A volte per ottenere una risposta alla richiesta di asilo ci possono volere anni. Altre volte, si ottiene l’asilo e si esce dal sistema di accoglienza, senza alcuna prospettiva, senza un lavoro e senza un posto dove stare. Vivere nel degrado per molti non è una scelta. Si continuano ad effettuare sgomberi, quasi mai proponendo alternative valide.
Nel video “Voci dal ghetto”, pubblicato da Lorem Ipsum, si racconta di uno di questi “non-luoghi”, quello di via Vannina, occupato da poco più di un centinaio di migranti fino allo sgombero dello scorso marzo. Lo sgombero di questo stabile è stato uno dei primi all’interno della campagna confermata dal Decreto Sicurezza, promosso dal ministro dell’Interno Matteo Salvini e approvato all’unanimità oggi.
In un “non luogo” a un chilometro dal carcere di Rebibbia, a Roma, circa 150 migranti vivono segregati in condizioni disumane
di Lorem Ipsum
Roma, inizio marzo 2018. L’inverno tarda a congedarsi, ci si ripara ancora sotto pesanti giacconi. Fa freddo, nella Capitale. Lontani dagli occhi delle persone, segregati in un non luogo, 150 migranti vivono, o meglio sopravvivono, nel ghetto di via di Vannina: tentano di scaldarsi improvvisando piccoli fuochi, riscaldano l’acqua dentro secchi per lavarsi e ritrovare un po’ di calore. A un chilometro dal capolinea Rebibbia della metro B, in una delle tante periferie romane, uomini e donne, provenienti per la maggior parte dal Niger e dal Gambia, trascorrono qui le loro giornate. È uno dei cosiddetti “ghetti dei migranti”, elencati e descritti nel secondo rapporto Fuoricampo, pubblicato di recente da Medici Senza Frontiere. Strutture degradate sparse per tutta Italia, dove migliaia di migranti, compresi molti richiedenti asilo e rifugiati, sono costretti a vivere in condizioni disumane, senza alcun tipo d’aiuto da parte delle istituzioni.
Via di Vannina è uno di questi: una palazzina fatiscente, un ex capannone industriale, al civico 76, adiacente a un altro edificio, teatro di un pesante sgombero lo scorso anno: l’8 giugno 2017 i reparti della celere hanno smantellato tutto, nelle stanze interne e nel cortile. 500 persone mandate in strada, senza alternative. Tra questi c’è anche Mustapha. Nello sgombero è stato colpito da una manganellata sull’occhio, che in breve tempo ha smesso di vedere. In Gambia era un sarto, ma, senza una vista perfetta, non riesce più a cucire. Insieme ad altri ha deciso di prendere possesso dell’immobile attiguo, in stato di abbandono.
Non hanno bagni, né docce. Ogni volta che piove, la struttura si allaga. Alcuni hanno provato a ricavare degli spazi privati, dove stendere una branda per terra e cercare un po’ d’intimità. La convivenza non è sempre facile: la noia e la claustrofobia comportano inevitabili scontri, anche accesi. “Noi vogliamo solamente lavorare, non chiediamo altro”, sussurra un ragazzo del Niger, arrivato in Italia ormai da tre anni. Molti di loro hanno ottenuto lo status di rifugiati, ma, una volta usciti dal circuito dell’accoglienza, sono stati abbandonati a se stessi. “Nel mio Paese, la Guinea, non posso più tornare, c’è la guerra”. Valentine è arrivato in Italia nel 2004. Da allora, ha dormito un po’ ovunque: per strada, in autobus dismessi, in metro, nei treni.
La palazzina ha subìto un nuovo sgombero il 21 marzo scorso. Gli agenti della Polizia, sul posto con mezzi blindati e unità cinofile, hanno allontanato un centinaio di occupanti, quasi tutti trasferiti all’ufficio immigrazione della Questura in via Patini per l’identificazione. Ancora una volta, le persone sono state sfrattate e lasciate al loro destino.
Nel frattempo, Mustapha è riuscito ad abbandonare il ghetto. Grazie all’associazione Baobab Experience, ha trovato lavoro come aiuto cuoco in una pizzeria: ora riesce a permettersi una piccola stanza in una casa condivisa. Ma trovare un appartamento è stata un’impresa: nessuno voleva affittare a un ragazzo nero. “Mi dicevano: ‘la gente che vive qui non vuole abitare con ragazzi di colore’. Ma cosa vuol dire? – si sfoga – noi siamo tutti di colore, anche i bianchi”.
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