Chiamatelo Daesh e non Isis. Ricordate che il loro obiettivo è quello di spargere non solo terrore, ma anche odio. I suggerimenti di Juan Cole, docente universitario esperto di Medio Oriente, per parlare di terrorismo di matrice jihadista
Come parlare degli attentati rivendicati dal Daesh evitando generalizzazioni e associazioni improprie? Come non fare il gioco dei terroristi? A poche ore dagli attentati di Bruxelles, Juan Cole, professore di Storia dell’Università del Michigan, esperto di rapporti tra mondo arabo e occidentale e di Medio Oriente che ha trascorso dieci anni della sua vita in paesi musulmani, ha pubblicato sul suo blog, Informed Comments, un post: “Come non parlare dei musulmani dopo l’attacco di un gruppo di estremisti“. Memore della copertura mediatica generata dagli attentanti di Parigi, Cole ha steso una lista di suggerimenti con l’obiettivo di promuovere un’informazione più corretta e meno pericolosa.
Daesh o Stato islamico?
“Non chiamate il Daesh “Stato islamico”, è la prima indicazione di Cole. Il docente ricorda che chiamandolo Is/Isis/Isil involontariamente si attribuiscono a questo gruppo un’autorità e una legittimazione che non possiede: non è uno stato e, nonostante si auto-definisca “islamico”, non è riconosciuto come tale dal resto del mondo musulmano.
Nonostante Daesh sia l’acronimo di al-Dawla al-Islamiyya fi ‘Iraq wa l-Sham, ossia Stato islamico dell’Iraq e del Levante (o della Grande Siria), è utilizzato largamente dai suoi oppositori in Medio Oriente e ha acquisito quindi un’accezione che le traduzioni in inglese (Islamic State/Islamic State of Iraq and Siria/Islamic State of Iraq and the Levant) non portano con sé. La pronuncia del termine Daesh, infatti, richiama in arabo “calpestare”, “distruggere”.
“Se si formasse una frangia estremista che si fa chiamare “Vaticano” e commettesse atti terroristici – continua Cole – i giornalisti direbbero: ‘Oggi il Vaticano ha ucciso 39 persone con una cintura esplosiva’?”.
Islam e generalizzazioni
“È sufficiente chiamarli terroristi o estremisti”, scrive Cole. Se da una parte parlare di terroristi musulmani produce generalizzazioni pericolose e improprie, dall’altra secondo il professore della University of Michigan usare l’aggettivo islamico è sbagliato. Islamico, che significa appartenente all’islamismo, fa riferimento all’insieme di “ideali e verità dell’islam”, afferma Cole, così come al sistema politico, sociale e culturale a essa connesso. Cole ricorda, inoltre, che “il terrorismo è terrorismo, non importa chi ne sia il fautore“.
Aggiunge, inoltre, che è necessario smettere di “suggerire che ci sia qualcosa di sbagliato nei musulmani” e nell’islam. La storia dimostra che la violenza che appare, ad alcuni, come eccezionale e prerogativa di individui che dicono di agire in nome dell’islam non lo è affatto.
Un errore comune è quello di parlare dei musulmani come se costituissero una comunità omogenea. “I musulmani – sottolinea Cole – rappresentano un sesto dell’umanità e provengono da ogni tipo di contesto, etnia, lingua. Esistono 40 milioni di cinesi musulmani. 23 milioni di russi musulmani. Musulmani etiopi e senegalesi hanno poco in comune, al di là dell’essere africani, così come hanno poco in comune coi musulmani del Bangladesh”. Non ha senso parlarne come se fossero tra loro uguali, ne ha ancora meno etichettarli tutti sulla base delle azioni violente di un gruppo terroristico.
All’indomani degli attentati di Bruxelles il Giornale apriva con “Cacciamo l’islam da casa nostra”. In risposta a questa prima pagina, la sera stessa quindici musulmani – italiani e non – si sono recati di fronte alla sede del quotidiano e hanno pregato: una protesta pacifica per dire che “cacciare l’islam” dall’Italia significherebbe cacciare via persone – ancora una volta: italiane e non – che nulla hanno a che spartire col Daesh e per ricordare ai media che hanno un ruolo fondamentale nel modellare l’immagine che l’opinione pubblica ha delle minoranze.
I musulmani le principali vittime del terrorismo
“Mostrate umanità e simpatizzate con le vittime musulmane del terrorismo”, consiglia Juan Cole, osservando che la maggior parte dei musulmani disprezza attivamente il Daesh e simili frange violente.
Non c’è da stupirsi: sono i musulmani le principali vittime del terrorismo. Una mappa interattiva pubblicata in seguito agli attentati di Parigi dalla Stampa mostra che il più alto numero di vittime di atti terroristici (facendo riferimento non solo alle persone uccise dal Daesh) si concentra in Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria.
Alcuni personaggi di rilievo pubblico dicono che, se anche solo il 2% di tutti i musulmani al mondo sopportasse il Daesh parleremmo comunque di una cifra altissima di combattenti. Cole lo definisce un “trucco propagandistico”: “quasi nessuno è partito per combattere col Daesh, in termini statistici”. Prendendo come esempio il Regno Unito, i 600 cittadini parti per la Siria per combattere a fianco del Daesh, costituiscono lo 0,016% di supporto sul totale della popolazione musulmana del paese.
Cole mette in guardia media e cittadini dal fare il gioco dei terroristi: “Daesh spera di usare “voi” per portare altre persone nelle sue fila”. Lo fa facendo provare odio e paura e spingendo i “non-musulmani” a innalzare un muro tra “noi e loro”, favorendo l’emarginazione e rendendo ancora più difficili l’integrazione e l’inclusione sociale, soprattutto laddove esse già rappresentano un percorso faticoso. Condizioni ideali per il Daesh, che recluta in questi contesti le sue leve.
Risorse utili:
- Linee guida per l’applicazione della Carta di Roma, edizione 2015. Le Linee guida 2015 contengono un glossario sull’islam a cura di Francesca Paci e un capitolo sull’hate speech.
- “Perché il gruppo Stato islamico è chiamato anche Isis e Daesh?”, Internazionale. Traduzione di un articolo dell’Economist che traccia le differenze tra un acronimo e l’altro, spiegandone le origini
- “Media coverage of terrorism ‘leads to further violence’”, The Guardian. Articolo in inglese su uno studio condotto dall’Institute for the Study of Labour di Bonn nell’ambito del quale sono stati analizzati 60.000 attacchi terroristici avvenuti tra il 1970 e il 2012. La ricerca ha rilevato come una copertura mediatica irresponsabile possa “incoraggiare” i terroristi a compiere ulteriori atti violenti.