di Eleonora Camilli per Redattore Sociale
L’Italia rischia una nuova condanna alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Diciassette sopravvissuti di un naufragio nel Mediterraneo hanno presentato, infatti, ricorso contro il Governo Italiano presso la Corte di Strasburgo. Tra i ricorrenti due genitori di bambini morti durante l’incidente. Il ricorso, redatto dal Global Legal Action Network (Glan) e dall’associazione italiana Asgi, con il supporto di Arci e della Yale Law School’s Lowenstein International Human Rights Clinic, è stato reso noto oggi nel corso di una conferenza stampa a Roma.
L’incidente risale al 6 novembre 2017, quando la Guardia Costiera libica ha interferito con le operazioni di salvataggio di 130 migranti su un gommone che stava affondando, da parte della nave dell’Ong Sea Watch 3. L’intervento è stato in parte coordinato dal Centro di Coordinamento Marittimo (MRCC) della Guardia Costiera italiana. La nave libica era stata fornita dall’Italia qualche mese prima. Nella vicinanza si trovava anche una nave militare italiana, facente parte dell’operazione Mare Sicuro, che operava nelle acque territoriali libiche coadiuvando le operazione di intercettazioni della Guardia Costiera Libica. Alla fine del soccorso la Guardia Costiera Libica ha respinto i sopravvissuti in Libia dove sono stati rinchiusi in condizioni disumane, subendo percosse, estorsioni, fame e stupri. Due tra i sopravvissuti sono stati successivamente “venduti” e torturati con elettrochoc.
Nel ricorso si sottolinea come l’intervento della Guardia Costiera sia una conseguenza dell’accordo Italia/Libia del febbraio 2017 tra l’Italia e il governo libico di Accordo Nazionale. A partire da quella data il nostro paese ha infatti supportato e coordinato la risposta libica in mare. In particolare, nel ricorso si sottolinea che l’accordo determina, in questo caso, la responsabilità legale del governo italiano nelle azioni delle navi italiani e libiche. Una responsabilità che si estende anche alle conseguenze dell’accordo: morte per annegamento, violenza e maltrattamenti, che sono stati ripresi anche a bordo della nave della Guardia Costiera Libica dalle telecamere dall’equipaggio della Sea-Watch 3. Il ricorso è stato redatto da un gruppo di organizzazioni umanitarie, ed è stato possibile grazie alle prove raccolte dal Forensic Oceanography, parte dell’agenzia Forensic Architecture con sede all’Università Goldsmiths di Londra, che ha prodotto una ricostruzione dettagliata dell’incidente.
“Le autorità italiane hanno appaltato alla Libia quello che a loro era proibito, secondo gli obblighi nel campo dei diritti umani. Stanno mettendo delle vite in pericolo, esponendo i migranti a forme estreme di maltrattamento “by proxy” attraverso il sostegno, il mantenimento e la coordinazione dell’operato della sedicente ‘Guardia Costiera Libica’ – afferma la consulente legale di Glan Violeta Moreno-Lax, docente della Queen Mary, università di Londra. Sulla stessa scia anche il consulente legale di Glan Itamar Mann dell’università di Haifa: “Speriamo fortemente che questo nuovo caso possa servire a stabilire il concetto chiave secondo il quale i cosiddetti ‘respingimenti’ infrangono le norme elementari sui diritti umani. La guardia costiera e le milizie libiche non possono diventare il mezzo tramite il quale l’Italia commette soprusi contro i migranti nel Meditteraneo centrale”.
“Abbiamo ascoltato le storie dei superstiti, tutti nigeriani: alcuni hanno perso i figli minori, altri sono saliti sulla barca della guardia costiera libica e poi riusciti a raggiungere Sea Watch buttandosi a mare, altri ancora sono stati ricondotti in Libia dove sono stati portati in centri detenzione – sottolinea Loredana Leo, avvocata di Asgi – Abbiamo rilevato numerose violazioni dei diritti umani e per tutti i ricorrenti una violazione del diritto alla vita, perché tutti sono stati posti in pericolo e nel caso dei figli minori dei ricorrenti c’è stata una reale perdita della vita”. L’avvocata spiega che “c’è sicuramente una responsabilità più ampia dello Stato italiano e si basa sul fatto che le intercettazioni in mare della guardia costiera libica possono essere ricondotte al governo italiano”. Inoltre per Asgi il ricorso di oggi si inserisce in una più ampia strategia sull’esternalizzazione, in particolare “stiamo seguendo la vicenda dello sviamento di 2,5 milione di euro del Fondo Africa per la rimessa in efficienza di 4 motovedette libiche”, precisa Leo.
“Siamo in mare per testimoniare e per portare alla luce la voce delle persone che soccorriamo, per questo per noi oggi è un giorno importante – aggiunge Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch – È un momento difficile, in cui siamo impegnati a sopravvivere in mare, mentre l’Europa non si sporca le mani ma lascia che sia un altro attore a farlo”.
Charles Heller, co-fondatore del progetto Forensic Oceanography spiega che per arrivare al ricorso sono stati analizzati sedici episodi diversi durante i quali “l’Italia, sostenuta dall’UE, ha coordinato e diretto la Guardia Costiera Libica nel processo di intercettazione e di recupero forzato dei migranti in Libia nonostante esista un’ampia e variegata documentazione volta ad illustrare le violazioni sistematiche dei diritti umani cui questi ultimi vi sono sottoposti. Le prove che abbiamo raccolto dimostrano la portata scioccante del meccanismo di esternalizzazione delle violazioni dei diritti umani adoperato dall’Ue.
Per Sara Prestianni, portavoce di Arci “il ricorso costituisce un elemento fondamentale a favore della dimostrazione della responsabilità politica e legale del governo italiano in ripetute e sistematiche trasgressioni dei diritti umani, sia in quanto avviene in mare che nelle condizioni infernali verso cui i migranti sono ricondotti in Libia”.
Lorenzo Pezzani, co-fondatore del progetto aggiunge che sono “numerose le registrazioni realizzate da ong in mare che ci hanno permesso di ricostruire la dinamica degli incidenti come quello che fa l’oggetto del presente ricorso con una precisione inedita. Il quadro che emerge è agghiacciante e mette in risalto gli effetti drammatici scatenati dalla politica sia italiana che europea di respingimenti per delega”.
“All’inizio degli anni 90, la clinica Lowenstein per i diritti umani ha diffidato il governo americano ad intercettare e costringere al rientro i rifugiati haitiani in alto mare – afferma James Silk, direttore di Yale Law School’s Lowenstein Clinic – Abbiamo continuato ad evidenziare e denunciare l’ingiustizia immane che consiste nel bloccare i migranti in mare e costringerli al rientro in zone in cui verranno sottoposti ad abusi e maltrattamenti senza un esame preliminare delle singole vicende”.
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