di Laura Zanfrini, Responsabile Settore Economia e lavoro Fondazione ISMU
Molti hanno auspicato, in queste settimane, che insieme ai suoi drammatici costi umani ed economici, l’emergenza sanitaria ci possa lasciare in eredità qualche risorsa preziosa per immaginare e costruire il nostro futuro; quel futuro in cui “niente sarà più come prima”. Tra queste risorse preziose vorremmo poter annoverare due fondamentali consapevolezze.
La prima è la consapevolezza di come, anche nelle società tecnologicamente avanzate, sono le persone a fare la differenza: le loro conoscenze e competenze, in primo luogo, ma insieme alle loro doti di sensibilità, empatia, creatività e, non da ultimo, alla loro capacità di cooperare con altre persone; in altre parole, la loro umanità, ciò che le rende ad un tempo uniche e diverse.
La seconda consapevolezza riguarda la rilevanza – dal punto di vista quantitativo ma più ancora nel sostenere la vita quotidiana della nostra società e lo stesso funzionamento dell’economia – del lavoro manuale o addirittura “servile”. Proprio quel lavoro che è rimasto sostanzialmente ai margini dell’attenzione politica e pubblica, e durante questa crisi, da un lato è risultato più esposto al rischio del contagio (è il caso dei lavoratori delle pulizie, della logistica, dei trasporti, del commercio, oltre che della cura) e dall’altro ha visto ulteriormente aggravarsi le conseguenze dell’occupazione precaria e sottopagata. E che compone un segmento del mercato del lavoro di cui gli immigrati costituiscono la struttura portante: proprio questa circostanza, come molte volte abbiamo documentato nel Rapporto ISMU sulle migrazioni, non è certo estranea a quei processi involutivi che hanno progressivamente eroso il confine tra lavoro “accettabile” e lavoro non accettabile.
Si tratta, allora, di immaginare una società che rimetta al centro il Lavoro, come spesso si sente affermare, ma soprattutto i Lavoratori e le Lavoratrici, riconoscendone le aspirazioni e i bisogni, ma prima ancora la loro inalienabile dignità che deve essere tutelata attraverso l’affermazione – concreta, non solo attraverso dichiarazioni di intenti – del concetto di lavoro decente e dignitoso. L’analisi delle condizioni lavorative di molti immigrati deve, da questo punto di vista, suonare come un campanello d’allarme; essa denuncia come il “cattivo lavoro” che, per molti immigrati, costituisce la cifra se non di un intero destino professionale quanto meno delle prime (lunghe) fasi del percorso di inserimento, si è in questi anni diffuso, proprio come un “virus”, in maniera sempre più pervasiva nel mercato del lavoro italiano: sia dal punto di vista geografico, interessando sempre più spesso le stesse regioni del Nord e le aree metropolitane dal profilo più innovativo e internazionalizzato; sia da quello settoriale, interessando ormai non solo i comparti tradizionalmente coinvolti nel fenomeno, ma anche quelli legati alla terziarizzazione e alla globalizzazione dell’economia; sia da quello delle categorie di lavoratori coinvolti, interessando non solo i lavoratori immigrati e marginali, ma fasce crescenti dell’offerta di lavoro, senza risparmiare neppure le più giovani e scolarizzate. Un impoverimento complessivo del lavoro che sicuramente non giova né alla coesione sociale né alla stessa competitività dell’economia e di cui la “via bassa” nell’impiego del lavoro immigrato costituisce uno specchio e, per certi aspetti, un segnale premonitore. E che potrebbe costituire una seria ipoteca sulle prospettive della “ripresa” da tutti auspicata.
Vale la pena, al riguardo, ricordare come la crisi iniziata nel 2008 ha lasciato come corollario un riallineamento verso il basso della qualità in senso lato dell’occupazione – un fenomeno che ha investito in particolare il mondo dell’immigrazione, ma non solo quello – ed è probabilmente questa una delle ragioni che hanno rallentato e inibito la ripresa. Occorre dunque vigilare perché dopo questa ulteriore profonda crisi non si ripeta lo stesso errore.
A tal proposito, l’analisi del rapporto tra immigrazione e mercato del lavoro italiano ci rende consapevoli di come per promuovere una crescita economica sostenibile sia innanzitutto necessario rafforzare tutti gli interventi diretti a contrastare quei processi involutivi che (s)qualificano gli attuali regimi di accumulazione. Si tratta di interventi che chiamano in causa vari livelli di responsabilità, da quella delle autorità preposte al governo del mercato del lavoro a quella delle imprese fino al singolo consumatore che va reso sempre più consapevole di come le proprie scelte d’acquisto di beni e servizi possono influenzare le condizioni in cui sono prodotti ed erogati. E che richiedono sia dispositivi per la riduzione del cuneo fiscale, sia eventualmente anche politiche di sussidiarizzazione dei posti di lavoro a basso valore aggiunto ma indispensabili per i processi di riproduzione sociale. Quello dei lavoratori/lavoratrici della cura rappresenta, al riguardo, un caso esemplare.
Va da sé che una capillare azione di contrasto al lavoro nero e alle pratiche di sfruttamento dei lavoratori rappresenta una condizione indispensabile a realizzare l’obiettivo di una crescita economica sostenibile. Garantire l’applicazione delle sanzioni e dell’attività di vigilanza rafforzate con la legge di bilancio 2019 e investire nella prevenzione delle pratiche legali di reclutamento e impiego dei lavoratori (migranti) deve costituire il focus di uno sforzo corale: non possiamo infatti permetterci di discutere di temi che ci traguardano verso il futuro, come quello della cittadinanza per i migranti e i loro figli, senza prima avere debellato la piaga atavica del lavoro nero e dello sfruttamento che a volte rasenta la riduzione in schiavitù.
Vedi anche “Non sono io”, il tributo ai lavoratori e alle lavoratrici migranti realizzato da Associazione Carta di Roma e COSPE Onlus.
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