Rilanciamo, dal sito dell’Unione cattolica della stampa italiana, la riflessione di Paola Sprighetti sulla larga presenza della cronaca nera nell’agenda dei media.
Di Paola Springhetti, per Ucsi.it
La nostra televisione è ansiogena. Lo sono i tg, ma lo sono soprattutto i rotocalchi e i salotti televisivi, quelle trasmissioni che occupano i pomeriggi e le serate cercando di rubarsi l’un l’altra una manciata di spettatori in più.
Nei giorni scorsi, dopo l’episodio accaduto in provincia di Ferrara, dove un adolescente ha pagato un amico perché gli uccidesse i genitori, Fiorello ha lanciato un appello invitando a ridimensionare l’invasione della cronaca nera proprio in questo tipo di programmi, che si aggrappano a una notizia, la commentano, la strizzano, aggiungono interviste, testimonianze, divagazioni di esperti, litigate in studio, spesso senza aggiungere nulla di più, in termini di informazione.
In parte questo è inevitabile, e anche giusto. Attraverso le storie di ciò che accade attorno , noi ci facciamo un’idea non solo di come è la nostra società, ma anche di come vorremmo che fosse. Discutere di ciò che accade aiuta i gruppi e le comunità a ridefinire ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è lecito e ciò che non lo è: in fondo, è per questo che si sono sempre raccontate storie, che potevano essere d’amore e di vita, ma più spesso erano di guerra e di morte. Si raccontavano e si discutevano, per tirarne fuori “la morale”, cioè un insegnamento per il futuro.
Ma quando le storie sono solo di guerra e di morte, e quando su di esse si insiste in modo ossessivo, allora i media si trasformano in fabbriche di paura e contribuiscono a deformare le percezioni di quella realtà che dovrebbero raccontare. Secondo il IX Rapporto sulla Sicurezza e l’Insicurezza sociale in Italia e in Europa del marzo 2016, quasi l’81% degli italiani riteneva che i reati erano aumentati nell’ultimo anno, anche se i dati ci dicevano che erano in realtà diminuiti, soprattutto quelli più gravi. La percezione si discosta dunque profondamente dalla realtà. Ed è difficile non mettere in relazione questo fatto con la persistenza della cronaca nera sui media italiani.
Uno dei rapporti precedenti faceva notare come nel 2013 nei tg italiani il 49% delle notizie fossero sulla criminalità, mentre in altri telegiornali europei si verificavano agende diverse. Insomma, non è obbligatorio incentrare la programmazione sulla nera. Lo dimostra anche il fatto che, non tutti i tg sono uguali (il record spetta a Studio Aperto, i tg Rai hanno sempre avuto percentuali più contenute), ma soprattutto che, negli ultimi anni, una certa tendenza al ridimensionamento degli spazi dedicati alla criminalità è chiaramente constatabile, soprattutto nel servizio pubblico.
Questo certamente vale per i tg e non per i programmi di rete, sui quali non ho dati precisi, ma che mi sembrano avere la capacità di trasformare gli episodi di cronaca in serial infiniti, con un effetto moltiplicatore: il reato è uno solo, ma sembra che accada ogni giorno.
Inutile dire che tutto questo ha delle ricadute pesanti anche sui comportamenti dei cittadini: una società impaurita è più chiusa nei confronti degli altri, non ha fiducia negli altri e vota con la pancia. E c’è da aggiungere che quelle sui crimini non sono le sole notizie ansiogene e che la fabbrica della paura passa anche attraverso il modo in cui viene notiziata l’immigrazione o la situazione politica, ma questo è un altro discorso.
Fiorello ha avuto il merito di riportare all’attenzione pubblica un tema con cui da tempo educatori, esperti e cittadini consapevoli si confrontano. La sua proposta è di lasciare “sangue e cronaca nera” alle “sedi competenti”, cioè ai tg e alla magistratura, e di smetterla di spaventare le persone, anziane e non. Ma questo vorrebbe dire lasciare più spazio ai problemi veri e alle buone notizie, e occuparsi di questo è molto più difficile, dal punto di vista professionale, e paga meno in termini di audience.
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