A occupare l’agenda dei notiziari il timore del terrorismo e di nuove guerre
«La principale novità mi pare l’assenza di novità. O meglio c’è una novità evidente imposta dall’esterno che è la paura del terrorismo perché all’indomani degli attentati di Parigi si è prodotta e riprodotta una grande angoscia. Tenendo conto che si tratta di eventi fortemente spettacolarizzati e che hanno un loro senso proprio in questo. L’altro elemento che emerge è l’opposto: questi eventi clamorosi e angoscianti cadono in un contesto di paura diffusa e quasi metabolizzata».
Con queste parole, tratte dal video pubblicato sopra, Ilvo Diamanti commenta l’ottavo Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa realizzato da Fondazione Unipolis, Demos&Pi e Osservatorio di Pavia.
Qual è il rapporto tra la rappresentazione mediatica dei fatti e il sentimento di insicurezza? Quante e quali sono le notizie ansiogene? Sono queste le domande a cui il rapporto tenta di rispondere.
Paola Barretta, ricercatrice presso l’Osservatorio di Pavia, ha risposto ad alcune domande dell’Associazione Carta di Roma sulle notizie ansiogene relative all’immigrazione.
Quali sono gli elementi che determinano il sentimento di insicurezza, quando il tema della notizia è l’immigrazione? Il rapporto di quest’anno quali tendenze ha rilevato in questo senso?
«In otto anni di analisi di informazione nazionale ed europea abbiamo rilevato che non è tanto l’esposizione in termini quantitativi, come accade per la criminalità, a produrre effetti, ma la cornice in cui viene inserita la notizia. Ai picchi di notizie non corrispondono necessariamente i picchi di insicurezza. Mentre quando le descrizioni sono molto negative può aumentare il senso di insicurezza, soprattutto in concomitanza di alcune tipologie di narrazioni, come accade con il binomio criminalità-immigrazione».
Vi è un forte stacco per quel che concerne le notizie ansiogene sull’immigrazione, passando dall’analisi nazionale a quella locale. Da cosa è determinato?
«Complessivamente la narrazione non è ansiogena, l’immigrazione è tematizzata principalmente in relazione agli sbarchi, una dimensione in cui entra il gioco il dibattito politico, così come il richiamo alle policy dell’Unione europea. Questo è ciò che costituisce il cuore, la maggior parte delle notizie in materia di immigrazione.
Quella locale è una narrazione molto contestualizzata. Nel 2014 vi sono esempi legati ad alcuni fatti: gli scontri all’Infernetto, a Roma, per esempio, o gli sgomberi forzati degli insediamenti rom a Milano. In questi casi veniva tematizzato lo scontro tra immigrati e non-immigrati, rom e abitanti del quartiere e la narrazione aveva quasi lo scopo di sensibilizzare il lettore. I riflettori si accendevano su situazioni degradate: non era tanto l’immigrazione in sé, quanto l’inserimento dell’elemento immigrazione in un contesto di degrado a rappresentare un problema.
A livello locale, dove c’è una dimensione di prossimità, permane quella insicurezza che trova spazio nella cronaca locale, la quale racconta i problemi delle popolazione come i reati registrati, commessi, secondo la narrazione giornalistica, anche da immigrati. Si innesta così di nuovo quella dimensione criminalità-immigrati, che spicca più a livello locale. Anche le questioni lavorative emergono nel contesto locale: il numero di disoccupati, la percentuale di immigrati si sovrappongono creando una dimensione in cui l’immigrazione può venire identificata come un problema per l’occupazione».
Quali sono le principali differenze nel modo in cui le testate giornalistiche italiane e europee trattano l’immigrazione?
«Fino al 2012 l’immigrazione era stata trattata allo stesso modo: in Italia e in Spagna riflettendo sulla questione della raggiungibilità delle coste, in altri paesi invece in relazione alla gestibilità degli ingressi. Nel corso del 2014 si è assistito, invece, soprattutto nel centro e nel nord Europa, a una tematizzazione molto intensa dell’immigrazione: soprattutto nel Regno Unito e in Germania è divenuta centrale la diffusione di sentimenti razziali e xenofobi (anche anti-islamici). L’immigrazione è entrata così nel dibattito politico, nel dibattito dell’opinione pubblica. In questi casi non vi è la dimensione del racconto di cronaca, predomina quella del dibattito politico».
Denunciamo spesso la carenza di servizi giornalistici volti a illustrare la situazione nei paesi di provenienza dei richiedenti asilo. Qual è la tendenza dei telegiornali italiani, parlando di attenzione rivolta all’estero?
«È un dato strutturale: l’Italia non parla di alcune aree a differenza di altri paesi. In Italia è difficile occuparsi di politica estera, in parte anche perché non abbiamo le stesse risorse di altri network televisivi in Europa. La copertura di alcune aree è connessa direttamente alle risorse disponibili, ma è anche vero che i servizi possono essere acquistati; resta quindi una scelta. La pagina degli esteri in Italia è ben al di sotto della media europea e non è una novità. In alcuni anni entra di più in agenda, in altri invece no: nel 2014, per esempio, il Tg1 dedica solo il 5% di attenzione agli esteri, contro il 25% della televisione tedesca. In Italia, inoltre, si tende a coprire alcune zone solo se vi è una catastrofe – naturale per esempio – o perché vi è un testimonial; la notiziabilità si attiva solo nel caso in cui si risponda ad alcuni criteri. Infine la stessa storia e situazione geopolitica dell’Italia ci rende meno proiettati, mediaticamente, verso alcune aree rispetto ad altri paesi europei».
Martina Chichi Anna Meli