“Non mi sarei mai aspettato di finire in prigione una volta arrivato in Europa. Non capisco perché sono stato arrestato, sono venuto qui per una nuova vita”. A dirlo ad Amnesty International è Noori, 21 anni, siriano, da oltre 5 mesi detenuto in una struttura greca. Dorme in una piccola cella insieme ad altre 6 persone, in materassi posti a terra: non c’è riscaldamento, le condizioni igieniche sono scarse, gli manca la luce del sole. Soffre di un disturbo post-traumatico da stress. La sua colpa? Essere arrivato in Grecia dopo l’entrata in vigore dell’accordo tra Unione europea e Turchia, il 18 marzo 2016.
Dopo il bombardamento dell’ospedale nel quale studiava per diventare infermiere e del suo villaggio abbandona la Siria, lo scorso aprile. Tenta più volte di entrare in Turchia, prima di riuscirci: viene picchiato e respinto, persino attaccato da un gruppo armato che uccide 11 dei suoi compagni di viaggio. Poi ce la fa, trascorre nel paese un mese e mezzo, dove subisce ancora violenze. A luglio riesce ad arrivare a lesbo. La sua domanda d’asilo, però, viene respinta sia in prima istanza che in appello, perché secondo le autorità greche per Noori la Turchia è “un terzo paese sicuro”. Viene così imprigionato e il tetto massimo di 90 giorni di detenzione prescritto dalla legge è presto superato: in attesa di conoscere l’esito dell’ennesimo appello – il cui fallimento potrebbe determinare la deportazione in Turchia – trascorre i giorni che passano in una cella.
La storia di Noori purtroppo non è isolata. Dal 20 marzo al 31 dicembre 2016, scrive Amnesty International nel rapporto “A blueprint for despair – Human rights impact of the EU-Turkey deal”, 26.994 persone hanno raggiunto le isole greche. Di queste solo 4.545 sono state trasferite sulla terraferma poiché ritenute particolarmente vulnerabili o per consentirne il ricongiugmento famigliare; almeno 15mila continuano a trovarsi nei campi delle isole, in condizioni di sovraffollamento, spesso senza acqua calda e riscaldamento, con un’inadeguata assistenza medica, in un contesto nel quale l’esasperazione sfocia talvolta in violenza.
Dei migranti e rifugiati giunti nelle isole greche nel 2016 dall’entrata in vigore dell’accordo, 10.699 hanno domandato asilo e al primo gennaio altre 7mila secondo il Greek Asylum Service avevano già espresso la volontà di chiedere protezione, senza averne tuttavia ancora avuto possibilità. Se per i richiedenti asilo siriani la pratica, di prassi, viene portata avanti in poche settimane, stando alle organizzazioni umanitarie e alle testimonianze degli interessati per le altre nazionalità i tempi di attesa possono allungarsi molto: “Quando sono arrivato mi hanno detto di dare il mio nome e che mi avrebbero chiamato. Sono passati 4 mesi e non ho notizie. Ho smesso di chiedere del mio caso, ma voglio domandarvi: perché i siriani arrivati dopo di me se ne sono già andati?”, ha riferito ad Amnesty un 25enne afgano bloccato a Chios.
Noori non è, inoltre, l’unico a rischiare di essere rispedito in Turchia. Per molti il respingimento è già divenuto realtà. In centinaia sono stati già deportati in Turchia sulla base dell’accordo stretto: al 31 gennaio 865. Per i 151 siriani inclusi nel gruppo – tra i quali vi sono minori, come per altre nazionalità, le organizzazioni internazionali denunciano che la Turchia non possa rappresentare un paese sicuro. A tali accuse le autorità greche hanno risposto spigando che i respingimenti non includono i richiedenti asilo rifiutati in prima istanza, ma solo coloro le cui domande sono state respinte ai successivi gradi, coloro che hanno deciso di revocare la propria domanda, che non si sono presentati quando convocati o che non hanno affatto richiesto l’asilo.
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