Il sindaco di Londra si oppone ai contenuti pubblicitari che umiliano le donne. Ma c’è chi ha il coraggio di etichettarla come “censura filoislamica”
Di Martina Chichi
“Se il sindaco islamico vieta il bikini”, scrive il Giornale.
Il sindaco in questione è il londinese Sadiq Khan, eletto a maggio. Non ha affatto vietato il bikini, ma ha dato indicazioni alla società che gestisce i trasporti pubblici (Transport for London) affinché non accetti più campagne promozionali che possano far sentire le persone – in particolare le donne – inappropriate. Ma in fondo questa differenza è solo un dettaglio, giusto?
Comunque lo immagino, Sadiq Khan, svegliarsi una mattina e decidere che basta, di vedere donne in costume da bagno non ne può più. Sarà anche nato e cresciuto nella cosmopolita Londra, ma è pur sempre di origini pakistane e, soprattutto, musulmano. Cosa ci si può aspettare? Poco conta che abbia, per esempio, votato nel 2003 in favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, ricevendo minacce di morte: un musulmano è sempre un musulmano. E se vieta alcuni contenuti pubblicitari lo fa, evidentemente, per questioni religiose: “censura filoislamica”, come qualcuno l’ha chiamata.
Come è andata nella realtà
«Come padre di due ragazze adolescenti sono estremamente preoccupato da questo tipo di pubblicità che può umiliare le persone, in particolare le donne, e farle vergognare del proprio corpo. Nessuno dovrebbe sentire la pressione, mentre viaggia in metro o in bus, di irreali aspettative relative al proprio corpo e voglio mandare un messaggio chiaro all’industria della pubblicità riguardo a questo». Queste le parole di Sadiq Khan al Guardian, dopo aver fornito alla Transport for London direttive per evitare la pubblicazione di campagne promozionali che possano indurre a sentirsi inadeguati.
Un messaggio che come auspica, in effetti, è chiaro. Ma non per tutti.
Cosa c’entra il bikini? Niente. O meglio c’entra, ma indirettamente, perché a far scoppiare il dibattito su questo tema a Londra è stata la campagna pubblicitaria “Are you beach body ready?”, promossa dalla Protein World: cartelloni giganti che chiedevano alle donne se fossero pronte per la prova costume, mostrando come metro di giudizio una modella mozzafiato.
Al suo lancio, nell’aprile 2015, sono subito seguite molte critiche. In poche settimane una petizione per la rimozione della stessa campagna raccoglie oltre 70mila firme. “Protein World sta attaccando direttamente i singoli, con l’obiettivo di farli sentire fisicamente inferiori rispetto all’immagine non realistica del corpo della bronzea modella, per poter vendere i suoi prodotti”, si legge nella pagina di Change dedicata all’iniziativa.
A fine aprile l’Advertising Standards Authority, dopo aver ricevuto 360 segnalazioni in cui la campagna è indicata come sessista e “socialmente irresponsabile”, decide di aprire un’inchiesta e sospendere momentaneamente la pubblicazione dei cartelloni, mentre a inizio maggio Hyde Park ospita una manifestazione contro la pubblicità. L’Asa a luglio conclude che il contenuto della pubblicità non mercifica il corpo femminile, né è tale da essere considerato “irresponsabile”; stabilisce tuttavia che la sua circolazione non possa essere ripristinata a causa delle preoccupazioni espresse da alcune organizzazioni circa la sua potenziale influenza su coloro che soffrono di disordini alimentari.
Un bel polverone che risale a più di un anno fa, quando la nomina di Khan era ancora lontana.
Cosa dicono i media
L’iniziativa di Khan ha riacceso il dibattito: è giusto o meno proibire questo tipo di pubblicità, con le perdite economiche che possono conseguirne? Cartelloni come “Are you beach body ready” sono davvero svilenti per le donne? Oppure si tratta di un’esagerazione? Siamo di fronte a una qualche forma di censura?
Il discorso è affrontato così dalla maggior parte dei media britannici. Molte testate italiane, ovviamente esterne al dibattito del Regno Unito, riportano la notizia in termini piuttosto neutri.
Ma c’è sempre chi, anche di fronte a un’iniziativa che – giusta o sbagliata che sia – ha molto a che fare con le discriminazioni di genere e nulla a che vedere con la religione, forza la mano e riesce a buttarci dentro l’islam. Così stamattina quel titolo sul Giornale – “Se il sindaco islamico vieta il bikini”, seguito da un “Via la pubblicità sexy dai bus: mina l’autostima delle donne. E scoppia la polemica, censura filoislamica o giusta misura per proteggere i minori?“. Di “censura filoislamica” in realtà è essenzialmente una piccola fetta del popolo web a parlare, la quale sembra non tenere affatto conto di come sia sviluppata la vicenda.
È davvero così rilevante da meritare un tale spazio? No, ma lo diventa se si cerca a tutti i costi l’escamotage per lanciare il messaggio “musulmano = retrogrado che mina le libertà e i diritti occidentali”. Un messaggio che attecchisce sempre in fretta, almeno a giudicare dai commenti che il titolo ha generato.