Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha realizzato un ebook su “Informazione e Giustizia” con l’obiettivo di stimolare un dibattito sulle crescenti difficoltà che i giornalisti incontrano ogni giorno per poter offrire ai cittadini un’informazione completa, precisa e autorevole.
“Si tratta di uno strumento rivolto innanzitutto ai giornalisti, per aiutarli ad orientarsi tra i più recenti interventi del legislatore sul tema. Ma anche un’occasione per stimolare una riflessione, non senza qualche preoccupazione, sulle limitazioni che, passo dopo passo, il legislatore sta introducendo, con il rischio di limitare il diritto di cronaca”. La pubblicazione curata dal gruppo di lavoro su “Informazione e Giustizia”, fa il punto sulle iniziative e sugli interventi per la difesa della libertà di informazione.
Diritto di oblio, sanzioni economiche per le diffamazioni a mezzo stampa, aumento di minacce e intimidazioni nei confronti dei giornalisti sono le questioni affrontate nel testo. Il rapporto Media Pluralism Monitor Report evidenzia, per l’Italia, la persistente questione della “diffamazione all’interno del sistema giuridico penale rimane irrisolta. Nonostante le precedenti condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo a causa delle disposizioni della legge sulla stampa (n. 47/1948, articolo 13) e del codice penale (articolo 595), che prevedevano la reclusione per diffamazione, la Corte costituzionale italiana ha affrontato la questione due volte […] ha emesso sentenze interpretative per limitare la reclusione per diffamazione a casi di eccezionale gravità, sollecitando il Parlamento a varare una riforma complessiva. Tuttavia, le leggi sulla diffamazione non sono ancora state modificate”
La pubblicazione è scaricabile dall’home page del sito www.odg.it. .
Tra le tematiche affrontate figurano le novità introdotte dal decreto sulla presunzione d’innocenza, che tante criticità stanno creando al lavoro dei cronisti, le problematiche legate alla normativa sul diritto all’oblio e le preoccupazioni connesse alla proposta di sanzioni economiche spropositate per i casi di diffamazione a mezzo stampa. E ancora la denuncia dell’aumento di minacce e intimidazioni a danno dei giornalisti, la richiesta di interventi concreti per contrastare il fenomeno delle cosiddette “querele bavaglio”, le iniziative per sostenere l’approvazione dell’European Media Freedom Act..
https://www.odg.it/wp-content/uploads/2024/07/INFORMAZIONE-E-GIUSTIZIA-11.07.2024.pdf
La decisione della Giunta del Governo regionale del Friuli Venezia Giulia di richiedere un approfondimento all’Ufficio scolastico regionale riguardo l’incontro programmato presso l’Istituto Italo Svevo di Trieste sul tema delle migrazioni, incontro che prevedeva la partecipazione di un rappresentante dell’ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà e la testimonianza di una persona migrante desta sconcerto e preoccupazione. Tale intervento, infatti, come riportato nella nota della Giunta regionale, ha avuto quale conseguenza l’annullamento dell’incontro da parte della scuola stessa.
Tale incontro prevedeva l’ascolto diretto di testimonianze presentate da chi è coinvolto in prima persona nei percorsi migratori e contemplava la possibilità di fornire dati, esperienze e resoconti di esperti sulle migrazioni e di razzismo; occasioni che certamente rappresentano opportunità educative che favoriscono la crescita civile collettiva. Questi incontri, analoghi a quelli su temi di grande attualità come le questioni ambientali, offrono strumenti per comprendere le discriminazioni, le loro forme e l’impatto dei social media sulla costruzione del pensiero collettivo, soprattutto per i più giovani.
Anche le associazioni, parte attiva e strutturale della nostra società democratica, sono chiamate a partecipare anche alle attività scolastiche per informare e condividere i valori costituzionali che guidano la nostra comunità.
Pertanto crediamo che la politica non debba e non possa voler orientare le scelte educative e formative delle scuole così come la loro realizzazione e che tale atto sia lesivo della libertà di espressione e di insegnamento.
Educare i giovani alla libertà di pensiero li rende capaci di analizzare criticamente la realtà, prendere decisioni informate e innovare. Allo stesso tempo, sviluppare il senso civico promuove valori come il rispetto, la solidarietà e la partecipazione attiva nella comunità, elementi essenziali per una società democratica e inclusiva. Questi aspetti contribuiscono a creare una generazione di individui che non solo comprendono i propri diritti e doveri, ma sono anche pronti a impegnarsi per il bene comune.
Hanno aderito: Amnesty International, Amref Health Africa, Arci, Articolo21, Associazione Culturale Tina Modotti, Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione, Associazioni Cristiane Lavoratori Italiane, Cemea Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva, Centro Culturale Veritas, Associazione Diritti e Storti, Cir Onlus Consiglio Italiano per i Rifugiati, Centro Astalli, Centro Balducci, Cittadini del Mondo di Ferrara, Commissione Migrantes Provincia Comboniana, Cospe, Educare alle Differenze, Federazione Nazionale Stampa Italiana, Lunaria, Rete DASI, Uisp Sport per tutti, UsigRai.
Per adesioni: info@cartadiroma.org
La classifica annuale Reporters sans Frontières (RSF) vede peggioramenti importanti nei Balcani e in tutta l’Europa orientale, ma non solo. “Nonostante l’Unione Europea abbia adottato la sua prima legge sulla libertà dei media, l’EMFA, e il fatto che tre Paesi europei – Norvegia, Danimarca e Svezia – siano ancora in cima alla classifica, i politici [europei, nda.] cercano di ridurre lo spazio per il giornalismo indipendente”, scrive RSF.
Il riferimento è in primo luogo al primo ministro ungherese Viktor Orban e al suo omologo slovacco Robert Fico, ma non si tratta di casi isolati. All’interno dell’Ue, “la libertà di stampa è messa a dura prova dai partiti al governo in Ungheria (67a), Malta (73a) e Grecia (88a), i tre Paesi dell’UE con la peggiore classifica”, sostiene l’organizzazione internazionale basata a Parigi, che chiosa: “anche l’Italia di Giorgia Meloni (46a) è scesa di tre posizioni”.
Se la Slovenia avanza di otto posizioni ed è ora 42a, la Croazia, ultimo stato membro ad aver integrato l’Unione europea, è invece peggiorata. Il paese scende di sei posizioni ed è ora 48° nella lista. Pesano gli attacchi sempre più aperti e nervosi del Primo ministro uscente Andrej Plenković ai giornalisti e alle diverse testate, ma anche gli emendamenti al codice penale che criminalizzano la “pubblicazione non autorizzata di materiale giudiziario”.
Proprio ieri, il premier ha attaccato ancora una volta il portale Telegram, colpevole di aver rivelato l’uso indebito di fondi europei destinati alla ricostruzione dopo i terremoti del 2020 (ne abbiamo scritto in questo articolo).
Sprofonda di 17 posizioni la Bosnia Erzegovina (ora 81a), alle prese con la retorica ostile e denigratoria dei politici, dei nuovi provvedimenti legislativi restrittivi e le difficoltà esistenziali del servizio pubblico.
Peggiorano la Serbia (-7, oggi 98a) e l’Albania (-3, ora 99a), così come il Kosovo (75°) che scende di ben 19 posizioni (è il più grande arretramento nell’area).
I motivi sono al tempo stesso simili ed unici ad ogni paese.
A Tirana il Primo ministro Edi Rama si è spinto qualche settimana fa fino a dare una manata in faccia ad una giornalista durante una conferenza stampa (ne abbiamo scritto qui), l’apice di un comportamento largamente diffuso tra i politici, mentre il governo continua ad estendere il suo controllo diretto sulla stampa locale.
In Serbia quest’anno ha segnato l’assoluzione degli agenti di sicurezza accusati dell’omicidio, 25 anni fa, del giornalista serbo Slavko Ćuruvija, ma non sono mancante di recente minacce e attacchi contro i giornalisti a Novi Sad, in un contesto di insicurezza per i reporter e di impunità per chi li attacca. Qui il nostro comunicato al riguardo assieme ad i partner di Media Freedom Rapid Response (MFRR) e la rete SafeJournalists.
In Kosovo è la nuova proposta di legge sui media indipendenti a preoccupare gli osservatori internazionali. “Riteniamo che l’iniziativa legislativa dell’Ufficio del Primo ministro di controllare i media online attraverso un sistema di licenze sia l’ultimo attacco al diritto alla libertà e al pluralismo dei media in Kosovo – scrive ad esempio il Centro europeo per la libertà di stampa e dei media (ECPMF) – l’apparato statale può essere facilmente utilizzato contro qualsiasi media online sotto la minaccia di multe salate, fino a 40.000 euro, che potrebbero rappresentare una seria minaccia esistenziale per qualsiasi mezzo di comunicazione online operante in Kosovo”.
Le poche buone notizie nell’area arrivano dalla Bulgaria (+12 al 59° posto), dove il contesto politico per il giornalismo è migliorato “grazie ad un nuovo governo più attento al diritto all’informazione”, sostiene RSF. La situazione è invece rimasta tutto sommato stabile in Montenegro (40°) e in Macedonia del Nord (36a). La Turchia (158a), infine, “continua a imprigionare i giornalisti e a minare i media attraverso la censura online e il controllo del sistema giudiziario”.
La situazione è complessivamente peggiorata (anche) in Europa orientale e in Asia centrale, ci dice il rapporto di Reporters sans frontières, secondo cui i media dell’area “sono sempre più spesso utilizzati come cinghia di trasmissione per campagne di disinformazione”.
“Lo Stato russo (162°) – si legge nel rapporto – ha proseguito la sua crociata contro il giornalismo indipendente, mentre più di 1.500 giornalisti sono fuggiti all’estero dopo l’invasione dell’Ucraina”. La Russia sale di due posti nella classifica mondiale della libertà di stampa, ma questo è semplicemente “dovuto al calo di altri Paesi”. Il che la dice lunga sulla situazione globale della libertà di stampa.
A sfidare la Russia per la posizione più bassa nella classifica nella regione sono “la Bielorussia (167a), il cui governo perseguita i giornalisti con il pretesto di combattere l’“estremismo”, e il Turkmenistan (175°), il cui presidente ha poteri illimitati e proibisce qualsiasi tipo di informazione indipendente”.
Scende di ben 25 posizioni anche la Georgia (103a), dove “il partito al governo continua a polarizzare la società, coltivando un avvicinamento a Mosca e conducendo una politica sempre più ostile alla libertà di stampa” e non va meglio in Azerbaijan (164°) dove sono peggiorati “tutti gli indicatori, in particolare quello politico, dopo il giro di vite sui media prima delle elezioni presidenziali”.
Infine, il comunicato di RSF si conclude con una nota positiva, riguardante “il salto di 18 posizioni dell’Ucraina (61a), dovuto ai miglioramenti sia dell’indicatore di sicurezza – meno giornalisti uccisi – sia di quello politico”. “Sebbene lo Stato di diritto non sia stato applicato all’intero Paese dopo l’invasione russa, il che ha impedito alle autorità ucraine di garantire la libertà di stampa nei territori occupati, le interferenze politiche nell’Ucraina libera sono diminuite – scrive l’organizzazione internazionale – questo tipo di pressione è limitata dal fatto che i media la denunciano”.
Fonte: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/RSF-liberta-di-stampa-a-dura-prova-231246 di Giovanni Vale
The European Parliament today adopted with an overwhelming majority (546 in favour, 47 against, 31 abstentions) the Anti-SLAPP Directive, intended to protect journalists and media outlets from abusive litigations. The European Federation of Journalists (EFJ) joined the organisations of the Coalition Against SLAPPs in Europe (CASE) in welcoming an important step in the fight against SLAPPs, but regrets the considerable room for manoeuvre left to the Member States on several crucial points.
“Some refer to this law as Daphne’s law (Daphne Caruana Galizia) and I think it’s important to mention it, here in this room, named after Daphne. We achieved an additional layer of protection for journalists. There was no definition of SLAPPs in Europe, we now have one: this is important to help the courts better understand SLAPPs,” said the rapporteur Tiemo Wölken (S&D, Germany) during the press conference following the adoption in the plenary session of the European Parliament, on 27 February 2024.
The adopted Directive provides safeguards for journalists targeted by manifestly unfounded claims or abusive court proceedings, in civil matters, and with cross-border implications. These include an accelerated procedure to dismiss cases at the earliest stage, third-party support to targets during court proceedings, penalties for claimants and compensatory damages for victims.
This directive is only applicable to SLAPP cases (see factsheet ‘What is a SLAPP’) with a cross-border dimension, i.e. when both parties are domiciled in different Member States. However, the definition of “cross-border” was broadened during the final phases of the negotiations to also include “other elements relevant to the situation”, irrespective of the means of communication used. For example, information of public interest published in one country could be considered as a “cross-border” element in another country under this directive. It will be up to the national courts and Member States to implement this definition broadly to cases.
Such an addition, however incomplete, was a key demand of the CASE coalition which mapped SLAPP cases across Europe from 2011 until today. According to the research, only less than 10% of the cases identified and vetted are classical cross-border cases. A strict definition, whereby the directive would only apply to SLAPP targets sued in a purely domestic context, would have failed to counteract the growing problem of SLAPPs in the EU.
“The responsibility now lies with Member States to build on the foundation set by the Anti-SLAPP Directive and draft effective national legislation which includes a broad scope to cover also domestic SLAPP cases, robust guarantees in terms of the early dismissal mechanism to filter out SLAPPs, safeguards in national legislation on damage compensation, as well as a number of non-legal instruments detailed in the Commission’s Recommendations,” said CASE in a press release containing analyses of three key articles.
Lo“The Member States will have two years to comply with the directive and we hope to see anti-SLAPP legislations transposed on-time in all countries and going beyond the minimum guarantees provided by this text. The seriousness of the problem requires European governments to be more ambitious as SLAPPs mushroom across the European Union. We also expect the forthcoming Council of Europe Recommendation to provide further guidance,” said EFJ Director Renate Schroeder.
Il suicidio di un ragazzo della Guinea di 22 anni, Ousmane Sylla, avvenuto oggi nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria a Roma, è l’ennesima morte causata da un sistema di detenzione illegittimo ed inumano. Un sistema che non solo priva le persone della propria libertà personale senza aver commesso alcun reato ma che consente, anche, di fare profitto sulla loro pelle”. Questo il commento della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD), che prosegue:
“I CPR sono dei buchi neri dove i diritti, anche quelli più elementari – alla salute, alla difesa legale, alla comunicazione – sono negati. Dove le persone sono detenute, per mesi, in condizioni indegne, invisibili alla società civile che per entrare in questi Centri ha bisogno di autorizzazioni specifiche di Prefetture sempre più restie a concederle. Rendendo quindi questi luoghi completamente opachi.
Di più, questi Centri sono anche affidati alla gestione di privati, che fanno profitti sulla privazione della libertà di esseri umani: a Ponte Galeria l’ente gestore è la multinazionale elvetica Ors, l’unica ad avere anche – almeno fino al giugno scorso – una società di lobbying che ne tuteli gli interessi in Parlamento.
Nonostante le denunce della società civile, le indagini della Procura che stanno riguardando il CPR di Milano, il Governo ha aumentato i tempi di permanenza fino a 18 mesi, affidato la gestione di nuovi Centri al genio militare e stretto un accordo con l’Albania per la costruzione di un CPR nel paese balcanico, ancor più lontano dagli occhi.Riteniamo, invece, che questi luoghi vadano immediatamente chiusi e pretendiamo che si faccia chiarezza sul suicidio di Ousmane Sylla. Dopo questa ennesima morte, si stanno verificando delle proteste da parte dei detenuti nel CPR di Ponte Galeria che si sommano a quelle già verificatesi in altri Centri per le condizioni di detenzione: da Trapani a Gradisca d’Isonzo. Sappiamo bene che vi è il rischio di violente repressioni di queste proteste e di repentini rimpatri dei detenuti che hanno assistito alla morte di Sylla e che ora stanno denunciando l’accaduto. Continueremo a vigilare su quanto sta accadendo nel CPR di Roma e a batterci per porre definitivamente fine a questa ignobile forma di detenzione.
Invitiamo anche il Comune di Roma a farsi carico di quanto sta accadendo nel CPR presente sul proprio territorio, richiedendone la immediata chiusura e avviando una “Commissione di indagine conoscitiva”, sul modello di quanto fatto a Bologna nel 2006. Una Commissione permanente che veda la partecipazione dei Garanti locali e delle associazioni attive sul territorio, per verificare le condizioni di detenzione nel Centro di Ponte Galeria”.
Amnesty International ha sollecitato gli Stati europei a fermare immediatamente i trasferimenti di rifugiati e richiedenti asilo del Caucaso del Nord verso la Russia, a causa del rischio di subire maltrattamenti e torture e di essere costretti ad andare a combattere nella guerra di aggressione contro l’Ucraina.
In una ricerca pubblicata oggi, dal titolo “Europa: il punto di non ritorno”, Amnesty ha denunciato che alcuni stati europei – tra i quali Croazia, Francia, Germania, Polonia e Romania – hanno estradato o stanno cercando di estradare richiedenti asilo fuggiti dalla persecuzione nel Caucaso del Nord e in cerca di salvezza in Europa.
“È scandaloso che, nonostante abbiano dichiarato di aver sospeso ogni forma di cooperazione giudiziaria con la Russia, a seguito della sua invasione dell’Ucraina, diversi stati europei stiano minacciando di rimandare persone nel Caucaso del Nord, esattamente nei luoghi dai quali erano fuggite a causa della persecuzione. Gli stati europei devono riconoscere che molte di queste persone, in caso di rimpatrio, rischierebbero arresti, rapimenti, maltrattamenti e torture, nonché l’arruolamento forzato”, ha dichiarato Nils Muiznieks, direttore di Amnesty International per l’Europa.
“La situazione, per coloro che sono fuggiti dal Caucaso del Nord, è notevolmente peggiorata a causa del deterioramento della situazione dei diritti umani in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Vanno incontro a torture, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie senza che nessuno sia chiamato a risponderne. Storicamente, negli stati europei, queste persone sono stigmatizzate e prese di mira con provvedimenti di espulsione e rimpatrio”, ha aggiunto Muiznieks.
Nel Caucaso del Nord, soprattutto in Cecenia, la situazione dei diritti umani è pessima. Chiunque esprima critiche, prenda parte ad attività in favore dei diritti umani e appartenga o venga percepito come appartenente alla comunità Lgbtqia+, rischia di essere colpito e lo stesso accade ad amici e parenti.
“Ti catturano in strada e hai due opzioni: vai in galera per 10 anni o cerchi di fuggire. Nelle prigioni cecene, è come se non esistessi più. Ma almeno puoi uscirne dopo 10 anni. Sempre meglio che essere arruolati, combattere e morire”, ha dichiarato ad Amnesty International un richiedente asilo della Cecenia.
Il ritiro della Russia dalla Convenzione europea dei diritti umani e la repressione in atto contro gli osservatori indipendenti sulla situazione dei diritti umani hanno enormemente aumentato il rischio di violazioni e hanno privato le vittime di importanti possibilità di chiedere giustizia.
I rischi sono aumentati dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre contro il sud d’Israele e dopo i bombardamenti israeliani a Gaza e i sempre più violenti attacchi, con arresti e uccisioni, contro i palestinesi della Cisgiordania occupata.
Il presidente Macron ha inoltre autorizzato il suo ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, a negoziare con le autorità russe i possibili trasferimenti. Ne sono in programma almeno 11.
“Da anni i governi e le istituzioni europee ignorano o sminuiscono i gravi rischi cui va incontro chiunque venga rimpatriato nel Caucaso del Nord. Questi rischi sono ora ancora più acuti ed è incomprensibile usare il pretesto delle tensioni in Medio Oriente per giustificare il ritorno in Russia dei richiedenti asilo”, ha sottolineato Muiznieks.
“I governi europei devono fermare immediatamente tutti i trasferimenti in Russia di persone che rischiano di subire torture o altre violazioni dei diritti umani e riconoscere che tali rischi sono assai più alti per le persone del Caucaso del Nord. L’Europa deve valutare in modo corretto i loro bisogni di protezione, alla luce della pessima situazione dei diritti umani in Russia e della guerra in corso contro l’Ucraina”, ha concluso Muiznieks.
Paola Barretta
L’intervento di apertura di Carlo Bartoli alla conferenza stampa annuale, appuntamento con la Presidente del Consiglio organizzato dall’Ordine dei giornalisti e dalla Associazione Stampa Parlamentare
“In questa sala ci sono alcuni banchi vuoti: per la prima volta nella storia decennale di questo tradizionale appuntamento la Federazione nazionale della stampa ha inteso disertare per protesta la conferenza stampa. Una protesta che nella sostanza condivido. Ci allarma, infatti, l’approvazione avvenuta nei giorni scorsi di un emendamento che rischia di far calare il sipario sull’informazione in materia giudiziaria. Ci preoccupano, a questo proposito, certe espressioni ingiuste e calunniose di alcuni parlamentari.
L’Italia da anni è sotto osservazione delle istituzioni europee per l’elevata mole di azioni giudiziarie intimidatorie contro i giornalisti. Per questo chiediamo di ripensare a fondo la riforma della diffamazione in discussione al Senato; una proposta che non disincentiva in maniera seria le liti temerarie e comprime invece, a nostro avviso in maniera ingiustificata, il diritto dei cittadini a un’informazione libera e approfondita. Speriamo che il Parlamento non ripeta l’errore commesso nella scorsa legislatura, quando ha approvato le norme sulla cosiddetta presunzione di innocenza: un principio sacrosanto che la legge non ha saputo difendere, ma la cui applicazione ha prodotto l’oscuramento di tantissime notizie di cronaca.
Per fortuna, recentemente la Corte di Cassazione in una chiarissima sentenza ha difeso e valorizzato il giornalismo di inchiesta. Siamo anche soddisfatti delle recenti modifiche apportate dall’Europa al Media Freedom Act a tutela dei giornalisti che non possono e non devono essere intercettati mentre svolgono il loro lavoro come purtroppo è accaduto in Italia e come è stato rivelato pubblicamente nei giorni scorsi.
Guardiamo all’Europa, alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, alla Corte Costituzionale, alla Cassazione, ma dobbiamo prendere atto di essere descritti, da alcuni esponenti del ceto politico, come speculatori che lucrano sulle disavventure giudiziarie.
Quest’anno abbiamo ricordato i 60 anni dell’Ordine. Non una autocelebrazione, ma un momento di riflessione sulla storia del giornalismo italiano, sul suo presente e sul suo futuro. Una riflessione che ci porta a chiedere ancora una volta che il Parlamento approvi una riforma della professione che attendiamo da diversi decenni. Nell’epoca dell’Intelligenza artificiale siamo ancora inchiodati a norme pensate e approvate il secolo scorso. Abbiamo presentato la nostra proposta, unanime, speriamo di avere l’ascolto delle istituzioni.
Questo governo si è mosso in maniera efficace nel sostegno all’editoria, in particolare nel comparto delle agenzie di stampa; un’azione importante, ma occorre fare ancora di più. È indispensabile un grande progetto di rilancio dell’industria dell’informazione. E agli editori diciamo che la strada del progresso e quella della precarietà si muovono in direzioni opposte; c’è troppo lavoro povero. Troppi compensi assomigliano più a un’elemosina che a una retribuzione. Esprimo solidarietà alle colleghe e ai colleghi dell’Agenzia DIRE per la difficile situazione in cui si trovano tra licenziamenti e sospensioni.
Con l’avvento dell’Intelligenza artificiale, l’Italia deve scegliere se accettare di essere tagliata fuori dal grande mercato internazionale della cultura e dell’informazione o cercare di riguadagnare un ruolo in quell’ambito nel quale si produrrà e distribuirà una fetta rilevante della ricchezza planetaria. Per farlo, occorre un’alleanza di tutti i soggetti in campo: Governo, Parlamento, autorità regolatorie, editori, nuove professionalità, giornalisti. Noi ci siamo, ma occorre fare prestissimo.
Del resto, anche editori e giornalisti sono chiamati in causa in una vicenda che, come ha ricordato il Presidente della Repubblica, mette in gioco il futuro della democrazia. Dobbiamo adottare una seria autoregolamentazione, a partire dalla trasparenza in materia di Intelligenza artificiale. I nostri lettori e ascoltatori devono sapere se e in quale proporzione i nostri contenuti sono costruiti con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale. Trasparenza e tracciabilità dei contenuti, oltre a responsabilità e deontologia, devono rappresentare i caratteri che ci distinguono rispetto quanto viene immesso in rete sotto forma di sedicente informazione.
Gentile presidente, in questi decenni, i giornalisti non hanno esitato a rischiare la vita, e talvolta a perderla, per raccontare i delitti della mafia, i soprusi e le violenze, i crimini di guerra, gli stermini. Testimoni scomodi e poco amati, spesso divenuti bersaglio nei momenti di forte tensione sociale e negli scenari di guerra. Anche se qualcuno oggi cerca di dimenticarlo o sottovalutarlo.
Questa è la nostra storia, storia di cui siamo orgogliosi; queste sono le nostre radici innervate nei valori della Costituzione ed ispirate ai principi internazionali che ci richiamano, come cittadini e come giornalisti, ad operare in difesa della libertà e del rispetto dei diritti umani, contro ogni discriminazione”.
Per la prima volta, la Segretaria e il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana hanno deciso di non partecipare alla conferenza stampa, in segno di protesta per l’emendamento Costa – approvato dal Senato con parere favorevole del governo – che restringe il diritto di cronaca.
La presidente Giorgia Meloni ha affermato che la norma Costa farebbe tornare la disciplina dell’articolo 114 del Codice di procedura penale a prima della riforma Orlando. Così dicendo, però, al di là dei giochi di parole, la premier non ha potuto non riconoscere che il disegno di legge presentato dal deputato di Azione e votato dalla Camera rappresenta una involuzione rispetto alla riforma del 2017 che ha espressamente consentito la pubblicazione delle ordinanze cautelari, che sono atti necessariamente conosciuti dalle parti.
Per la Fnsi, «la norma bavaglio, su cui sarà chiamato a pronunciarsi il Senato, rappresenta un passo indietro non solo per il diritto di cronaca, ma anche nella tutela dell’indagato. Si obbligano infatti i giornalisti a riportare solo sintesi e notizie de relato, senza potersi affidare alla precisione degli atti giudiziari. La strumentale distorsione del garantismo penale non può certo costituire l’alibi per una inaccettabile involuzione democratica».
La Fnsi chiede al governo e al Parlamento di non procedere all’approvazione definitiva.È una norma in contrasto con sentenze Cedu, e imbavaglia il diritto dei cittadini a sapere.
L’Asgi ha scritto in un documento diffuso nei giorni scorsi che sarebbe incostituzionale non sottoporre al Parlamento il Protocollo italo-albanese: i contenuti rientrano tra i casi in cui l’art. 80 Cost. prescrive che sia preventivamente approvata dal Parlamento una legge di autorizzazione alla loro ratifica.
Il 21 novembre 2023, contrariamente con quanto inizialmente dichiarato alla stampa, il Governo ha annunciato che intende sottoporre in tempi rapidi alle Camere un disegno di legge di ratifica che contenga anche le norme e gli stanziamenti necessari all’attuazione del protocollo.
In contemporanea alle comunicazioni in Aula da parte del ministro degli Esteri, con il Tavolo Asilo e Immigrazione, in una conferenza stampa, abbiamo presentato le ragioni per le quali il Parlamento debba votare contro il disegno di legge di ratifica.
L’Asgi ha analizzato il testo del Protocollo Italia-Albania, evidenziandone illegittimità costituzionali e violazioni delle normative vigenti e concludendo :”Le numerose ambiguità e illegittimità che caratterizzano il Protocollo fanno concludere che non possa essere ratificato in Parlamento. Qualora lo fosse molte delle relative norme italiane potranno essere dichiarate in tutto o in parte costituzionalmente illegittime“.
Appello della società civile europea e le organizzazioni nazionali
Il Regolamento Screening è una delle principali proposte di riforma introdotte con il Patto Europeo e i negoziati per l’adozione del regolamento sono attualmente in corso. Uno degli articoli del nuovo regolamento (l’articolo 5) consentirà agli Stati di svolgere accertamenti nei confronti di persone sospettate di essere prive di documenti in qualsiasi occasione all’interno del territorio.
Il rischio è creare un ambiente ostile in cui le minoranze – siano esse cittadini dell’UE o individui con uno status di residenza regolare o irregolare – si troverebbero ad affrontare un rischio maggiore di essere oggetto di controlli discriminatori e potenzialmente detenuti senza adeguate garanzie.
Come già segnalato al Comitato per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali (CERD), gli episodi di discriminazione basati sulla profilazione etnica non costituiscono incidenti isolati, ma delineano un quadro di razzismo sistemico che viola il principio di non-discriminazione sancito dall’art.3 della Costituzione e vari obblighi internazionali.
ASGI e le principali reti della società civile europea e le organizzazioni nazionali:
Corte di Cassazione: “Chi entra in Italia ha diritto all’informativa completa ed effettiva sull’asilo dal primo contatto con la polizia”
Non bastano le informazioni contenute nel cd. foglio notizie sbarco né la clausola di stile abitualmente inserita nei decreti di respingimento.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, con la sentenza n. 32070 del 20 novembre 2023. La Corte ha stabilito principi di estrema importanza in tema di diritto all’informativa in materia di protezione internazionale, collocandone l’adempimento sin dal primo contatto con le forze di polizia di frontiera e ponendo, conseguentemente, tale diritto all’interno del più ampio quadro normativo relativo anche al diritto all’accoglienza dei richiedenti asilo.
La pronuncia, con estrema chiarezza e linearità, corona un ragionamento sviluppato da tempo anche dalla nostra associazione.
È stato firmato oggi dal Comune di Milano e da UNHCR, Agenzia ONU per i rifugiati, nell’ambito della City to city visit presso WeMi inclusione a Milano, un protocollo di intesa volto a promuovere e favorire l’integrazione delle persone rifugiate sul territorio. Con la firma di Chiara Cardoletti, Rappresentante di UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, alla presenza dell’assessore al Welfare e Salute Lamberto Bertolé, si rende ufficialmente attivo il documento siglato precedentemente dal Sindaco di Milano Giuseppe Sala.
“Siamo estremamente soddisfatti della risposta del Comune di Milano all’appello di UNHCR per la costruzione una rete di città che si impegnano a fare la differenza nell’integrazione sociale, culturale ed economica delle persone rifugiate nella società italiana. – Dichiara Chiara Cardoletti, Rappresentante di UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino – Crediamo fermamente che la città di Milano possa sostenere politiche e programmi che abbiano un impatto concreto sulla vita delle persone rifugiate e sulle comunità che le accolgono, valorizzando il contributo delle prime, come risultato di un processo dinamico fondato sulla partecipazione.”
Il Comune di Milano si allinea quindi ai Comuni di Bari e Napoli che hanno già siglato simili Protocolli di intesa con l’UNHCR che prevedono azioni coordinate volte a favorire l’integrazione delle persone rifugiate, promuovendo un accesso più semplice ed efficiente ai servizi disponibili sul territorio.
“Siamo convinti – dichiara l’assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano Lamberto Bertolé – che, per affrontare al meglio i processi migratori e coniugare le esigenze dei territori con i bisogni dei rifugiati, gli enti locali debbano essere protagonisti di processi d’integrazione costruiti in maniera non più emergenziale, ma strutturale. Per questo abbiamo costruito un luogo fisico dove chi arriva in città possa trovare in un unico punto ascolto, orientamento e una risposta il più completa possibile. Avere l’occasione di condividere i risultati del nostro lavoro con le altre città è per noi uno strumento prezioso di miglioramento e crescita che UNHCR ci mette a disposizione”.
Il protocollo contempla il potenziamento e lo sviluppo dei servizi attivi a WeMi inclusione per l’accoglienza, l’integrazione e la promozione della partecipazione nel Comune di Milano, puntando sulla cooperazione tra sistema d’accoglienza, servizi territoriali e attori istituzionali e privati coinvolti nei processi d’integrazione.
Tre gli approcci d’intervento privilegiati: il coinvolgimento di tutta la società (whole-of-society), la costruzione di reti di fiducia attraverso il programma di Community Matching, e lo sviluppo del modello di Spazio Comune, programma sviluppato dall’UNHCR nel 2022 che prevede centri multiservizi e polifunzionali dove sono concentrati i servizi fondamentali per l’integrazione delle persone rifugiate, spazi aperti e facilmente accessibili dove i rifugiati possono trovare risposte ai propri bisogni di integrazione nelle comunità che li accolgono.
Milano, insieme a Bari, Napoli, Palermo Roma e Torino ha sottoscritto la Carta per l’Integrazione delle persone rifugiate, documento che mira a potenziare la collaborazione fra le città sull’integrazione delle persone titolari di protezione internazionale, favorendo lo scambio di pratiche, esperienze, strumenti e sviluppando i servizi già disponibili sui territori.
L’Agenzia ONU per i rifugiati è al fianco dei Comuni italiani, il cui ruolo centrale nei processi di integrazione vuole essere riaffermato e supportato tramite eventi come City to City e la costante e quotidiana collaborazione con l’UNHCR.
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Un blocco navale per fermare gli arrivi di migranti verso l’Italia. E’ il piano proposto da Giorgia Meloni in vista delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre. “Il blocco navale che propone Fratelli d’Italia è una missione militare europea, realizzata in accordo con le autorità libiche, per impedire ai barconi di immigrati di partire in direzione dell’Italia. Non si tratta di respingimenti, perché questi avvengono in mare aperto” si legge sul sito del partito di destra. Ma la proposta di un blocco navale è realizzabile davvero?
Stando all’articolo 42 dello Statuto delle Nazioni Unite il blocco navale non può essere attivato unilateralmente da uno Stato se non nei casi di legittima difesa, e cioè in caso di aggressione o guerra. Il contrasto all’immigrazione non rientra in nessuna delle fattispecie previste e dunque sarebbe illegale. Anzi, potrebbe essere equiparato a un atto di guerra da parte del nostro paese.
“Il blocco navale è un istituto preciso, regolato dal diritto di guerra e in questo momento c’è una guerra interna in Libia ma non c’è una guerra internazionale né contro l’Italia né contro l’Unione europea, quindi non ci sono i presupposti per evocare questa misura – spiega a Redattore Sociale Irini Papanicolopulu, professoressa associata di diritto internazionale all’università di Milano Bicocca – . Inoltre, non esiste un blocco navale concordato con il paese contro cui si fa. Ci sono casi specifici in cui può essere attuato, come nel caso di un conflitto armato, ma questo presuppone la perdita di neutralità da parte di chi lo opera. E’ a tutti gli effetti un atto ostile contro lo Stato verso cui si fa. E’, dunque, attualmente irrealizzabile”.
Secondo Papanicolopulu c’è probabilmente una confusione terminologica, si parla di “blocco navale” intendendo però “un’operazione di interdizione”. Che, però, allo stesso modo è possibile attuare solo ad alcune condizioni. “Nello specifico – spiega la docente – un’operazione di interdizione per fermare i migranti sarebbe contraria agli obblighi internazionali sia relativamente al diritto del mare che ai diritti umani”.
Nel 1997 l’allora governo Prodi mise in atto un’operazione per bloccare il flusso di profughi dall’Albania. L’operazione, chiamata impropriamente blocco navale, era realizzata di concerto con le autorità albanesi. Ma il 28 marzo dello stesso anno un’imbarcazione, la Kater I Rades, venne speronata dalla nave Sibilla della marina militare italiana nel tentativo di ostacolarne il passaggio. A bordo c’erano circa 150 persone, 83 persero la vita in mare. La tragedia, che rappresenta una delle pagine più buie della storia recente italiana, contribuì ad aprire un dibattito sui limiti del controllo delle frontiere da parte degli Stati. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parlò di un blocco illegale da parte dell’Italia. E la misura venne sospesa.
“Anche l’operazione di interdizione navale è un istituto particolare che, proprio per il suo contenuto, può andare contro il diritto internazionale. In particolare va contro la libertà dei mari, cioè di navigazione, un principio secolare sancito dal diritto internazionale moderno – aggiunge la docente -. Solo in casi ben specifici e disciplinati dagli Stati si può fare. Tra le criticità c’è anche il diritto di passaggio inoffensivo nelle acque territoriali e la concreta liceità delle misure. In secondo luogo bisogna considerare la questione del rispetto dei diritti umani: c’è un trattato internazionale di cui fa parte perfino la Libia, il patto internazionale dei diritti civili e politici, che sancisce il principio per cui chiunque può lasciare un paese incluso il proprio”.
Non solo, ma ricorda Papanicolopulu, rispetto al 1997 la situazione è cambiata: “In questi vent’anni c’è stato uno sviluppo delle norme, diverse sentenze e trattati internazionali hanno offerto dei chiarimenti e ora il quadro è molto più definito, oltre ai principi generali abbiamo anche norme attuative che stabiliscono specifiche condizioni e limiti”.
E poi quali navi potrebbero passare e quali no? Cosa si fa con le navi mercantili? Inoltre, si potrebbe creare anche una situazione paradossale per il centrodestra: qualsiasi nave, anche da difesa, se incontra un’imbarcazione in distress ha l’obbligo di soccorso. E, dunque, se le navi chiamate a difendere i confini incontrassero un barchino carico di migranti in difficoltà sarebbero obbligate a prestare aiuto e a portare le persone nel porto più sicuro di sbarco. L’ipotesi di blocco navale o interdizione navale potrebbe così trasformarsi in una novella missione Mare nostrum. In caso contrario il nostro paese andrebbe incontro a nuove condanne: solo un mese fa la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Grecia per un respingimento (e mancato soccorso) in mare.
Proprio per le polemiche nate dall’evocazione del “blocco navale” (su cui non si è detta d’accordo neanche la Lega) la stessa Giorgia Meloni in questi giorni ha cercato di spiegare la sua proposta, aggiustando il tiro: “Il tema degli sbarchi si deve affrontare col blocco navale, che altro non è che una missione europea, da concordare con le istituzioni europee, per trattare insieme alla Libia la possibilità che si fermino i barconi in partenza, l’apertura in Africa degli hotspot, la valutazione in Africa di chi ha diritto a essere rifugiato e di chi è irregolare, la distribuzione dei veri profughi e rispedire indietro gli altri. Occorre smetterla di considerare profughi e irregolari la stessa cosa: è una falsità costruita in questi anni dalla sinistra”, ha spiegato in una recente intervista a Studio Aperto.
L’obiettivo sembra dunque quello di rafforzare il Memorandum tra Italia e Libia, realizzato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni, con l’aggiunta di hotspot per selezionare i richiedenti asilo nei paesi di transito extra europei. Una proposta che però contiene anch’essa dei limiti. “Questo tipo di proposte hanno tutte un retropensiero non espresso ma evidente: che si possa impedire il diritto di asilo come diritto di accesso individuale al territorio, selezionando i ‘veri rifugiati’ e bloccando le frontiere – spiega Gianfranco Schiavone, membro Asgi -. L’ipotesi è quello di un blocco navale realizzato sotto altre forme più o meno legali, ma tra l’ipotesi iniziale e quella apparentemente più ragionevole c’è una continuità di pensiero. Invece il diritto d’asilo prevede sempre il diritto di accesso al territorio dello Stato in cui si vuole chiedere protezione”.
Secondo Schiavone l’unica cosa che si può realmente fare è mettere in pratica procedure per facilitare l’ingresso dei richiedenti protezione internazionale, rilasciando visti umanitari. “Va esclusa la possibilità di un esame delle domande di asilo al di fuori del territorio in cui uno stato esercita la propria giurisdizione perché in tale contesto la domanda non può essere esaminata con tutte le garanzie necessarie, si pensi al diritto ad un ricorso effettivo – spiega -. Ciò che si può e si deve fare è riformare l’attuale normativa in modo da prevedere la presentazione di una domanda di asilo all’estero, si pensi a situazioni di chiaro pericolo, e il rilascio di visti di ingresso umanitari per il successivo pieno esame delle domande in Italia. Questa riforma ridurrebbe il numero di coloro che sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per giungere in Italia e chiedere protezione. I paesi di transito però sono paesi dove ci sono scarse garanzie di rispetto dei diritti- aggiunge -. In Libia, poi, sarebbe impensabile un’ipotesi del genere”.
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