Intervista a Vinicio Ongini
Di Anna Meli
Il dopo Charlie Hebdo in Francia ha riacceso il dibattito sui modelli di integrazione e soprattutto sul ruolo della scuola e dell’educazione ai valori di cittadinanza. La tesi ovviamente è che il fondamentalismo nasca dal risentimento sociale e culturale e dalla lotta all’esclusione.
I sindacati di categoria francesi hanno in parte contestato questa equazione, che scarica sulla scuola il compito di trovare rimedio ai problemi dell’integrazione. «La scuola deve essere un luogo in cui si trasmette non solo la conoscenza ma anche i fondamenti della cittadinanza», ha dichiarato la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, il 12 gennaio a «France Info». Anche la ministra dell’Istruzione, Najat Vallaud-Belkacem, ha inviato a tutti i docenti una lettera in cui li invitava a «rispondere positivamente alle esigenze o richieste che possono aver luogo in aula». La ministra ha ricordato che la scuola educa «alla libertà di coscienza, di espressione, al senso della vita, all’apertura verso gli altri e alla tolleranza reciproca».
In Italia il dibattito sulla riforma della legge sulla cittadinanza ai figli di immigrati si trascina da anni e da governo a governo senza ancora trovare risposta concreta. Nel frattempo i dati sulla scuola indicano per la prima volta il sorpasso delle cosiddette seconde generazioni nella percentuale di presenze degli alunni con cittadinanza non italiana nelle classi di ogni ordine e grado.
Sono 803 mila gli alunni con cittadinanza non italiana iscritti nelle scuole di ogni ordine e grado. Il 9% del totale degli studenti. Nonostante questo il binomio tra mondo della scuola e immigrazione continua a conquistare lo spazio mediatico se si alimenta di polemiche legate alle esibizioni dei crocifissi, o dei presepi oppure nelle proteste dei genitori italiani per gli elevati tassi di presenze di ragazzi stranieri o figli di immigrati nelle classi.
«Solitamente il racconto che viene fatto è soprattutto sugli aspetti negativi, anche da parte di decisori politici. È come se si affrontasse il discorso degli studenti stranieri partendo solo dalle difficoltà di integrazione», sostiene Vinicio Ongini, esperto del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e curatore insieme alla Fondazione Ismu della pubblicazione «Alunni con cittadinanza non italiana». I dati del rapporto 2014 verranno presentati dal ministro Giannini oggi, giovedì 19 febbraio, a Roma, nel corso di un incontro con i dirigenti delle scuole a più alta incidenza di alunni stranieri. Abbiamo chiesto a Ongini di anticiparci i dati salienti e una sua valutazione sullo stato del dibattito su scuola e intercultura in Italia a partire proprio dalla fotografia che emerge dal nuovo rapporto: «I nuovi dati sulla condizione degli studenti non italiani restituiscono un quadro caratterizzato dal permanere di alcuni problemi – afferma Vinicio Ongini – Chi è arrivato adolescente o preadolescente con alle spalle anni di scuola nel proprio paese di origine e quindi con sistemi scolastici diversi, trova molta difficoltà e registra i tassi di insuccesso maggiore. In generale le difficoltà sono quindi riconducibili al ritardo scolastico, al maggior tasso di bocciature e a un terzo elemento ambivalente: scelgono prevalentemente gli istituti tecnici e professionali».
Perché si tratta di un dato ambivalente?
«Ci sono degli elementi negativi in questa scelta, frutto spesso di un orientamento al ribasso per cui anche studenti figli di immigrati che hanno capacità vengono orientati a questo tipo di studi. L’istituto professionale è considerato a volte il fanalino di coda, ricettacolo di tutti i problemi anche per gli italiani. Nei professionali troviamo situazioni più complicate con maggior presenza di disabili, più studenti di classi sociali basse. Gli ultimi dati stanno disegnando però un quadro in cambiamento, un sorpasso dei tecnici sui professionali e un aumento di presenze anche nei licei. Un dato positivo dovuto principalmente all’aumento del tasso delle seconde generazioni sul totale degli alunni di cittadinanza non italiana».
Quali sono quindi le novità principali che emergono dal Rapporto 2014?
«Innanzitutto per la prima volta i nati in Italia sono più della metà e per la precisione il 51,7%. Un dato importante anche perché dal punto di vista del successo scolastico le cosiddette seconde generazioni si stanno avvicinando ai livelli di apprendimento dei coetanei italiani. Un altro elemento di novità è rappresentato dal passaggio all’università. Sono più gli studenti stranieri provenienti dai tecnici e dai professionali che si iscrivono all’università rispetto a quelli italiani. Un quadro in evoluzione su cui pesa anche la spinta delle famiglie che investono e credono nell’istruzione quale leva di mobilità sociale. La ricerca indica inoltre che gli alunni non italiani di seconda generazione vanno meglio soprattutto in matematica e in alcune regioni del Sud, come la Campania, superano in termini di successo scolastico i ragazzi italiani».
Trova quindi ingiustificato l’allarme sui tassi di abbandono scolastico tra i ragazzi stranieri?
«Gli abbandoni coinvolgono soprattutto gli alunni italiani delle regioni del Sud Italia dove la percentuale di ragazzi di origine straniera è più bassa che in altre regioni. Ci sono ancora molte difficoltà ma ci sono elementi di cambiamento in positivo che devono essere evidenziati».
Quali sono allora le difficoltà e quali invece i più importanti elementi di cambiamento che dovrebbero essere colti?
«Le difficoltà permangono nell’accoglienza e nel sostegno a coloro che arrivano adolescenti nel nostro sistema scolastico. Lo studente appena arrivato deve essere aiutato. Aiuto, questa è la parola giusta. Un dispositivo di aiuto immediato che la scuola deve poter attivare subito senza far passar mesi con l’alunno, ad esempio cinese, che sta in silenzio seduto in un banco. Dall’altra però abbiamo l’elemento dello scambio interculturale che viene declamato nei principi ma che poi trova poco spazio nella pratica didattica e nel racconto mediatico. Per uno studente italiano essere in una classe dove ci sono studenti di altri paesi è una lezione; sta imparando com’è il mondo e come sarà. Mentre quello a cui assistiamo è che quando ci sono scuole e classi con percentuali molto alte di ragazzi stranieri spesso vengono prese le distanze dalle famiglie italiane. Si preoccupano. Insomma quest’occasione di cambiamento che c’è, che potrebbe esserci nella presenza degli alunni stranieri, viene sottovalutata o non affrontata».
Qual è a suo avviso la sfida o una proposta concreta per stimolare una riflessione nel mondo della scuola su questo tema?
«Negli ultimi anni il tema dell’intercultura e dell’integrazione è stato in parte abbandonato dalle istituzioni. L’immigrazione come “occasione di cambiamento” nel sistema scolastico forse non è mai passata veramente perché non può essere una questione che si riduce a uno slogan. Va evidenziata in modo concreto e per farlo ci vuole coinvolgimento delle persone, la formazione degli insegnanti e dei dirigenti, soprattutto quelli nei contesti complicati e più difficili, il coinvolgimento delle famiglie. Ci vogliono azioni non slogan. Io colloco temporalmente “l’abbandono” a una data precisa: il 2007. In quell’anno uscì un documento del Miur tuttora attualissimo intitolato “La via italiana alla scuola interculturale”. Conteneva 4 principi e 10 azioni che dovevano essere la traduzione della via italiana, del modello italiano sull’intercultura nella scuola. Ma poi le azioni sono state deboli o non ci sono state e non si è tenuta accesa l’attenzione, la sensibilità, la formazione. Tutte azioni che, pur nella crisi economica, potevano trovare risorse anche piccole per essere portate avanti. Si poteva partire ad esempio dall’attenzione alle situazioni delle scuole più critiche: sono poco più di 500 scuole su 56 mila quelle nelle quali la percentuale degli alunni non italiani supera il 50%. È su quelle che bisogna agire perché sono, a volte, a rischio di abbandono da parte delle famiglie italiane e degli stessi studenti stranieri e non. Sono quelle più a rischio di diventare o essere considerate scuole di serie B».
Le motivazioni dell’abbandono stanno nel taglio e nell’assenza di risorse economiche adeguate per attuare quel percorso?
«In generale le istituzioni hanno affrontato e affrontano questo tema in modo insufficiente. Vedo in questo diverse ragioni: la prima è che a livello politico il tema è considerato un tema spinoso, difficile, che non porta voti. La seconda è la mancanza di consapevolezza nella classe dirigente del fatto che questo non rappresenti solo un problema e un tema spinoso, ma un’occasione di cambiamento vero. Non se ne vede il “vantaggio”. Ma non è forse un vantaggio quello che circolino più lingue nelle nostre scuole? Noi che siamo un paese così provinciale rispetto ad altri paesi europei».