Pubblichiamo e rilanciamo l’intervista realizzata da Eleonora Camilli per Redattore Sociale a Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio.
ROMA – Una frase figlia di una cultura “stupidamente nazionalista” e fortemente condivisa tra i dirigenti del mondo del calcio, che colpisce in particolare i ragazzi di seconda generazione che giocano nei campionati giovanili. Commenta così Mauro Valeri, sociologo e responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e l’antirazzismo nel calcio, le parole pronunciate da Carlo Tavecchio, candidato alla presidenza della Figc. Parlando davanti all’assemblea della lega dilettanti, infatti, Tavecchio ha detto che “le questioni di accoglienza sono una cosa, quelle del gioco un’altra” e mentre in paesi come l’Inghilterra si “individua i soggetti che entrano, analizzando se hanno professionalità per farli giocare” da “noi invece diciamo che Opti Pobà (nome di fantasia,ndr) è venuto qua, che prima mangiava le banane, e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra doveva dimostrare, invece, il suo curriculum e il suo pedigree”. Frasi razziste e che hanno scatenato in queste ore un mare di polemiche.
Secondo Valeri non sono però parole frutto dell’ingenuità del dirigente, ma lo specchio di una cultura ben radicata nel mondo del calcio. “C’è una parte dei dirigenti della Figc che ha una visione fortemente nazionalista – spiega – Il loro è un discorso volto alla difesa dell’italianità del calcio ma è un discorso molto pericoloso, perché porta a fare del calcio anziché un luogo di integrazione, un luogo di discriminazione”.
Oggetto delle frasi razziste sono, per Valeri, non i giocatori stranieri tutti ma in particolare quelli africani: “L’uso della metafora mangia banane è chiara e riporta alla mente anche episodi di razzismo negli stadi. Ad alcuni giocatori sono state lanciate le banane in campo – spiega- e non a caso a risentirsi, per ora è stato solo Okaka, attaccante della Sampdoria. Perché chiaramente il dirigente non voleva colpire tutti indiscriminatamente, ma solo alcuni tra i giocatori stranieri, gli oriundi e i ragazzi di seconda generazione”.
Ma le frasi acquistano un connotato di particolare gravità perché nei campionati giovanili, dove ci sono molti giocatori anche di seconda generazione, stanno aumentando gli episodi di xenofobia. “Con questi dirigenti avremo presto un’emergenza nei campetti dei campionati minori – spiega – Sono frasi che danneggiano i giovani giocatori di seconda generazione, che spesso sono il bersaglio di frasi razziste. Come osservatorio abbiamo riscontrato un aumento di questi episodi, anche nei confronti dei giovani arbitri immigrati, o nati qui da genitori stranieri. Ma con queste mentalità sarà difficile portare avanti una lotta seria al razzismo negli stadi”. Non solo, ma per Valeri esiste una discriminazione concreta verso i figli degli stranieri che giocano in Italia: “anche se sono nati qui non sono favoriti nel gioco del calcio, vengono considerati comunque degli estranei. Ragazzi sui quali non vale la pena investire. A differenza di quello che accade in altre nazioni come la Francia, la Germania ma anche il Belgio”.
In questo l’Italia dimostra anche tutta la sua miopia e astoricità. “Negli altri paesi i ragazzi di seconda generazione sono stati favoriti anche dalle leggi sulla cittadinanza – aggiunge – mentre noi siamo ancora molto indietro. Le parole di Tavecchio vanno collocate, quindi, in un contesto culturale di forte ritardo, dove persiste un retaggio nazionalista con venature razziste. Basti pensare che fino al ’99 il Coni ha mantenuto uno statuto del ’42, redatto nel pieno delle leggi razziali, in cui si diceva che lo sport doveva favorire diffusione morale della razza. Il fatto che nessuno per 50 anni ha sentito l’esigenza di modificarlo, è un segnale molto chiaro”.
Ma a incidere sull’atteggiamento di Tavecchio è stata anche quanto scritto da molti quotidiani sportivi dopo la sconfitta della nazionale agli ultimi mondiali. “In molti hanno dato la colpa al numero eccessivo di stranieri nel campionato italiano – continua Valeri – che non favorisce lo sviluppo dei nostri talenti. In realtà il problema è che in Italia esiste un sistema secondo il quale un ragazzino a 12 anni o è un campione o deve smettere di giocare. I dati sull’abbandono sportivo sono altissimi e questo si deve a una visione distorta del calcio sia da parte delle società che dei procuratori”. Lo sport “dovrebbe essere, invece, uno strumento di integrazione, come succede negli altri paesi – aggiunge – ma purtroppo da noi persiste anche una connivenza tra le società e le tifoserie guidate da gruppi di estrema destra. E’ difficile fare, dunque, un discorso realmente antirazzista. D’altronde alle frasi di Tavecchio ha risposto solo Okaka dopo che la sua società aveva preso le distanze. Il timore è che gli altri giocatori, seppur offesi da quelle parole, non dicano niente perché le società non glielo permettono”.
Di seguito il link all’articolo originale: «Con dirigenti come Tavecchio presto emergenza razzismo alle giovanili»