Ci abbiamo riprovato: a un anno di distanza dal nostro primo “esperimento”, abbiamo segnalato a Facebook 100 commenti che violano apertamente gli standard della comunità in materia di incitamento all’odio: 29 sono stati rimossi, 71 sono stati ritenuti idonei a restare online. Poco meno di un terzo, dunque, è stato riconosciuto dal social network come hate speech e di conseguenza cancellato. In media sono trascorse 29 ore tra la segnalazione e la notifica che annuncia l’esito dell’analisi.
Una definizione condivisa, a livello internazionale, di hate speech ancora non esiste: per condurre la nostra sperimentazione siamo allora partiti dagli standard della comunità di Facebook:
Gli standard della comunità relativi all’incitamento all’odio di Facebook, così come descritti sulla piattaforma social.
Partendo da questi elementi nel mese di marzo abbiamo esaminato i post pubblicati sulle pagine Facebook di quotidiani nazionali e locali, esponenti politici, portali di propaganda, individuando e segnalando 100 commenti che violano secondo noi le policy del social network in materia di incitamento all’odio, poiché attaccano in modo apertamente violento una persona o un gruppo di persone su base etnica, razziale o religiosa (l’elenco completo dei commenti segnalati è qui).
Nell’ambito del test che avevamo condotto nel 2016 su 100 ne erano stati rimossi 9, quest’anno, invece 29: un risultato che, in considerazione della forma e del contenuto inequivocabilmente aggressivi dei commenti segnalati, non possiamo ritenere sufficiente. Per comprendere meglio questo esito, ci siamo rivolti nuovamente a Facebook, portando avanti un confronto che ci ha aiutati a capire meglio quali sono i meccanismi che regolano l’analisi delle segnalazioni.
Come l’anno scorso il primo aspetto che abbiamo notato è che alcuni commenti, a parità di forma e contenuto, sono stati rimossi, altri no: è il caso, per esempio, di “buttateli in mare” – con riferimento a post su migranti e rifugiati. Su tre commenti contenenti la stessa formula solo uno è stato cancellato. Come mai?
È essenziale sapere che la verifica delle segnalazioni non è affidata ad algoritmi, ma a persone in carne e ossa. Facebook ha costituito un team specifico, il “Community Operations”, i cui membri – detti anche “esperti di sicurezza” – sono madrelingua in oltre 40 idiomi, tra i quali l’italiano. Per rendere più efficaci le valutazioni, il metodo di lavoro applicato dal personale è quello di analizzare non solo le parole utilizzate, ma anche il contesto e l’intenzione che traspare dal messaggio. L’esperto di sicurezza ha accesso, attualmente, anche alle foto e ai video originali ai quali i commenti fanno riferimento, affinché possa inserire i contenuti segnalati in un quadro più ampio: se da un lato l’obiettivo è quello di massimizzare l’efficacia della valutazione delle segnalazioni, dall’altra resta la necessità per l’azienda di minimizzare la quantità di dati personali mostrati al personale stesso.
Abbiamo, inoltre, osservato che tutti i commenti contenenti alcune parole, come “negro/i”, sono stati rimossi; ci siamo chiesti, allora, se esistesse una black list di termini in presenza dei quali il commento venisse sempre cancellato. Dal confronto col social network è emerso che non esistono parole vietate: non è accettato l’uso di definizioni dispregiative nei confronti di persone che rientrano in categorie a rischio discriminazione, tuttavia la valutazione avviene caso per caso, poiché lo stesso termine potrebbe, per esempio, essere utilizzato per offendere e attaccare, oppure per sensibilizzare circa lo stesso contrasto all’hate speech. In quest’ultimo caso, se la finalità è dichiarata, il contenuto non verrebbe rimosso.
Nel maggio 2016, su impulso della Commissione europea, era stata introdotta una novità: Facebook, Twitter, Microsoft e Youtube avevano sottoscritto un codice di autoregolamentazione col quale si impegnavano a mettere in atto procedure di segnalazione efficaci, a rendere chiare per la comunità le proprie politiche e linee di condotta sui discorsi d’odio e a verificare le segnalazioni relative a casi di hate speech entro 24 ore (i risultati di un primo lavoro di monitoraggio – a cura della Commissione – sull’applicazione di tale testo sono stati resi noto a fine 2016).
Abbiamo ritenuto rilevante, dunque, tenere conto del tempo trascorso tra la segnalazione e la ricezione della notifica con la quale si viene a conoscenza dell’esito: la media è di 29 ore. Solo in 3 casi la notifica è stata ricevuta entro le 24 ore (si è trattato, in tutti e 3 i casi, di commenti che non sono stati rimossi), con un tempo minimo impiegato di 20 ore e 16 minuti. 13, invece, le notifiche ricevute oltre 36 ore dopo la segnalazione, con un massimo di 46 ore e 6 minuti.
Nel registrare i tempi, abbiamo verificato che l’ordine di ricezione delle notifiche non corrisponde alla cronologia delle segnalazioni: questo avviene, come emerso dal confronto con Facebook, perché il Community Operations Team nel decidere quali segnalazioni trattatare per prime si basa sul cosiddetto “real world risk”, ossia il livello di rischio corso dalla vittima o dalle vittime dell’attacco al di fuori della piattaforma.
“Ringraziamo Carta di Roma per questa sperimentazione relativa al funzionamento dei nostri sistemi, e studieremo con attenzione le segnalazioni ricevute per migliorare il modo in cui operiamo in questo ambito. Abbiamo regole chiare contro l’hate speech e lavoriamo costantemente per escludere questo tipo di contenuti dalla nostra piattaforma. Ci impegniamo a lavorare con la nostra comunità di utenti per affrontare al meglio queste questioni”. Questa la dichiarazione rilasciata da Facebook una volta sottoposti all’attenzione del social network i risultati del test condotto.
Dopo aver approfondito meglio il funzionamento della verifica, passando di nuovo in rassegna i commenti rimossi e non rimossi, sono due le considerazioni principali che facciamo: la prima è che presumibilmente permane un notevole margine d’errore nelle valutazioni, il quale potrebbe motivare la permanenza di alcuni dei contenuti segnalati; la seconda è che, nell’operare la distinzione tra discorsi d’odio e commenti tollerabili, applichiamo probabilmente una logica diversa rispetto a quella dell’azienda. La nostra interpretazione degli standard della comunità di Facebook in materia di incitamento all’odio, la quale ci ha portato a selezionare i 100 commenti che per noi violavano palesemente tale politica, evidentemente non corrisponde in pieno a ciò che Facebook intende per hate speech.
Ci auguriamo, dunque, che il percorso intrapreso con l’Online Civil Courage Iniziative, iniziativa che vede il social network a confronto con organizzazioni di tutta Europa sul tema del contrasto all’hate speech, porti innanzitutto a un dibattito che conduca a una definizione più chiara e condivisa di cosa costituisca un discorso d’odio.
Sappiamo bene che non esiste una bacchetta magica per porre un freno a un fenomeno tanto diffuso quanto complesso: i fattori che lo determinano sono numerosi, così come è necessario agire su più livelli affinché lo si possa contrastare efficacemente. Senza dubbio la tecnologia rappresenta in questo cammino un elemento essenziale sul quale intervenire e l’impegno concreto dei social network avrebbe un peso rilevante.
La necessità di tutelare la libertà di espressione degli utenti, ribadita più volte dalle diverse aziende chiamate a esprimersi sulla questione, non si scontra con l’attività di contrasto ai contenuti d’odio: al contrario, la lotta alle varie forme di violenza contribuisce alla costruzione di uno spazio che sia sicuro per tutti, anche per le persone più vulnerabili. Il vero scontro, forse, è quello con gli interessi economici e commerciali delle stesse piattaforme: fino a quando questo non sarà superato, tuttavia, difficilmente le azioni dei social network per il contrasto all’hate speech potranno essere davvero efficaci.
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