Even 20 years ago Taplur Char in Kutubdiawas a fertile green land. Farmers used to grow paddy here. But now everything has changed as the land is now taken over by the sea. Now nothing can grow here other than salt! Two young girls crossing a tiny bamboo bridge. ; Predicted sea-level rises of up to a meter over the next century would flood the homes of millions of people in Bangladesh. At the present rate of 8mm/year it may take about 25 years to raise 20cm, enough to eternally waterlog and raze the land and drinking water of 10 million people in the south. Kutubdia is affected by rapid erosion and is shrinking radically, has halved in size in 20 years, to about 100 sq km. At the recent rate it’ll be off the map in 30 years, with dozens of other islands.
Di Alessandro Lanni
Da un punto di vista formale, l‘espressione “rifugiato climatico” è impropria poiché non si fonda su nessuna norma presente nel diritto internazionale. Non riflette, inoltre, la complessità con cui il clima e la mobilità umana interagiscono tra loro in un articolato rapporto di cause ed effetti.
Il “rifugiato climatico” non è riconducibile alla definizione della Convenzione sui rifugiati di Ginevra (1951), che lo individua come qualcuno che ha attraversato una frontiera internazionale «a causa del fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per un’opinione politica».
Eppure, come ha sottolineato l’Alto Commissario per i Rifugiati Filippo Grandi, «l’immagine che [quell’espressione] trasmette – di persone fuggite dalle loro case a causa dell’emergenza climatica – ha giustamente catturato l’attenzione dell’opinione pubblica».
Uragani, inondazioni, tempeste, siccità, carestie. Con la “crisi climatica” in corso (così suggerisce di chiamarla il Guardian invece che climate change) è aumentata la frequenza e l’intensità di disastri improvvisi che costringono alla fuga milioni di persone. Solo l’anno scorso, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, 17,2 milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa fenomeni distruttivi e di rischi meteorologici. Si tratta enormi movimenti di uomini e donne all’interno del loro stesso paese o in quelli confinanti come molto spesso è capitato in questi anni in Africa e in Sud America.
Secondo l’Unhcr “le regioni in via di sviluppo, che sono tra le più vulnerabili dal punto di vista climatico, ospitano l’84% dei rifugiati del mondo. Gli eventi meteorologici estremi e i pericoli in queste regioni che ospitano i rifugiati stanno sconvolgendo la loro vita, esacerbando i loro bisogni umanitari e perfino costringendoli a fuggire di nuovo”.
Ciò significa che i territori più esposti dal punto di vista climatico sono anche quelli dove molto spesso scoppiano conflitti e dove la persecuzione razziale, culturale, politica, è più frequente. È sulla base di questa constatazione che la comunità internazionale si deve muovere, indipendentemente dall’identificazione di un rapporto di causa-effetto tra clima e guerre.
Come ha riconosciuto nel dicembre 2018 il Global Compact sui rifugiati, i movimenti delle persone hanno origine complessa e i disastri climatici possono essere un fattore fondamentale. Se la crisi climatica produce – direttamente o indirettamente – centinaia di migliaia di sfollati, questi devono essere protetti e assistiti secondo standard internazionali e linee guida generali per “internal displaced people” come è accaduto, più o meno recentemente, nel caso della Somalia, del Sud Sudan e del Sahel. Le persone in fuga oltre confine e che non possono tornare a casa, hanno il diritto di chiedere forme complementari di protezione internazionale.
Dunque non rifugiati in senso stretto, ma persone che hanno comunque diritto a protezione, assistenza e supporto.
In questo scenario, qual è il tipo di assistenza che organizzazioni come l’Unhcr possono garantire?
Foto in evidenza: 13 December, 2015 Bangladesh. Climate displaced people in Cox’s Bazar.
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