Il blog ripercorre e ricostruisce il percorso che ha portato all’elezione di Donald J. Trump come futuro presidente degli Stati Uniti d’America ed il ruolo che vi hanno svolto media mainstream e social network
A cura di Arianna Ciccone, per Valigia Blu
Donald J. Trump sarà il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America. Contro ogni previsione, sondaggio, analisi, opinioni di esperti, l’uomo d’affari andrà alla Casa Bianca portando con sé uno dei più imponenti conflitti di interesse mai visti nella storia presidenziale americana.
Trump vince il Collegio Elettorale, Clinton il voto popolare (ha preso in assoluto più voti di Trump, ma il sistema elettorale prevede che ogni Stato esprima un numero diverso di grandi elettori – saranno poi loro ad eleggere Presidente e vice Presidente – a seconda della popolazione. Trump ha per ora ottenuto 290 grandi elettori contro i 220 di Clinton).
All’indomani della sua vittoria, la discussione si è focalizzata principalmente su due questioni: 1) è colpa di Facebook se Trump ha prevalso su Clinton, a causa delle false notizie e della disinformazione diffusa in modo massiccio, dell’algoritmo che causa la polarizzazione e le camere dell’eco (ci rifugiamo in “comfort zone” frequentando solo persone che la pensano come noi); 2) i media mainstream hanno fallito, il fact-checking non serve, i giornali sono irrilevanti.
“È colpa di Facebook”
In molti, il giorno dopo l’elezione, evidentemente sotto shock, hanno iniziato ad accusare Facebook per il risultato elettorale. C’è anche stato un giornalista italiano che invece se l’è presa con Twitter: “Senza Twitter questo non sarebbe mai successo. E sfido chiunque a dimostrare il contrario”. Insomma l’onere della prova sarebbe nostro, non suo.
La colpa – e quindi la vittoria di Trump – nello specifico sarebbe dovuta alla diffusione di false notizie o di bufale. Ovviamente le fake news non sono solo un problema di Facebook, ma Facebook ha un potere unico e senza precedenti. La sua audience massiccia, il meccanismo su cui si basano share e like, l’algoritmo che ruota intorno all’engagement, al coinvolgimento emotivo, rendono la piattaforma stessa vulnerabile e perfetta per l’appetito di molti siti che sfruttano notizie false e bufale per aumentare a dismisura il loro traffico e il loro business. Tra i tanti esempi, una serie di siti messi on line da teenager macedoni che durante le elezioni americane hanno usato Facebook per diffondere una marea di false notizie, ingannando le persone in quel momento in cerca di notizie sui candidati, portando a casa migliaia di click e soldi (Il Papa che appoggia Trump, Hillary Clinton che compra casa alle Maldive…).
In questo modo dunque Facebook avrebbe “manipolato” le opinioni delle persone, portandole poi a votare Trump. Sotto accusa dunque il Newsfeed di Facebook e il suo algoritmo che creerebbe camere dell’eco (le persone si rifugiano in spazi dove incontrano solo persone con la stessa opinione), e farebbe leva sulla filter bubble (sul nostro feed scorrono solo notizie e contenuti vicini alle nostre posizioni, l’algoritmo risponde ai nostri comportamenti digitali mostrandoci solo quello che ci piace). Tutto questo causando poi una forte polarizzazione delle idee.
Secondo Mike Masnick di Techdirt questa visione critica – l’algoritmo è basato su engagement e non sulla verità – è semplicistica e pericolosa. Accusare l’algoritmo di Facebook per la condivisione delle false notizie dà all’algoritmo stesso una responsabilità eccessiva, deresponsabilizzando al contempo gli esseri umani. Troppo facile prendersela con i “tool” e non vedere la nostra responsabilità nella scelta di condividere false notizie. Peggio ancora, dare la colpa a Facebook significa in fondo – dice Masnick – considerare milioni di persone dei perfetti idioti. “Se sono sostenitori della parte avversa alla nostra, devono essere per forza degli idioti”. Volendo essere onesti ci sono idioti da entrambe le parti (e le false notizie, come ha dimostrato un’analisi di Craig Silverman su Buzzfeed, sono state diffuse da entrambi i sostenitori dei candidati, anche se con percentuali diverse), questo non significa che milioni di persone hanno votato Trump perché sono state ingannate da Facebook.
Semplicemente milioni di persone hanno votato Trump perché convinti che lo status quo non funzionasse, che ci fosse bisogno di cambiamento e che un odioso “establishment” volesse metterli a tacere su tutto quello che non andava. Possiamo dire che sono stati ingannati su ciò che funziona e ciò che non funziona, ma non che abbiano cambiato idea a causa delle false notizie su Facebook.
L’aspetto pericoloso, sottolinea Masnick, è che se si accusa la piattaforma per le azioni dei suoi utenti, si rischia una censura di massa e un limite pericoloso alla libertà di espressione e all’innovazione. Le fake news e le bufale sono state sempre usate in tutte le elezioni presidenziali, e questo non dipende dall’algoritmo né smetterà se l’algoritmo cambia.
Mathew Ingram, in risposta all’articolo di Masnick, ha pubblicato su Fortune una critica argomentata sulle responsabilità di Facebook, il cui ruolo non sarebbe tanto quello di creare delle camere dell’eco, quanto di potenziare quelle che già esistono (e sempre sono esistite) nella società.
Il problema non si limita ai ‘filtri bolla’ creati da Facebook, attraverso i quali agli utenti sono presentate notizie con cui è probabile siano d’accordo. Queste bolle sono sempre esistite. In passato, prima dell’avvento dei mass media, accadeva la stessa cosa a chi viveva in un piccolo centro. Anche dopo l’affermazione dei media mainstream, giornali ed emittenti televisive hanno reso più facile agli utenti restringere la propria dieta informativa limitandola ad opinioni con le quali fossero già d’accordo. Per Andrew Bosworth, executive di Facebook, il Newsfeed non è peggiore – e potrebbe essere addirittura migliore – delle fonti tradizionali. “Non è perfetto, ma è almeno simile o più vario rispetto alle alternative che hanno dominato il consumo negli anni novanta”, ha dichiarato. Tuttavia Facebook ha probabilmente reso più facile che mai raggiungere e rafforzare questi tipi di bolle, aumentandone velocità e portata con cui possono essere create. L’incapacità della rete di controllare la diffusione di notizie false ha poi esacerbato il problema.
Cosa dovrebbe fare Facebook? Stiamo molto attenti a quello che chiediamo. Se Facebook decide che possiamo condividere solo “news vere”, chi dovrà decidere cosa è vero avrà un potere enorme. E subito ci sarebbero accuse di pregiudizi (bias) o di sopprimere storie importanti, anche se si tratta di “stronzate”. C’è chi griderebbe alla censura. Dire alle persone, continua Masnick, che bisogna sopprimere quelle notizie per il loro bene, per proteggerli non li trasformerà da supporter di Trump in supporter di Clinton. Li convincerà semmai ancor di più di essere perseguitati dal “sistema”.
Un’altra proposta vorrebbe che Facebook forzasse il feed delle persone in modo da costringerle, esporle a punti di vista opposti. Ancora una volta deresponsabilizzando le persone e avendo nei loro confronti un atteggiamento paternalistico. È importante occuparsi di come informare al meglio i cittadini. Ma di certo la censura o una informazione forzata non sono la soluzione e non sono il giusto atteggiamento per capire la società e i suoi cambiamenti. Sono pericolose scorciatoie, se percorribili tra l’altro. È già noto che anche scorrendo sul nostro feed non clicchiamo su notizie o fonti che non rientrano nella nostra sfera di interesse o che non riteniamo credibili. Stiamo in questo modo sottovalutando il problema, ancora una volta volgendo lo sguardo altrove. Come ha detto Clay Shirky durante la campagna elettorale, molti supporter di Clinton si sono illusi che portando i factchecker alla guerra culturale avrebbero vinto. Accusare e lottare contro l’algoritmo di Facebook è più meno la stessa illusione, lo stesso nonsense. Si basa sull’arrogante convinzione che chi ha votato l’altro lato sia troppo stupido per capire la verità, e che se potesse sapere la verità ecco allora sarebbe dalla nostra parte. Non significa impegnarsi nel voler capire perché quelle persone hanno votato Trump. È solo un facile capro espiatorio. Conclude Masnick.
In un lungo articolo sulle sfide che Trump pone al giornalismo politico e ai social media, Charlie Beckett critica l’idea che sia stato Facebook a far vincere Trump. Prima di tutto, spiega Beckett, perché è difficile da misurare. Inoltre, televisioni, giornali, radio tv continuano a essere più influenti sugli elettori rispetto all’online. In secondo luogo Clinton e i suoi sostenitori avevano lo stesso accesso a Internet di Trump. Facebook e i social media cambiano la dinamica e gli equilibri di potere della comunicazione politica, ma che il ruolo di gatekeeper (processo attraverso cui l’informazione è filtrata e diffusa) dei media tradizionali venga sfidato è di sicuro un fatto positivo in qualsiasi democrazia che aspira ad una politica basata su apertura e pluralismo.
Mark Zuckerberg ha rifiutato l’accusa di aver contribuito alla vittoria di Trump, definendola “crazy idea”: l’idea che le notizie fake, che costituiscono secondo Zuckerberg una parte piccola dei contenuti, abbia influenzato le elezioni indirizzandole in un certo modo è follia. Gli elettori prendono decisioni in base alle loro esperienze vissute. Deve esserci una profonda mancanza di empatia nell’asserire che gli elettori abbiano votato in un certo modo perché spinti da notizie false. Se si pensa questo, sottolinea Zuckerberg, forse non si è capito il messaggio che gli elettori di Trump stanno cercando di mandare.
Zuckerberg ha poi aggiunto in un post su Facebook che sono impegnati a lavorare sulla questione della diffusione della false notizie ma bisogna stare molto attenti: stabilire cosa è la verità è affare molto complicato. Una gran quantità di contenuti, inclusi quelli provenienti da fonti mainstream, contengono dettagli sbagliati se non omessi. Moltissime storie sono commenti, opinioni con cui si può essere in disaccordo e si potrebbe rischiare di segnalarle come false, anche se non lo sono.
This is an area where I believe we must proceed very carefully though. Identifying the ‘truth’ is complicated. While some hoaxes can be completely debunked, a greater amount of content, including from mainstream sources, often gets the basic idea right but some details wrong or omitted.
An even greater volume of stories express an opinion that many will disagree with and flag as incorrect even when factual. I am confident we can find ways for our community to tell us what content is most meaningful, but I believe we must be extremely cautious about becoming arbiters of truth ourselves.
Rispetto alle false notizie e alla loro circolazione poi va detto che anche i media mainstream sono parte del problema: bufale, notizie manipolate o false circolano anche sui giornali, in TV e in radio (e difficilmente le vediamo rettificate o corrette in modo trasparente. Il processo di verifica e l’etica delle correzione sono giornalismo. Purtroppo sempre meno praticato).
A proposito poi di camere dell’eco e di polarizzazione, vale la pena sottolineare un aspetto fondamentale. Il nostro processo mentale, cognitivo è predisposto per questo tipo di dinamica: selective perception (vedo quello che mi aspetto di vedere), selective exposure o confirmation bias (tendo a favorire l’informazione che rafforza miei pre-esistenti punti di vista, evitando informazioni che li contraddicono). È la nostra mente ad agire così: quando una informazione è conforme a ciò che crediamo, alimenta le nostre paure o speranze, o aderisce a quello che pensiamo di sapere già, il nostro livello di scetticismo è molto basso e non siamo predisposti a filtrare vero / falso. Questo ci rende esposti alla bufala e alla disinformazione. E se una informazione smonta le nostre precedenti credenze tendiamo a rafforzare quest’ultime anziché a metterle in dubbio (effetto backfire), perché questo ci pone in una condizione di malessere, di disagio per dover rinunciare alle nostre idee (è su questo che si basa la forza della disinformazione). La verità dei fatti non basta a combattere la disinformazione. Possiamo dire che l’ambiente digitale rafforza queste dinamiche, l’algoritmo risponde ai nostri comportamenti emotivi e cognitivi, ma non possiamo dire che li causa. Così come per la polarizzazione delle idee.
Ancora su camere dell’eco e polarizzazione. Mi chiedo: ma quando leggevamo sempre e solo un giornale, quando guardavamo sempre e solo una trasmissione politica, cosa stavamo facendo se non rifugiarci al sicuro nelle nostre camere dell’eco, con persone che la pensavano come noi? Semmai i social, soprattutto Facebook, per la loro stessa architettura, permettono incursioni e incontri imprevedibili. Sulle nostre bacheche, nei commenti, nelle conversazioni non siamo “al sicuro” mai. Basta scorrere i feed e porre attenzione agli scambi per rendersi conto che pensare in questi ambienti di rimanere al sicuro fra amici con le stesse idee è praticamente impossibile. Il mio invito ai molti giornalisti, che sentenziano senza realmente vivere in profondità questi luoghi, è di uscire dalle loro camere dell’eco, dai loro filtri bolla mentali.
Parliamo dell’algoritmo: esiste anche un “algoritmo” delle redazioni, che noi non conosciamo, i criteri con cui le notizie sono selezionate e la modalità con cui le vengono fornite. Eppure anche queste “formano” (almeno teoricamente) l’opinione pubblica. Con la differenza semmai, mi verrebbe da aggiungere, che quell’algoritmo non risponde alle nostre preferenze, alle nostre esigenze “leggendo” i nostri comportamenti digitali, ma a quelle dell’editore, della redazione, del giornalista che decide per me cosa devo sapere e cosa no, cosa va pubblicato e cosa no. A quello che secondo questi mediatori è importante conoscere (la famosa lezione calata dall’alto a un pubblico di massa. Ora però siamo nell’era della personalizzazione e della conversazione. Qualcuno fatica ad accettarlo).
Su Facebook, media e elezioni hanno scritto anche Fabio Chiusi e Andrea Iannuzzi.
Anche Jeff Jarvis è intervenuto sulla questione fake news (lui è stato un attivo sostenitore di Clinton). E anche lui lancia l’allarme: attenzione a quello che chiediamo. Davvero vogliamo che Facebook e Google siano “arbitri” della verità?
Beware then what you wish for Facebook to do with fake news. Do we really want to set up Facebook or Google as the censors of the world? Do we want them to decide what is real and fake, true and false? Do we want to imagine Mark Zuckerberg staying up all night because someone is wrong on the internet — err, on Facebook? Of course, we don’t. Zuckerberg doesn’t want that either.
La vera sfida è portare il giornalismo dove sono le persone e fare in modo di attirare il loro interesse e la loro attenzione, parlando anche il linguaggio dei social. Raramente i media si “sporcano le mani” sui social, più che altro “usati” solo per spammare link. Pensiamo alla responsabilità di aver lasciato un vuoto che le fabbriche di fake hanno riempito.
Instead of mourning the creation of fake-news memes and putting the onus on Facebook to kill them (again: do we really want that?) we should be pouring out our own truth memes — with facts, fact-checking, context, explanation, education, reporting, watch-dogging: journalism, in short. We should be arming fair-minded, intelligent, curious, rational, fact-loving citizens (if you don’t think they exist, then give up on democracy and journalism, too) with the weapons, the truth bullets, to fire at will in their conversations. They won’t win all the wars but they will win some fact battles alongside us if only we enable them. We in media won’t get there until and unless we take responsibility for informing the public where the public is and for our responsibility in creating the vacuums exploited by the fake news factories.
Jarvis sottolinea anche la responsabilità dei media mainstream nella diffusione di notizie false. Ma anche Facebook ha le sue responsabilità e dovrebbe collaborare per una società migliore (l’affermazione che – come dice Zuckerbeg – il 99% dei contenuti sono autentici è abbastanza discutibile).
Intanto Google e Facebook hanno annunciato che bloccheranno la pubblicità sui siti di false notizie (cosa che potrebbe incidere sui loro ricavi). Anche qui c’è da chiedersi: chi e con quali criteri si decide cosa è bufala e cosa no? Vi consiglio la lettura di un post di Fabio Alemagna su Facebook.
“I media hanno fallito, il fact checking non serve”
Non abbiamo visto, non abbiamo capito quello che stava succedendo. Abbiamo continuato per mesi a raccontare una realtà che non esisteva. Il fact-checking ha fallito. Ci siamo affidati in modo eccessivo ai sondaggi. Molti giornalisti chiusi nelle loro bolle non hanno saputo registrare il successo della campagna di Trump e il movimento che è riuscito a costruire in questi mesi. Eravamo troppo convinti del nostro potere di influenza e ci siamo dimenticati di ascoltare la realtà. “Dovevamo ascoltare – scrive Matt Taibbi su Rolling Stone – e invece abbiamo parlato”.
Jack Schaffer di Politico ha una visione diversa: i media non hanno fallito. Hanno fatto il loro dovere nel raccontare cosa è Trump, semplicemente agli elettori non è interessato.
Marco Nurra per International Journalism Festival ha sintetizzato le varie argomentazioni.
Vale la pena leggere l’esperienza di Nathan Jurgenson (qui la traduzione di Paolo Mossetti), sociologo e studioso dei social media, che critica aspramente i media (di sinistra) per la copertura di questa campagna elettorale: di fronte allo shock dei risultati dobbiamo ammettere che la nostra dieta informativa è fallace. Ci hanno raccontato una realtà che non esisteva. Dobbiamo accettare che la disinformazione non è solo un problema delle pagine di meme destrorsi, ma anche nostro.
L’idea che il giornalismo mainstream avesse scoperto dei fatti, convinto le persone a cambiare idea e smontato un bugiardo era incredibilmente stupida; ha legittimato invece il disonesto opportunismo repubblicano, e tentato di far passare la storia che solo al di fuori di Trumpland e dell’alt-right ci fosse la verità. Dall’inizio alla fine, Trump è stato usato dal giornalismo politico come una scusa per vendere della narrativa come fatti. E, alla fine, i repubblicani hanno fatto pace con Trump, nonostante il cosiddetto giornalismo “spiegato bene”; un giornalismo che si fa chiamare “mainstream”, anche quando la maggior parte del Paese lo trova irrilevante… Non succederà mai, ma quelli che non capito niente di Trump dall’inizio delle primarie all’Election Day non dovrebbero avere più il compito di informarci.
Certo in un ambiente informativo totalmente cambiato, i media scoprono di non essere gli unici detentori della formazione dell’opinione pubblica. Scoprono che la loro presunta rilevanza è messa in discussione.
E se pensiamo che il fact-checking abbia fallito perché alla fine uno dei candidati più bugiardi ha vinto le elezioni, come dice Alexios Mantzarlis, allora stiamo completamente fraintendendo il ruolo dei media: i politici e non i media devono sfidare e battere i loro competitor. Affidare ai factchecker la sconfitta o meno di un politico, significa sottrarre agli elettori la loro autonomia. Il ruolo del giornalismo non è decidere il risultato di una elezione, ma dare ai cittadini gli strumenti per decidere.
Jay Rosen ricostruendo le ragioni che hanno portato il giornalismo a bucare la storia, sottolinea però come Trump non faccia riferimento alla realtà, lui ne forgia una sua, sostituisce la sua realtà a quella riportata dai media. Ecco perché il fact-checking in questo caso risulta inefficace.
Proporrei, in ogni caso, ai giornalisti di fare una seria riflessione sul perché le persone hanno sempre meno fiducia nei media mainstream. Il collasso della fiducia viene ancora prima, a mio avviso, del problema di Facebook e dell’algoritmo. Perché se è colpa di Facebook la vittoria di Trump (e non lo è), è solo responsabilità dei media se hanno perso autorevolezza e credibilità.
Le mediazioni, di cui Baricco pare abbia tanta nostalgia, mediatiche e politiche, hanno più e più volte “tradito” i cittadini-elettori. Un esempio su tutti: la guerra in Iraq. Nessun media in USA – eccetto Knight Ridder – provò a indagare e smontare le ragioni presentate per scatenare la guerra in Iraq.
“Senza Twitter, questo non sarebbe successo”
Secondo molti commentatori Trump è il prodotto dei social media e delle tecnologie: c’è chi sottolinea come la maggior parte dei cittadini si informi attraverso i social e, proprio attraverso i social, Trump abbia dettato l’agenda ai giornalisti, che hanno così fatto da megafono alle sue posizioni razziste e nazionaliste; chi invece mette in evidenza che l’ascesa delle testate dei nazionalisti bianchi (Alt-Right) sia stata favorita in modo massiccio dalla distribuzione e diffusione dei contenuti su Facebook o che il declino della fiducia nei media mainstream sia dovuto alla crescita dell’importanza del social media; chi sottolinea il ruolo della tecnologia nel cambiare le istituzioni politiche. Molti altri sono sicuri: Trump ha avuto successo perché Internet ci ha portati nell’era della post-verità e post-fattuale. In un post del 7 novembre, prima dei risultati delle elezioni, Daniel Kreiss, Associate Professor della School of Media and Journalism alla UNC-Chapel Hill, ha messo in guardia che chi si concentra su questi argomenti ignora completamente i fattori storici, culturali e istituzionali che hanno creato il contesto in cui Trump si è imposto. La vittoria di Trump viene da lontano e ha radici nella storia del movimento conservatore, fatto di teorie cospirative, negazione dei fatti, diffidenza verso le competenze e le istituzioni. Un movimento sostenuto da alcuni media, libri, pamphlet, direct mail, trasmissioni radiofoniche e tv, e con il Partito Repubblicano che ha sempre fatto da veicolo istituzionale.
Internet non ci ha portato in un’era post-fattuale o post-verità, né è la causa delle teorie cospirative, o del nazionalismo bianco, o dell’identità conservatrice, o della diffidenza verso le vie istituzionali della conoscenze, dal giornalismo alla scienza. È stato il movimento conservatore a farlo, sin dal dopoguerra, insieme al suo veicolo istituzionale, il Partito Repubblicano e il suo apparato mediatico (dai talk radio a Fox News). La diffusione dei social media ha amplificato la forza di un mix particolare di risentimento razziale, identità conservatrice, retorica populista e tensione economica che hanno segnato l’elezione presidenziale 2016. Dando a questo mix sì maggiore visibilità, ma non l’ha di certo creato. L’emergere di testate come Brietbart, diffuso soprattutto su Facebook, l’uso di Twitter da parte di Trump hanno fatto da calamita, ma l’idea sottintesa che l’America sia sotto la minaccia di persone di colore, delle élite e degli esperti, è stata diffusa da decine di anni da membri del Partito Repubblicano. Fissarci sulle tattiche della campagna sui social media ci allontana dal fatto che Trump ha avuto successo nel mondo creato e formato in questi anni dal movimento conservatore.
C’è infine un pezzo della vittoria di Trump e il ruolo dei social media che non è stato molto raccontato e riguarda come Trump ha usato i dati. Il momento cruciale della sua campagna avviene quando si affida alla società di scienze comportamentali, Cambridge Analytica. CA si è occupata anche della campagna del “Leave” durante Brexit. La loro strategia è studiare i dati “minuscoli” e sono stati accusati di aver usato in modo non del tutto etico i dati personali di Facebook.
A parlarne in modo approfondito, è il data-journalist Jonathan Albright. La chiave per vincere le elezioni è stata individuare le persone “influenzabili”, soprattutto negli Stati decisivi per l’elezione (Florida, Ohio, Wisconsin, Pennsylvania, North Carolina) e spingerle a uscire e votare. Il software di CA usa i dati personali di Facebook e non solo per predire le posizioni e gli orientamenti politici: analizza le ricerche degli acquisti online, i commenti e i like pubblici sulle pagine fan, la cronologia di ricerca su Internet attraverso le API di Facebook, le app mobile usate, la condivisione di foto e le informazioni dei profili, compresi i programmi TV che si guardano. La strategia dei democratici è stata invece utilizzare il vecchio stile focus groups e dei sondaggi via telefono.
È vero Trump ha vinto (anche) grazie a Facebook, ma per come ha “usato” la piattaforma durante tutta la campagna. Come scrive Wired, nessuna campagna presidenziale ha investito così come Trump su Facebook. Mentre Clinton continuava ad investire nelle TV, il team di Trump andava a prendersi gli elettori online. La piattaforma basata su like ed engagement restituiva feedback chirurgici sugli elettori, testando continuamente la performance delle inserzioni per arrivare alla formula “perfetta”. I social media sono stati il primo canale comunicativo di Trump, non un canale su cui trasmettere messaggi pianificati, ma per interagire con i sostenitori e partecipare a discussioni, anche se controverse. Trump ha investito sul digitale in un modo unico, dominando il panorama mediatico. Chi in futuro vorrà sfidarlo e batterlo, dice Wired, dovrà fare lo stesso.
But the answer may be much simpler. Of course Facebook was hugely influential in the presidential election, in large part because Trump’s campaign embraced Facebook as a key advertising channel in a way that no presidential campaign has before—not even Clinton’s. “I think the Trump campaign did that extremely well,” says Andrew Bleeker, president of Bully Pulpit Interactive, which helped lead Hillary Clinton’s digital marketing efforts. “They spent a higher percentage of their spending on digital than we did.”… Whether fake news did or didn’t affect the election’s outcome, Facebook as a platform did. The winning candidate was not just willing, but eager to break with traditional models of campaigning. His team invested in new ways of using the digital tools and platforms that have come to dominate the media landscape. Anyone who wants to defeat him in the future will have to do the same.
Aggiornamento 15 novembre ore 15:09 > rispetto alla versione precedente è stata inserita la riflessione di Jeff Jarvis su fake news e responsabilità media mainstream e Facebook, e l’annuncio di Google e Facebook che bloccheranno le loro pubblicità su siti di false notizie.
Aggiornamento 16 novembre ore 8.30 > rispetto alla versione precedente è stata inserita la parte finale sull’uso di Facebook da parte del team di Trump.
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