Detenzione arbitraria, intimidazione e ricorso alla forza per ottenere le impronte digitali di uomini, donne e minori sono tra le violazioni dei diritti umani denunciate ad Amnesty da migranti e rifugiati che avrebbero subito tale trattamento nell’ambito di ciò che è chiamato “approccio hotspot“. L’organizzazione per i diritti umani ha raccolto le testimonianze in un rapporto pubblicato oggi.
In corso dal 2015, l’insieme di tali procedure finalizzate all’identificazione prevede una valutazione dei requisiti per ottenere la protezione internazionale, con l’obiettivo di valutare caso per caso la situazione e avviare le procedure per la richiesta d’asilo, inserire i rifugiati nel programma di relocation o determinare il ritorno verso il paese d’origine di chi, invece, sembrerebbe non rientrare nella categoria precedente. Attualmente sono operativi quattro centri adibiti alla funzione di hotspot: a Lampedusa, Pozzallo, Taranto e Trapani.
L’approccio hotspot, tuttavia, ricorda Amnesty, non ha dato finora i risultati sperati: in particolar modo il numero di persone trasferite nell’ambito del programma di ricollocamento, che ha avuto inizio poco più di un anno fa, risulta inferiore rispetto alle attese.
«Determinati a ridurre il movimento di migranti e rifugiati verso altri stati membri, i leader europei hanno spinto le autorità italiane ai limiti, e talvolta oltre i limiti, della legalità», commenta Matteo de Bellis, ricercatore di Amnesty International sull’Italia. Delle 24 testimonianze di maltrattamenti raccolte dall’organizzazione internazionale, 16 raccontano di veri e propri casi di violenza fisica che si sarebbero verificati nel corso delle attività di identificazione: «Persone traumatizzate, arrivate in Italia dopo esperienze di viaggio strazianti, vengono sottoposte a procedure viziate e in alcuni casi a gravi violenze da parte della polizia, così come a espulsioni illegali», ha aggiunto de Bellis.
La raccolta delle impronte digitali dei nuovi arrivati è parte essenziale dell’identificazione, così come voluta dall’Unione europea; è forte, tuttavia, in coloro che vogliono raggiungere altri paesi europei, il timore di essere rimandati in Italia sulla base del trattato di Dublino nel caso in cui lascino le impronte qui.
Sono numerosi i casi in cui migranti e rifugiati sostengono di essere stati colpiti con un manganello elettrico e costretti così a lasciare le proprie impronte digitali. Un ragazzo di 16 anni, originario del Darfur, ha raccontato ad Amnesty International di aver subito tale pratica ripetutamente, sulle gambe, sul petto e sulla pancia: «Ero troppo debole, non potevo resistere e a quel punto mi hanno preso entrambe le mani e le hanno messe sulla macchina». Un altro uomo racconta di essere stato sottoposto a scariche elettriche e altri abusi a Catania: «Ero su una sedia di alluminio, con un’apertura sulla seduta. Mi hanno bloccato spalle e gambe, poi mi hanno preso i testicoli con la pinza e hanno tirato per due volte. Non riesco a dire quanto è stato doloroso».
“L’approccio hotspot prevede che i nuovi arrivati in Italia siano esaminati al fine di separare i richiedenti asilo da coloro che sono considerati migranti irregolari. Ciò significa che persone spesso esauste e traumatizzate dal viaggio e senza accesso a informazioni adeguate sulle procedure d’asilo, devono rispondere a domande che possono avere profonde implicazioni per il loro futuro” , spiega Amnesty. Si tratta dello screening: “Sulla base di interviste estremamente brevi, agenti di polizia che non hanno ricevuto una formazione adeguata sono chiamati a prendere a tutti gli effetti una decisione sui bisogni di protezione delle persone che hanno di fronte. Coloro che sono giudicati privi di un motivo per chiedere asilo ricevono un ordine di respingimento o di espulsione”.
“Sotto le pressioni dell’Unione europea – denuncia Amnesty – l’Italia sta cercando di aumentare il numero dei migranti rinviati nei paesi di origine, anche negoziando accordi di riammissione con paesi le cui autorità hanno commesso terribili atrocità“.
Un caso recente è quello che ha visto protagonisti 40 cittadini sudanesi, i quali sono stati rinviati in Sudan dall’Italia in aereo il 24 agosto scorso. «Ci hanno portato in una zona speciale all’interno dell’aeroporto e ho visto un uomo picchiato – ha raccontato uno degli uomini del gruppo all’organizzazione per i diritti umani, ricordando il ritorno a Khartoum – Ci hanno interrogato uno per uno. Adesso ho paura che i servizi di sicurezza mi stiano cercando, se mi trovano non so cosa mi succederà e che cosa fare».
L’episodio è il frutto di un accordo firmato nell’agosto 2016 tra le autorità di polizia di Italia e Sudan..
«Le nazioni europee possono riuscire a rimuovere persone dal loro territorio ma non possono rimuovere i loro obblighi di diritto internazionale. Le autorità italiane devono porre fine a queste violazioni e assicurare che le persone non saranno respinte verso paesi dove rischiano persecuzione e tortura», ha concluso Matteo De Bellis.
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