A cura di Cronache di ordinario razzismo
Discriminate in quanto donne, in quanto straniere, e in quanto musulmane: è questa la realtà che emerge da ‘Donne dimenticate: l’impatto dell’Islamofobia sulle donne musulmane’, ricerca sulla condizione delle donne musulmane, per lo più di origine straniera, in Europa, condotta dalla rete europea contro il razzismo (Enar) – qui il video che racconta il progetto.
Tra il dicembre 2014 e il gennaio 2016, sono stati coinvolti nel progetto di ricerca otto diversi paesi europei – Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito. Per quanto riguarda l’Italia, ciò che evidenzia il rapporto – disponibile online, insieme alla scheda di sintesi in italiano e in inglese – è una forte discriminazione all’interno del mondo del lavoro: le donne provenienti da paesi a maggioranza musulmana registrano nel nostro Paese il più alto tasso di disoccupazione e inattività. Una delle cause principali va rintracciata proprio nell’identità religiosa di queste donne, che si manifesta esternamente nella presenza del velo. Di conseguenza alcune donne accettano di non indossarlo in ambiente lavorativo, mentre altre reagiscono escludendosi autonomamente dal mercato del lavoro.
Proprio il velo sembra essere l’oggetto principale degli attacchi verbali e fisici: “gli episodi di intolleranza contro le donne musulmane si verificano con una frequenza elevata – in media una o più volte a settimana per la stessa persona”, riporta il dossier.
Facendo riferimento anche al lavoro di ricerca svolto da Lunaria, il rapporto evidenzia l’incremento complessivo dei reati d’odio nel corso del tempo: i casi registrati ai danni di persone musulmane sono passati da 9 nel 2011 a 78 nel 2014. Ma questi dati sono solo una minima parte di quelli effettivi: si pensi, ad esempio, che da quando è attivo l’OSCAD (Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori) non è stata fatta alcuna segnalazione in merito a donne musulmane. Alla base di questo fenomeno ci sono da una parte il problema dell’under reporting, e dall’altra la modalità stessa con cui le informazioni sono raccolte da parte delle autorità competenti, che non rilevano le informazioni relative alla religione o all’appartenenza etnica delle vittime.
Come conclude giustamente il rapporto, è necessaria e urgente una presa di coscienza politica e sociale, che parta dal riconoscimento dell’islamofobia come forma specifica di discriminazione.
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