spinato separa l’Europa dal fedele alleato della Russia di Putin. Un’altra frontiera di orrori e violenze più a Nord di quella con l’Ucraina, attraverso la quale provano a passare profughi siriani e curdi, afghani, yemeniti e africani in fuga da guerre e persecuzioni. Ma per loro l’Europa resta una fortezza.
Li aveva invitati la Bielorussia del dittatore Lukashenko, concedendo visti turistici con passaggi in autobus verso il confine polacco per mettere in difficoltà l’Ue lo scorso autunno. A loro si sono uniti nelle ultime settimane gli stranieri in fuga da Mosca. Prigionieri nella terra di nessuno davanti al filo spinato che “Avvenire” il 15 novembre aveva denunciato nell’inserto “Se questa è Europa”.
Dall’altra parte le guardie bielorusse spingono questo esercito di disperati, per ora alcune centinaia, verso le barriere impedendogli di indietreggiare. La terra di nessuno è lunga centinaia di chilometri, fino alla Lituania e tra alberi e paludi di una meravigliosa riserva naturale sono morte questo inverno almeno 19 persone di freddo e stenti. Si teme siano molte di più. Ogni giorno si lotta in silenzio per non morire, raccontano gli attivisti polacchi in contatto telefonico con i profughi. Cosa succede lo rivela un video drammatico postato nei giorni scorsi su un canale youtube da una ragazza cubana che ha deciso con altri compagni di fuggire da Mosca.
«Sono rimasta bloccata tra il confine tra Polonia e Bielorussia. Se andiamo a destra o a sinistra, lasciano andare i cani e ci picchiano. Non mangiamo da quasi cinque giorni e siamo anche senz’acqua. Siamo in sei, due donne e quattro uomini. Stiamo cercando di arrivare in Polonia ma non ci fanno entrare. Siamo minacciati di morte in Bielorussia. Non si torna indietro».
Un rapporto di Human rights watch di novembre descriveva un quadro critico, ora è tutto peggiorato dal conflitto ucraino. Da febbraio nei boschi sono ripresi i passaggi con cinque chiamate di emergenza al giorno. Le guardie di Minsk sono sempre più spietate. Ma c’è anche altro. Circolano sulle pagine social di giornalisti curdi video di cadaveri di donne nude al confine lituano. Molti profughi raccontano di sparizioni di donne e bambini, su tutto aleggia lo spettro del traffico di organi. Nella notte tra sabato e domenica scorsi sono morte due persone. Uno era un giovane camerunense sbranato dai cani liberati dai doganieri bielorussi, L’altro, siriano, è morto annegato in un fiume in cui era stato costretto a entrare.
Zosia Krasnowolska di Hope and humanity risponde da remoto alle chiamate di emergenza dalla Bielorussia di chi è in difficoltà. Prova ad allertare soccorritori o attivisti. I profughi sono terrorizzati. Chi viene visto fotografare o filmare ferite violenze o decessi finisce infatti deportato nel bosco degli orrori senza telefono.
«Alla fine di dicembre, poco dopo Natale, – racconta commossa – una donna irachena ha partorito in mezzo alle barbe del filo spinato. Me lo ha riferito un testimone. Lei e il bambino sono stati lasciati morire al freddo, nessuno è potuto intervenire».
Dall’altra parte le guardie polacche, come i francesi sul confine occidentale italiano, respingono famiglie con bambini piccoli. Ma dall’altra parte non c’è l’Italia. La mattina di domenica 13 marzo tre famiglie curde irachene sono state respinte in Bielorussia. Con loro un bimbo di tre anni. Zosia non riesce a scordare quattro curdi, padre e madre con due bambini di cui uno autistico rimasti 14 giorni alla frontiera e quasi morti di fame e freddo. «Volevano solo raggiungere l’Ue per curare il figlio».
Anche Zosia ha notato l’aumento dei passaggi. «Per tre ragioni: il blocco dei trasferimenti in denaro che ha fermato gli aiuti dall’estero. L’aumento del flusso dei migranti da Mosca. Infine la propaganda del regime di Lukashenko che ha dato ordine di spingerli verso la Polonia e filmare i respingimenti per mostrare all’opinione pubblica interna che l’Ue è cattiva».
I profughi che possono permetterselo pagano un trafficante, nome in codice Mustafà, munito di molti passaporti, che in diverse case della capitale bielorussa Minsk e alla frontiera organizza viaggi a tappe. Ma chi finisce i soldi viene picchiato e torturato in diretta telefonica come nelle galere libiche per estorcere soldi ai parenti. Alcuni suoi prigionieri sono spariti.
Diverse centinaia di profughi rimasti in Bielorussia per sopravvivere all’inverno erano stati portati nella base logistica accanto alla dogana di Bruzgi, senza acqua e riscaldamento. Al 95% sono curdi iracheni ammassati in tende. I kapò bielorussi non esitano a stuprare le donne anche davanti ai mariti.
«Sono stati dimenticati – denuncia don Andrei Aniskevich, direttore di Caritas Bielorussia – dopo l’interesse iniziale di loro non parla più nessuno. Eppure sono in condizioni disperate». Caritas e la Croce rossa sono autorizzate a entrare due volte alla settimana per portare indumenti, medicinali e cibo per bambini. «Al momento ci vivono circa 800 persone – spiega il sacerdote – e ogni volta la distribuzione degli aiuti è un’esperienza drammatica».
Il conflitto rende urgente lo sgombero della base e molte di queste persone hanno figli disabili che non sopravviverebbero fuori. Nel lager c’è ad esempio una famiglia di curdi yazidi i cui bambini soffrono di deformazioni alla schiena impossibili da trattare da loro che comportano forti problemi articolari. O un ragazzo paraplegico iracheno che la famiglia non abbandonerà mai, un altro epilettico con paralisi cerebrale che cammina a fatica, un 13enne affetto da una grave forma di morbo di Crohn che peggiora con il rancio che i militari distribuiscono una volta al giorno. A Minsk gli attivisti sono anche riusciti a nascondere altri reduci della foresta vulnerabili o in pericolo di vita.
«Come 9 giovani siriani – 6 dei quali cristiani – obiettori di coscienza – riferisce l’attivista di Gandhi Charity Silvia Cavazzini che da novembre segue le tragedie del confine dimenticato – rischiano o di essere deportati in patria o lasciati in mano alla “4th military band”, siriani che supportano la Russia nella guerra contro l’Ucraina. Un iracheno con moglie, due figlie e un figlio di due anni con paralisi cerebrale. E un ragazzo curdo con una malattia auto degenerativa agli occhi cui le guardie bielorusse hanno rotto gli occhiali. E poi i cristiani convertiti». Anche l’amore è perseguitato, come quello di una coppia siriana – lei cristiana e lui musulmano- che devono nascondersi per sfuggire al rimpatrio.
Su 100 persone solo 10 ce la fanno, conferma Grupa Granica coordinamento di 14 ong umanitarie polacche che monitorano la crisi umanitaria. Sono in rete con gli attivisti locali che usano nomi in codice per non incorrere nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Possono muoversi nella zona rossa e lanciano oltre la frontiera generi di soccorso e coperte termiche oppure intervengono per salvare chi è sfuggito alle guardie polacche anche nascondendoli per brevi periodi nelle soffitte. Raccontano storie di cellulari rubati o spaccati dalle guardie, di ragazzi trovati in ciabatte di plastica e i piedi congelati, senza cibo nè acqua per giorni. L’Ue, che qualche centinaio di chilometri più a sud sta dimostrandosi all’altezza, deve intervenire perchè non esistono vite umane di serie b in Europa. Lo ricorda la lanterna verde all’inizio della foresta.
Immagine in evidenza di Reuters