Quanto è accaduto a Roma, in via Mirri, il 10 maggio scorso, è cosa nota: 123 famiglie rom, circa 500 persone di nazionalità romena, di cui più della metà minori, sono state sgomberate senza offrire loro alcuna alternativa
Di Maria Rosaria Chirico
Uno sgombero selvaggio che ha suscitato sdegno e indignazione, soprattutto tra gli abitanti del quartiere, i genitori degli alunni che frequentavano le stesse scuole dei bambini sgomberati, gli insegnanti ed alcuni politici che si sono attivati tempestivamente.
Tra questi anche la parlamentare Giovanna Martelli, la quale, nei giorni successivi lo sgombero, ha fissato un incontro alla Camera dei Deputati, con un gruppo di attivisti e persone che abitavano in via Mirri. All’incontro hanno partecipato anche le insegnanti delle scuole frequentate dai bambini rom e alcuni attivisti impegnati nel sociale. Circostanza in cui si sono valutate anche forme di aiuto e un presidio di solidarietà.
Lembi di umanità
Quando il 15 maggio, “Giornata internazionale della famiglia”, istituita dall’Onu nel 1993, arriviamo in via Mirri ci sono già tante persone, donne, uomini ma soprattutto bambini, tanti bambini, in braccio, in carrozzina, per mano, a giocare e a rincorrersi lungo il viale: volti e scene appartenenti ad un’umanità che sino a qualche giorno prima era una comunità. Una comunità coesa al suo interno e ben integrata che aveva saputo costruire dei legami nel quartiere di Casalbertone dove, da tre anni, era insediata in un deposito della Cotral. Quelli che incontriamo, in via Mirri, sono lembi di tante famiglie, nucleari ed estese. Famiglie composte e dignitose, ma smembrate ed umiliate. Disgregate e messe in ginocchio proprio da quelle stesse Istituzioni che le avrebbero dovuto sostenere e proteggere.
Dai racconti di donne, uomini e bambini emergono problematiche importanti, legate al lavoro interrotto, alla sicurezza che non c’è più ed espone a gravi pericoli, soprattutto donne e bambini, problematiche legate alla salute, alla scuola. Sì, anche alla scuola perché in quella comunità circa sessanta bambini la frequentavano con profitto e regolarità, erano benvoluti e rispettati, da compagni ed insegnanti. Un affetto dimostrato concretamente anche dai genitori degli altri bambini: i gagè, i non rom. In questo piccolo spaccato di società civile sono proprio quest’ultimi che si preoccupano, che si mobilitano, che scrivono ai politici e che insegnano ai loro figli il sentimento e la pratica dell’accoglienza e della solidarietà, della ricchezza delle differenza che non produce diversità.
In via Mirri i volti di adulti e bambini sono provati, segnati dalla stanchezza e dalla preoccupazione. Da notti insonni per la paura, il freddo, la necessità di dover “stare con gli occhi aperti”, per vigilare sui propri cari. Notti e giorni da homeless, in cui per molti è stato difficile se non impossibile “curarsi”, “lavarsi”, “farsi la doccia”,” “cambiarsi gli abiti”,” “lavorare“,” radersi”, “andare a scuola”. Giorni, trascorsi nei luoghi più disparati in cui sia stato possibile improvvisare un giaciglio o trovare un riparo: un parco, una panchina, un ponte, un’aiuola. In questi giorni a Roma ha piovuto tanto, soprattutto la notte in cui è avvenuto lo sgombero. Una pioggia abbondante e crudele che ha ulteriormente aggravato la situazione di chi dormiva all’aperto. Una pioggia che ha “bagnato indumenti, materassi” e tutto ciò che li proteggeva e che avevano potuto a portare con se. Raccontano che soltanto qualche famiglia è riuscita a trovare ospitalità presso alcuni insediamenti spontanei “da amici e parenti” e, che gli altri sono tutti per strada. Fra loro c’è una donna con un tumore, un’altra invece è stata operata da poco, altre tre sono in stato di gravidanza avanzata, un signore invece è affetto da una patologia grave al polmone ed ha bisogno dell’ossigeno, di cure urgenti. Ciò che si riesce a sapere ci è stato raccontato dalle donne e dagli uomini, un centinaio, arrivati in via Mirri, da ogni parte della città, per partecipare al “Presidio”. Sono soltanto coloro che siamo riusciti a trovare facendo rete o anche inoltrandoci “negli interstizi più dolorosi della condizione umana”.*
Storie dallo sgombero
La situazione è complessa, delicata, richiede un ascolto attento. Mentre parlo con alcune romnià (donne) un bambino, Ion, mi prende per mano per raccontarmi qualcosa di questa triste avventura. Vuole far sapere a tutte le persone ciò che è accaduto, mi chiede di essere video filmato per inviare una richiesta di aiuto. Quello che dice è molto grave, inaccettabile in una società “civile”: «sono soltanto un bambino e guarda come sono ridotto, non ho più neanche le mie scarpe, sono rimaste dentro. Sono povero e non posso più andare a scuola». Provo vergogna e guardandolo con più attenzione mi rendo conto che è un bambino curato, vestito in modo dignitoso, ma ai piedi ha un paio di ciabatte molto più grandi. La voce rotta dall’emozione, Ion continua dicendo che: “no, possono lasciarci soli.” Così piccolo, eppure così serio, indignato, ferito. Un signore, invece, mentre parliamo si scusa per il suo aspetto trasandato, la barba incolta. Mi racconta che non può «cambiarsi perché i vestiti sono rimasti dentro» e che in queste condizioni non può neanche «andare a lavorare». Più in là, una donna bellissima, seduta sopra un gradino con accanto la sua bambina, mi racconta con dolcezza e preoccupazione che suo fratello «è riuscito a trovare un posto sicuro dove piantare una tenda, soltanto ad Ostia. Ha tre bambini, due frequentano la scuola elementare ed uno quella dell’infanzia. Poi con orgoglio sottolinea che ogni giorno si alza alle quattro per portarli a scuola, per fargli concludere l’anno scolastico, ma i mezzi che deve prendere per arrivare a Roma sono tanti e la bimba più piccola si sente male e spesso vomita, ma lui è tenace e seppure è sfinito vuol far concludere l’anno scolastico ai suoi figli». Ieri Florentina (nome inventato) al telefono mi informa che suo fratello »è riuscito a trovare una piccola stanza a 250 euro, presso un campeggio, sempre ad Ostia, fuori Roma». Lei invece, da 13 anni in Italia ed un lavoro precario da badante, è reduce di altri sgomberi. Ha due figli, un maschio ed una femmina, di 16 e 12 anni che frequentano scuole in un altro quartiere. «Il bambino fa la terza media, è molto bravo». Da quando c’è stato lo sgombero ha deciso che non vuole più andare. «Vuole trovarsi un lavoro per aiutare la famiglia». Florentina continua dicendomi che ieri, a scuola, le insegnanti hanno assegnato un tema dal titolo “Racconta cosa vuoi fare da grande” e che la sua bambina ha scritto che vorrebbe fare la parrucchiera, che avrebbe studiato tanto con la speranza di poter aprire un salone. «Un tema che ha commosso tutta la classe». Marian invece mi dice che, sua moglie è in Romania ed i bambini li sta accudendo sua mamma in un insediamento spontaneo, dove vive. Non ha voglia di parlare ma ci tiene a sottolineare, in maniera garbata , che se qualcuno li avesse aiutati forse «questo sgombero non ci sarebbe stato».
Denise invece, già mamma di due bambini è all’ottavo mese di gravidanza ed è molto preoccupata perché «un bimbo appena nato, non può vivere per strada, è pericoloso». Un ragazzo invece mi prega di andare a vedere dove dormono i suoi bambini. Si tratta di un furgoncino utilizzato per il lavoro. All’interno, un letto improvvisato, straordinariamente ordinato e pulito con lenzuola e cuscini colorati. Lo sportello è aperto e tre bimbi giocano.
Sono scene dure e storie dolorose quelle che ascoltiamo. Il volto della parlamentare Giovanna Martelli che, insieme a tanti attivisti, la mediatrice culturale Eva Murantel, la presidente della Romni onlus Saska Jovanoic, Lino Lisi, Arabela Iancu , il professor Marco Brazzoduro, il giornalista Gianni Carbotti, i genitori della scuola Randaccio, esercenti e gente comune ha partecipato al Presidio, è teso, preoccupato. Ascolta tutti con attenzione per ore, cerca di fare un bilancio dei bisogni più urgenti, poi, quando arriva la sala operativa del Comune è lei che segnala i casi più gravi, che sollecita interventi immediati.
Ma quello che gli operatori della sala del Comune propongono non può essere accettato dalla maggior parte delle famiglie. Per una curiosa casualità ciò che i gagè (non rom) possono offrire è in forte contrasto con il senso più profondo di questa giornata: separare le famiglie, gli uomini dalle donne e dai bambini, perché, “purtroppo”, queste sono le regole e le condizioni per poter accedere nei centri di accoglienza. Chi conosce la popolazione romanì, compresi i signori del Comune, sa molto bene quale sia la sua funzione e quanto sia importante e centrale il ruolo della famiglia, nucleare o estesa, nella vita dei rom e della comunità. Sa bene che sono disposti ad affrontare sacrifici impensabili pur di non separarsi. In parte, è per tale ragione che sono riusciti a sopravvivere alle secolari ingiustizie, alle discriminazioni e ai trattamenti più vergognosi, quali il Porrajmos (lo sterminio) e la schiavitù.
Si tratta di un caso se da più di un ventennio le politiche sociali continuano a proporre le divisioni? Come è facile immaginare soltanto qualche persona, gravemente ammalata, ha accettato queste condizioni. La situazione rimane complessa, drammatica e richiede misure urgenti perché circa 500 cittadini comunitari sono ancora per strada in condizioni poco dignitose, privi di tutto a parte la forza e la protezione famigliare.
Forse bisognerebbe riflettere sul significato di questa festa e, oltre alle celebrazioni, cercare di metterla in pratica, magari imparando proprio da loro.
*Rom bulgari in Italia. Una migrazione silenziosa, Maria Rosaria Chirico, aprile 2015