A cura di Cronache di ordinario razzismo
Tre mesi di violenze, detenzione, percosse. Poi le sbarre del Cie di Ponte Galeria. È la vicenda drammatica e assurda delle 68 donne nigeriane che dal 26 luglio sono trattenute all’interno del centro di identificazione ed espulsione della periferia capitolina.
Siamo entrate venerdì 7 agosto con una delegazione della campagna LasciateCIEntrare in questa struttura deumanizzante, in mezzo al nulla, dove le porte si chiudono ermeticamente, dove le persone camminano tra le sbarre. E dove le ragazze, giovanissime, sono state portate quindici giorni fa. «We are suffering», stiamo soffrendo, ci ripetono quando le incontriamo nei torridi cortili asfaltati del Cie, circondati da alte sbarre d’acciaio. Partite tre mesi fa dalla Nigeria – paese in cui, a causa di criminalità, terrorismo e violenze, la Farnesina sconsiglia di recarsi – hanno viaggiato fino alla Libia, dove ci hanno detto di essere state rapite da alcuni uomini, picchiate, derubate dei documenti, segregate in casa, costrette a prostituirsi, obbligate ai lavori forzati. Una ragazza ci mostra i segni delle percosse. Poi il viaggio in barca, verso l’Italia.
Quanto hanno dovuto pagare per partire? Niente, ci hanno risposto. Proprio così: un elemento che differenzia il percorso di queste giovani donne da quello di tante altre persone che intraprendono questi viaggi – come gli altri uomini e donne che erano in barca insieme a loro, eritrei e siriani soprattutto, ci spiegano le ragazze. Un aspetto che rappresenta un chiaro segnale della presenza, dietro al viaggio di queste giovani donne, di un’organizzazione criminale che mira a sfruttarle, in Italia o in altri paesi europei, nella rete della prostituzione forzata. Lo sottolinea anche Francesca De Masi, operatrice della cooperativa Be Free che – come l’associazione A Buon Diritto – nel Cie fa consulenza e informazione. E che, ascoltate le ragazze, ha allertato subito le associazioni che fanno parte della campagna LasciateCIEntrare, per provare a fare luce sulla situazione.
Non sono arrivate in Italia insieme: gran parte delle giovani donne sono sbarcate a Lampedusa il 17 luglio, altre sarebbero arrivate, a quanto ci riferiscono, in Sicilia. Dove di preciso è ancora da capire. Quello che è chiaro è che nessuno ha chiesto loro come sono arrivate in Italia, cosa che avrebbe permesso di scoprire un percorso di tratta e sfruttamento. Così come nessuno ha parlato loro della possibilità di chiedere protezione. Sono state prese loro le impronte digitali, e in pochi giorni trasferite, in aereo, a Roma, per essere rinchiuse all’interno del Cie. Tre erano in stato di gravidanza a seguito degli stupri subiti.
Il rischio reale che corrono ora queste 68 giovani donne è il rimpatrio. Del resto, è questo l’obiettivo dei Cie: l’identificazione e la conseguente espulsione. Un addetto del consolato della Nigeria avrebbe incontrato le ragazze a poche ore dall’ingresso a Ponte Galeria, dando il via libera al rimpatrio: una misura che le renderebbe facilmente rintracciabili dai trafficanti, sottoponendole al rischio di nuove violenze. “Possibile dunque – si chiede Francesca De Masi – che le istituzioni non abbiano pensato di proteggerle?”.
La misura di rimpatrio è stata bloccata solo grazie al fatto che le ragazze, finalmente informate dei propri diritti da A Buon Diritto e Be Free, hanno presentato domanda di asilo. Uno degli avvocati che sta seguendo alcune delle donne, Jacopo Di Giovanni, ha spiegato a La Repubblica che «formalizzare la richiesta d’asilo è stato molto lungo, e ad oggi solo un terzo delle mie clienti ha ottenuto i primi documenti». Inoltre, le giovani donne sarebbero interessate da un decreto di espulsione «emesso ma mai consegnato alle interessate, tanto che non so dove depositare il ricorso contro il provvedimento», ha dichiarato Di Giovanni. I primi colloqui con la Commissione per l’Asilo si terranno a fine agosto. Il dato di fatto attuale è che le ragazze sono completamente sole, chiuse in una struttura totalmente inadeguata alla condizione di vulnerabilità in cui si trovano, senza alcun supporto se non quello delle associazioni. Quello di cui necessiterebbero e a cui avrebbero diritto è accoglienza e protezione: cose che sicuramente i muri del Cie, le barriere di ferro, le porte che si chiudono ermeticamente non possono dare. Non è l’obiettivo di questo posto, dove “si diventa matti”, come ci ha detto una giovane donna moldava, in Italia da anni e ora rinchiusa nel centro dopo aver perso il lavoro e conseguentemente i documenti.
Da anni la campagna LasciateCIEntrare, insieme a associazioni e movimenti, sollecita il definitivo superamento dei centri di identificazione ed espulsione. Le continue visite dei membri della campagna all’interno dei Cie denunciano le quotidiane violazioni dei diritti umani e le condizioni di vita al di sotto degli standard minimi di dignità. L’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisce che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. La dolorosa situazione in cui si trovano le 68 ragazze nigeriane è l’ennesimo esempio reale di come i Cie, ben lontani dall’assicurare protezione e dignità, non siano altro che luoghi di negazione continua dei diritti umani.
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