di Alidad Shiri su l’Adige
Scrivo ancora a caldo, con le lacrime, alcune righe per descrivere il mio stato d’animo e quello degli altri familiari delle vittime del naufragio di Cutro, a 40 minuti di auto da Crotone, avvenuto proprio un anno fa con 94 persone annegate, di cui 35 bambini. Come sapete, sono parente di un giovane di 17 anni, Attiqullah, ancora disperso. È un dolore questo che ti consuma, soffri tutti i giorni, aspetti sempre la notizia dell’identificazione di un corpo su cui piangere, di una notizia certa da comunicare ai parenti che continuano a subissarmi di domande. Come me molti altri uomini e donne di ogni età sono arrivati da tante parti del mondo, per questo momento insieme di memoria, almeno quelli che avevano la fortuna di avere un passaporto internazionale, mentre altri non potevano nemmeno venire, anche se il sogno che gli rimane è quello di andare sulla tomba del proprio caro. Come quello dei genitori di Zahra, che sono bloccati in Iran e non possono nemmeno piangere, pregare sulla tomba del loro figlio di 23 anni, che è stato sepolto in Finlandia a Espo, vicino a Helsinki, dove vive la sorella Zahra insieme al marito Hassan. Come altri che sono arrivati dalla Francia, dall’Olanda, dagli Stati Uniti, dalla Germania, dall’ Ungheria, dalla Finlandia e da altre città di Italia. Il cellulare continua a squillare, mentre siamo con Zahra, Hassan, Said, un gruppo di volontari dell’Associazione Memoria Mediterranea e alcuni cronisti al cimitero di Cutro. Stiamo ancora cercando di capire se c’è mio cugino tra i sei corpi senza nome, senza identificazione. È una mamma che ci chiama dall’Iran, anche lei vorrebbe essere in questo anniversario nei luoghi dove hanno perso la vita i suoi figli di 19 e 21 anni. Loro sono sepolti a Bologna, ma è impossibile spiegarle che è molto distante da questo luogo, che non può vedere con videochiamata la tomba. Vorrebbe parlare con i giornalisti per comunicare loro tutto il suo grande dolore, la sua impotenza nell’impossibilità di spostarsi. Ritorniamo a Crotone direttamente al Museo Pitagora. Appena scendo dalla macchina di Anna, inviata di Agorà, veniamo circondati da otto sopravvissuti giovanissimi afghani, che vengono da Amburgo. Hanno voglia di comunicare, raccontare l’inferno che hanno visto un anno fa, nel momento della strage. Uno di loro appartiene a quella famiglia di 21 persone sulla nave, di cui 16 sono morti e solo cinque sopravvissuti. Si mettono in fila per cercare di raccontare a turno quello che è successo. Inizia Mohammad, 25 anni, laureato in economia a Herat. Il padre si trova ancora in carcere, arrestato dai talebani, faceva parte dell’esercito afghano, anche il fratello. I talebani avevano dato a lui due scelte: o fare parte dell’esercito dei talebani o avrebbero arrestato anche lui. Improvvisamente di nascosto è scappato in Iran e quindi in Turchia. Anche Harun Mohammadi ha vissuto questo stesso meccanismo: anche lui non aveva finito Giurisprudenza quando sono arrivati i talebani. Il padre è scappato subito perché aveva lavorato con la NATO, lui un mese dopo con tutta la famiglia. In Iran non avevano documenti, quindi erano irregolari e dovevano sempre nascondersi. Dopo alcuni mesi, è partito anche lui per la Turchia, da dove pagando un trafficante, si arriva sulle coste dell’Italia con un barcone. Quella notte, terribile, se la ricordano bene, fino al momento della strage nella tempesta dove la memoria si offusca. Mohammad si ricorda di essere risalito a galla di avere visto i corpi dei bambini che galleggiavano ormai senza vita, sentiva le urla delle persone disperate. Insieme ad altri sei lui era riuscito ad aggrapparsi ad un’asse di legno. Ogni volta che un’onda arrivava con forza perdeva un paio di compagni, finche è rimasto da solo. Appena uscito dall’acqua,ricorda, si è buttato per terra e aveva parlato con qualcuno che poco dopo non parlava e respirava più. Un’esperienza terribile. Ora questi giovani sopravvissuti parlano della loro vita difficile in Germania. Fino a tre mesi fa le istituzioni tedesche non erano a conoscenza della loro provenienza dal naufragio di Cutro, non avevano nessuna assistenza psicologica, abitano ancora in un centro di accoglienza dove solo per avere una visita medica occorre un mese. Anche per un appuntamento con il medico di base occorrono dieci giorni. Per loro, come per altri sopravvissuti, il problema principale è il ricongiungimento famigliare, che gli era stato promesso dal governo. Con così tanto dolore, tanta rabbia dentro, per i sopravvissuti e per noi parenti delle vittime, non era certo facile tornare in quel luogo. Alcuni non ce la facevano a sopportare tutto questo, ci sono stati tanti malori. Davanti alle telecamere si cercava di trattenere il pianto, ma rientri nelle nostre stanze, il buio ci soffocava e c’erano fiumi di lacrime. Ci consolava ancora una volta l’appoggio, solidarietà, umanità della popolazione locale, dei volontari, delle associazioni che ci hanno accompagnato. Insieme a noi hanno pianto, hanno urlato, hanno camminato sotto la pioggia e ci hanno appoggiato nelle nostre forti richieste di giustizia, verità sulle responsabilità di chi non ha subito soccorso, basta morti nel mare, di organizzare canali sicuri per i ricongiungimenti famigliari, che non debba succedere mai più una simile strage.
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