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“Una stampa etica è una stampa forte”. L’intervista a Edwy Plenel

«Combat pour une presse libre». Carta di Roma intervista Edwy Plenel

A cura di Anna Meli e Amélie Tapella

Mediapart è una sfida editoriale e culturale, un’esperienza che nasce da forti individualità e professionalità ma anche un’impresa collettiva di un gruppo di giornalisti giovani e determinati. Carta di Roma ha incontrato il suo direttore nella sede di Parigi a giugno in occasione della tappa francese dell’indagine europea su media e diversità e che proponiamo oggi  in occasione della festa nazionale francese.

Edwy Plenel è il cofondatore e direttore del giornale online Mediapart. È stato giornalista prima a Le Matin de Paris e poi per venticinque anni a Le Monde, di cui è stato direttore dal 2000 al 2004. Mediapart è gestito da una casa editrice non profit e impiega oggi 33 giornalisti e 20 collaboratori. E’ considerato un caso eccezionale nel panorama editoriale francese, forse non solo perché non accetta pubblicità e si basa essenzialmente sugli abbonamenti dei suoi lettori: è un’avventura editoriale che, come dice Plenel, «vuole dimostrare che il lavoro di informazione può incontrare la fiducia del pubblico, creare valore e servire la società».

Una funzione di servizio pubblico che viene rivendicata da Edwy Plenel anche nel manifesto di Mediapart “Combat pour une presse libre” che propone una nuova alleanza tra giornalisti e  pubblico di cittadini che si concentri sulla qualità e credibilità dell’informazione riaffermando un’autentica esigenza etica.

In Francia non esiste un ordine dei giornalisti e ci sono poche carte deontologiche per giornalisti. Come riuscite a autoregolamentare il settore soprattutto quando si tratta di temi e soggetti sensibili come minori e minoranze?

Ho l’abitudine di porre delle questioni di deontologia, di valore, di etica, di morale professionale relazionandole al sistema dei media. Possiamo avere tutti i testi che vogliamo, ma se questo sistema non è sano ci sarà della corruzione. Per me la questione fondamentale da porsi è qual è il sistema democratico dell’informazione. I giornalisti non devono dipendere né dal potere pubblico, né dal proprietario e il loro unico mezzo di misura deve essere il cittadino. Possiamo avere le carte deontologiche, ma se le redazioni sono con la schiena al muro, inquiete per il loro futuro e il loro lavoro, ebbene, non baderanno alla morale.

C’è un’attenzione ai temi della diversità in Mediapart?

Abbiamo in redazione una giornalista specialista – Corinne Futon ndr – referente sulle questioni dell’accoglienza e delle diversità. Ci teniamo molto, ma devo confessare che non siamo ancora soddisfatti. Anche qui in redazione non siamo riusciti a promuovere sufficientemente la realtà della diversità al nostro interno. Dovremmo essere in grado di promuovere più affermative actions. Ci sono due donne di origine straniera in redazione, ma vorrei che questo aspetto fosse ancora più presente.

A livello editoriale, invece, è il nostro impegno a fare la differenza. Un caso sollevato da Mediapart che aveva fatto il giro del mondo, per esempio, prima di essere interrotto dal caso di Strauss Khan e della morte di Bin Laden, rivelava la discriminazione nel calcio francese, dopo il fallimento in Sudafrica. Gli allenatori avevano detto che bisognava “sbiancare la squadra” e davanti ai giovani di 13 anni che volevano fare calcio professionale iniziavano ad esserci selezioni basate sul colore della pelle e sulla religione praticata. La notizia aveva scioccato i lettori.

In Francia spesso si dice che il tema non è quello di distinguere i rifugiati dai migranti, capire quali nazionalità sono presenti e in generale bisogna evitare qualsiasi categorizzazione su base “etnica”, ma che è importante parlare di inclusione sociale di gruppi svantaggiati.

La Francia è un paese di migrazione, anche interna. In quanto tale da sempre ha avuto delle spinte razziste e xenofobe e c’è stata, come sapete, la caccia agli italiani alla fine del XIX secolo, stesso periodo dell’affare Dreyfus. Il fenomeno è stato bloccato a partire dalla fine degli anni Sessanta con l’ondata migratoria postcoloniale. La classe operaia francese nella sua rappresentazione politica ha promosso l’integrazione. I partiti di sinistra non hanno tuttavia voluto fare il salto verso le nuove categorie sociali, perché l’immaginario coloniale fa parte della loro storia e hanno relegato queste classi popolari alla loro origine, alla loro identità, invece che includerli.

In Italia spesso si dice che la presunta preparazione all’immigrazione di certi paesi europei nasce proprio dal loro passato coloniale o comunque dall’aver conosciuto questi fenomeni ben prima di noi.

La questione dell’immigrazione non è una questione di popolazione, ma di immaginario nazionale e la Francia l’ha costruito in molto tempo. L’idea della grande Francia ha fatto la sua ricchezza, insieme alla tratta degli schiavi e a una colonizzazione andata avanti fino al 1962 in maniera massiccia, ma che dura ancora: siamo l’unico Stato del Consiglio di Sicurezza che ha ancora delle colonie dirette. Le chiamiamo Dipartimenti ma effettivamente sono colonie.

La questione è come ricostruire il nostro immaginario, se è stato questo per così tanto tempo. Anche il Bonapartismo napoleonico, per esempio, ha portato i valori della rivoluzione francese occupando, saccheggiando ecc. Voglio ricordare che nel 1983, due anni dopo che Mittérand era stato eletto presidente, all’arrivo della sinistra al potere, in alcuni quartieri popolari dei giovani decisero di marciare “contro il razzismo e per l’uguaglianza”. Questa manifestazione fu chiamata “La marcia dei beurs”, come venivano chiamati gli arabi di seconda generazione. Mentre loro reclamavano di essere francesi, i media li hanno relegati ancora una volta al loro essere arabi, etichettandoli come beurs. Un’altra storia interessante è quella degli scioperi organizzati dagli operai della CGT (Confederation General du Travail)  il sindacato più vicino al partito comunista. I lavoratori portavano avanti le loro rivendicazioni sociali, di dignità operaia e tra queste chiedevano anche un luogo in cui pregare, perché i praticanti musulmani pregano cinque volte al giorno. Come rispose allora il governo di sinistra, considerando che nello stesso momento era in corso la rivoluzione iraniana e la Francia era la prima fornitrice d’armi di Saddam Hussein? Definì queste proteste “scioperi islamici”. Siamo noi ad averli confinati alle loro origini, c’è anche la responsabilità della stampa in questo.

 La Francia è tra i paesi europei quello che sembra rivendicare con più forza il principio di laicità dello stato.  Se ne è discusso molto in Italia soprattutto in riferimento alla cosiddetta “legge sul velo” e alle decisioni prese in Francia a riguardo. 

Da questo punto di vista esiste un errore storico basato sulla famosa legge sulla laicità del 1905. Coloro che la promossero dissero che bisognava uscire da questo sistema, che l’unico modo per creare un’agenda sociale e democratica era di non preoccuparsi di quello in cui crediamo, ma di quello che facciamo, del lavoro, della pensione, del diritto all’associazionismo. Seconda cosa è il riconoscimento del diritto di culto minoritario: tutti dimenticano che la legge del 1905 istituisce la separazione delle chiese – al plurale – dallo Stato, che quindi da allora ha protetto giudaismo e protestantesimo. Oggi dobbiamo individuare qual è l’agenda democratica e riconoscere che c’è un altro culto minoritario che fa parte della nostra storia. Le classi popolari arrivano con le loro esperienze, in futuro si modernizzeranno e laicizzeranno.  Per le donne musulmane, che hanno avuto la sensazione di non essere francesi “vere”, a “pieno titolo”, l’ancora di salvezza è rivendicare la loro identità. La formula abusata di Karl Marx “la religione è l’oppio dei popoli” è stata fraintesa; per Marx l’oppio è un mezzo per dimenticare, il suo testo non vuole trasmettere disprezzo verso la religione, bensì al contrario dice che la religione “c’est le soupire de la creature sans espoir” (è il sospiro della persona senza più speranza) e se non ha speranza non può avere che questa.

 Che ruolo hanno i media nella costruzione di questo nuovo patto democratico? Pensa davvero che un giornale online possa influenzare il discorso pubblico anche su questi temi?

Per me la rivoluzione digitale chiama alla rifondazione o riformulazione di una rivoluzione democratica. Da noi questa democrazia non c’è, esiste in parte in Gran Bretagna, ma dovrebbe esistere a livello europeo e consiste nel freedom information act americano. Dovremmo approfittare di questo per obbligare gli stati ad accettare questo diritto fondamentale di sapere dei cittadini. Il diritto di essere informati è un diritto importante come il diritto di voto: non posso votare se non sono ben informato. Questo implica che tutto ciò che è d’interesse pubblico deve essere reso pubblico. Garantire il pluralismo dell’informazione, garantire la sua indipendenza e il libero accesso all’informazione devono essere le battaglie su cui i giornalisti tutti si mobilitano insieme ai cittadini.

Nell’informazione online si discute spesso sulla gestione dei commenti dei lettori. Mediapart come si comporta?

Noi che siamo giornalisti che praticano il giornalismo partecipativo sosteniamo la cultura del free speech. Tutti gli abbonati di Mediapart possono commentare senza moderazioni a priori, è libero. Chiaramente i diritti e i doveri non esistono solo per i giornalisti, ma anche per i cittadini e lettori.

Anna Meli,  Amélie Tapella

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