Di Fabrizio Gatti su Today
Gli italiani neri – cioè i cittadini che vivono, lavorano e pagano le tasse in Italia, ma hanno un colore della pelle diverso da quello della maggioranza della popolazione – incontrano molte più difficoltà nella vita di tutti i giorni, rispetto ai connazionali bianchi. Nemmeno il possesso del passaporto tricolore li protegge da pregiudizi e discriminazioni: soprattutto se hanno studiato e oggi sono, uomini e donne, medici, infermieri, maestri, educatori, smentendo così il luogo comune che li vorrebbe soltanto braccianti sfruttati, irregolari o addirittura criminali. In un Paese come l’Italia che considera il razzismo un fatto isolato, la pelle non dovrebbe avere alcuna influenza. Nessuno infatti giudicherebbe o rifiuterebbe una persona in base al colore degli occhi o dei capelli. Invece è esattamente quello che accade.
La questione riguarda oltre un milione di residenti, con cittadinanza italiana o permesso di soggiorno. Un’indagine, coordinata dall’organizzazione internazionale Amref Health Africa e curata dai ricercatori Paola Barretta e Giuseppe Milazzo dell’Osservatorio di Pavia, ha analizzato il fenomeno, raccogliendo interviste nel mondo della sanità, della scuola e della comunicazione. I risultati descrivono una nazione che, come altri Stati europei, deve ancora crescere nel suo rapporto con la realtà e con il suo passato coloniale.
“Il razzismo – osservano i ricercatori, dopo aver studiato decine di segnalazioni – è spesso associato a fatti episodici, dettati da inclinazioni politiche o difficoltà psicologiche individuali, ma è assente un’analisi rispetto alle cause strutturali”. Mentre il confronto si consuma tra sedute parlamentari e dibattiti televisivi, secondo lo studio, la frattura nella società si allarga: da una parte il mito degli italiani brava gente, dall’altro i connazionali con un diverso colore della pelle – magari italiani da più generazioni – costretti a sopportare e a testimoniare quello che i ricercatori chiamano “razzismo all’italiana”: “Un quadro incompleto e distorto, che non permette di comprendere le ragioni sottostanti i fenomeni che osserviamo nella realtà e che porta, inevitabilmente, dolore e lacerazione”.
I casi di questa discriminazione silenziosa abbondano. È di pochi giorni fa la notizia degli insulti sui social, a Fagnano Olona in provincia di Varese, che hanno costretto un medico del paese, Enock Rodrigue Emvolo, 48 anni, a chiedere il trasferimento. Motivo degli attacchi la circostanza che il dottor Emvolo, arrivato da poco a Fagnano, è nero e originario del Camerun, anche se si è laureato in Medicina in Italia e si sta specializzando in chirurgia di emergenza all’ospedale di Varese.
Mettere un medico nelle condizioni di cambiare sede, con la grande insufficienza di personale sanitario, è tra l’altro un incredibile autogol. Ma la maggior parte dei casi rimane sconosciuta. A volta è una questione di occhiate: “Si nota un po’ lo sguardo – racconta un’infermiera – , o la diffidenza che le persone hanno inizialmente al primo impatto, o magari quando si ritrovano in un letto di ospedale, in rianimazione e si trovano davanti una infermiera nera: un po’ si vede lo shock”. Succede anche dal farmacista: “Io in farmacia mi rendo conto proprio dallo sguardo: cioè sono quasi sorpresi di vedere una persona nera con un camice bianco”.
Nemmeno la scuola viene risparmiata: “Ho questa ansia di vedermi guardata come un extraterrestre – rivela un’insegnante – come una persona che è al posto sbagliato. Non ho la paura che qualcuno mi aggredisca fisicamente, ma l’umiliazione: io ho paura di essere umiliata come nera e questa paura mi segue sempre”. I neri, secondo la ricerca, vengono considerati senza alcuna ragione anche potenziali ladri: “Varie volte le persone, quando io cammino sul marciapiede – dice un educatore – si coprono la borsa con la mano o cambiano lato della borsa o si assicurano di aver chiuso la macchina… mi capitano spesso queste cose e, secondo me, l’inasprimento del razzismo è proprio perché è andato peggiorando”.
Quando poi in classe si insegna storia, le contraddizioni vengono al pettine: “Una cosa che io vorrei tantissimo che qualcuno si preoccupasse di scardinare – auspica una mediatrice culturale – è l’insegnamento della storia. Quando si arriva a un certo punto, ovvero le campagne italiane in Africa, tutto questo viene dipinto come la conquista, la vittoria… poi però nessuno parla di quelle popolazioni che sono state colonizzate. In Italia c’è stata una battuta d’arresto pazzesca da questo punto di vista. Il colonialismo in Africa, il fascismo in Africa, non se ne parla, non vengono trasmessi film, se non alcuni tipi di film che rievocano la vittoria e le gesta brillanti degli italiani. Però non si parla dei retaggi che noi ci portiamo dietro, di cosa ne è stato appunto delle donne e degli uomini che hanno subito il colonialismo o anche per esempio di che cosa è stato il madamato, il meticciato, i figli appunto di quella componente coloniale. Questo, secondo me, è uno dei grandi elementi che sono alla base dell’estrema ignoranza italiana”.
Ricorda un medico: “Ero di guardia, sono andato in una casa e appena arrivato, ho suonato, ha aperto: ero io, di colore. Io non ho niente da comprare [dice il paziente alla porta] alle due di notte e io ho detto: guarda, non sono un vucumprà, io sono un medico”. E il paziente: “Non ti voglio, non ti voglio. Allora – continua il medico – io sono ritornato in sede, lui ha richiamato ancora in sede, ho preso la telefonata e poi sono andato lì e lui nel frattempo aveva chiamato i carabinieri dicendo: c’è uno di colore che realmente non so che cosa sta facendo in questo quartiere”.
Perfino in attesa del parto, denuncia la ricerca, capita che le mamme chiedano di essere assistite da bianchi: “Mi guarda e mi fa: adesso mi chiami l’ostetrica. Io gli ho detto: guardi signora che sono io l’ostetrica. Sorride, tra una contrazione e l’altra, e mi fa: sì, ho capito tu chi sei, ti prego adesso devo proprio spingere. Chiamami l’ostetrica”. È difficile farsi accettare per il colore della pelle anche come infermiera: “Alla fine vengo comunque considerata straniera: se sei una straniera, quindi fai l’addetta alle pulizie. Viene sempre sminuito il tuo ruolo”.
“Io credo – prosegue un’insegnante – che innanzitutto bisognerebbe formare gli insegnanti, i docenti, perché c’è proprio un vuoto formativo riguardo al razzismo, a come affrontare il razzismo, a come affrontare la diversità tra le persone”. Le conseguenze coinvolgono ovviamente gli studenti: “Questi ragazzi, pur non subendo episodi di discriminazione, è come se partissero non da zero ma da meno uno: come se dovessero dimostrare sempre qualche cosa in più degli altri”. Questa rincorsa continua è all’origine di quella che alcuni studiosi chiamano la “black fatigue”, letteralmente la fatica nera: è la stanchezza cronica che si accompagna agli sforzi quotidiani che sono richiesti a una persona nera, per mantenersi ancorata all’idea ottimista che un giorno il razzismo sarà sconfitto.
Molti intervistati evidenziano come la sottovalutazione di atti di discriminazione e di esclusione di matrice razziale sia anche frutto di un’assenza sistematica della questione dal dibattito pubblico e politico: “Tale assenza – osservano i ricercatori – unita all’inconsapevolezza della gravità delle pratiche razziste, provoca una vera e propria spirale del silenzio”. La Francia, periodicamente attraversata da forti tensioni sociali, ha affrontato le ombre culturali del suo colonialismo nel bel film di Laurent Cantet “La classe”, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2008. Quello francese è anche il modello al quale l’Italia più si avvicina. Ogni Paese deve però scegliere la sua strada, che si costruisce di giorno in giorno. Purché non si nascondano i problemi: altrimenti, come spiega un’ostetrica del Niger da tempo in Italia, “è difficile avere una terapia per una malattia non diagnosticata”.
Immagine in evidenza di Ansa
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