Di Laura Zanfrini su Avvenire
Nell’edizione di ieri della Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Decreto Flussi 2021, firmato sul filo di lana a fine anno dal presidente del Consiglio Draghi, che fissa in 69.700 gli ingressi di lavoratori stranieri: un numero inferiore alla bozza circolata, ma più che raddoppiato rispetto alle quote degli ultimi anni e con una timida apertura verso il lavoro non stagionale con riferimento ai settori (trasporto, edilizia, turistico-alberghiero) che denunciano difficoltà nel reclutamento di personale. Peraltro, le 27.700 quote non stagionali andranno ripartite tra gli oltre 30 Paesi sottoscrittori di accordi elencati nel decreto e saranno in parte assorbite dalle conversioni di permessi già rilasciati per altri motivi. Questo – insieme alla “promessa” di possibili ulteriori decreti nei prossimi mesi – è probabilmente il massimo che si poteva fare con un governo composito come l’attuale e in un quadro ancora molto compromesso dalla pandemia.
Ancora una volta, il provvedimento ha visto la luce secondo la logica della “programmazione transitoria” e in assenza del documento programmatico cui il testo unico sull’immigrazione affidava, tra le altre finalità, quella di individuare i criteri generali per la definizione dei flussi in ingresso. L’ultimo documento di cui si ha notizia è relativo al triennio 2007-2009, rimasto eternamente “in fase di elaborazione”. Da allora, nessuno dei governi che si sono succeduti ha voluto cimentarsi nel compito, politicamente audace, del governo delle migrazioni economiche, e tutti hanno finito col ridurre la questione al contrasto dell’immigrazione irregolare.
I limiti delle procedure in vigore (a partire dalla loro rigidità, distante da un mercato del lavoro sempre più flessibile); quelli che derivano dalle scelte – o non scelte – nella loro applicazione; quelli, infine, relativi al contesto in cui gli schemi migratori si trovano a operare (dalla diffusione del lavoro irregolare ai deficit nella intermediazione istituzionale tra domanda e offerta di lavoro) hanno concorso al fallimento del sistema di programmazione dei flussi, facendo dell’Italia un caso “esemplare” del disallineamento tra il piano delle politiche e quello dei concreti processi migratori e di inclusione.
Mentre le più importanti agenzie internazionali non cessano di ricordare come le migrazioni, se adeguatamente gestite, possano rappresentare un vantaggio per tutti gli attori coinvolti, tale disallineamento risalta come dato comune perfino ai Paesi tradizionalmente considerati dei punti di riferimento in materia. In particolare, milioni di posti di lavoro essenziali sono occupati, in Canada come negli Stati Uniti e nella stessa Europa, da immigrati undocumented titolari di permessi temporanei, studenti e tirocinanti stranieri, richiedenti asilo diniegati. La necessità di politiche innovative, sostenibili nel lungo periodo, capaci di rispondere anche al consistente fabbisogno di lavoro a bassa qualificazione garantendo i diritti dei lavoratori è dunque auto-evidente. Tanto più in Italia, dove i modelli di inclusione prevalenti sono decisamente inadeguati ad agganciare una ripresa la cui cifra dovrà essere la qualità in senso lato del lavoro.
Governare le migrazioni economiche implica gestire una serie di bilanciamenti: si tratta di far convivere la dimensione economica della programmazione con la dimensione politica (in particolare, l’esigenza di offrire canali legali che scoraggino i flussi irregolari); la richiesta di rispondere a fabbisogni contingenti e spesso appiattiti sui lavori a bassa qualificazione con quella di promuovere modelli d’integrazione sostenibili nel lungo periodo; la necessità di dotarsi di regimi migratori coerenti col ruolo dell’Italia nello scenario internazionale (in particolare euro-africano) con quella di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro delle ampie componenti della popolazione residente (inclusa quella immigrata) che ne sono escluse; e, ancora, la dimensione tecnico-procedurale della programmazione – che richiede schemi migratori flessibili, che rispondano rapidamente alle richieste di persone e mercato – con il carattere politico, nel senso nobile del termine, del governo dell’immigrazione, che come tale incorpora una visione sul futuro.L’auspicato ridisegno delle politiche migratorie non può allora essere disgiunto dal compito di ripensare i regimi di accumulazione, le reti di produzione e distribuzione del valore e i modelli di riproduzione sociale cogliendone, proprio attraverso la “lente” dell’immigrazione, tutte le criticità. Basterebbe citare l’esempio del lavoro per le famiglie – da sempre il comparto più etnicizzato del mercato del lavoro italiano – per comprendere come la gestione delle migrazioni va integrata con l’insieme di interventi, a vari livelli, necessari per affrontare quella che l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) ha definito la «crisi globale della cura». Il governo e la governance delle migrazioni devono dunque diventare parte integrante di quel grande cantiere di innovazione economica e sociale che si sta aprendo nella scia del Pnrr, secondo le indicazioni contenute nella stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Immagine in evidenza di Agenzia Ansa
Di Alessandra Vescio su Valigia Blu
Il 28 novembre 2021 sulla versione online di Il Giornale è stato pubblicato un articolo dal titolo “In Europa vietato dire “Natale” e perfino chiamarsi Maria”. Con toni allarmistici e strabiliati, il pezzo descriveva un documento della Commissione Europea sulla comunicazione inclusiva di cui la testata diceva di essere entrata “in possesso in esclusiva”. Il documento in questione è una raccolta di linee guida destinata allo staff della Commissione, pubblicato il 26 ottobre 2021 e promosso dalla Commissaria all’Uguaglianza dell’Unione Europea Helena Dalli.
Diffusa con licenza Creative Commons, e dunque non un’esclusiva di una testata ma disponibile a essere riutilizzata e condivisa da chiunque, questa raccolta di linee guida è nata con lo scopo di fornire delle indicazioni a chi lavora nella Commissione Europea e stabilire degli standard comuni e condivisi per utilizzare un metodo e un linguaggio inclusivi. Nell’introduzione a questo documento, infatti, si legge: “Tutte le persone all’interno dell’Unione Europea hanno il diritto intrinseco di essere trattate alla pari, e dunque di essere incluse e rappresentate, a prescindere dal genere, dalle origini o dall’etnia, dalla religione o dal credo, dalla disabilità, età o orientamento sessuale”, per cui è fondamentale che proprio l’Unione “dia il buon esempio” anche con il linguaggio, che è una delle componenti attraverso cui passa e si manifesta il rispetto delle identità.
Diviso per argomenti e con tanto di checklist a cui fare riferimento per assicurarsi di aver utilizzato un approccio realmente inclusivo, il documento offre suggerimenti e indicazioni allo staff della Commissione per la preparazione di comunicazioni interne o di cartelle stampa, per l’organizzazione di eventi o per la creazione di contenuti da pubblicare sui social media. Gli aspetti trattati sono il genere, la comunità LGBTIQ, l’etnia, la cultura e il credo, le disabilità, l’età e l’accessibilità online. Per ogni argomento, sono forniti consigli su pratiche da evitare, esempi alternativi e le motivazioni per cui sarebbe importante superare certi modi di porsi e di dire. Tra le indicazioni si legge, ad esempio, che si dovrebbe evitare di rivolgersi alla propria audience di default al maschile (quello che nella lingua italiana è conosciuto come “maschile sovraesteso”) e provare a trovare dunque delle soluzioni che siano più comprensive, così come si propone di non sminuire o ignorare il contributo delle donne, rappresentandole per esempio sempre e prima di tutto come madri. Nel capitolo sulla comunità LGBTIQ, le linee guida suggeriscono di non presumere né dare per scontato l’orientamento sessuale di una persona, di rivolgersi alle persone transgender e non binarie con i pronomi e il genere con cui si identificano, di non utilizzare un linguaggio che svaluti o non riconosca relazioni che non siano eterosessuali. È importante, si legge sempre nel documento, non distinguere poi le persone solo in sposate e single, ma offrire rappresentazioni di nuclei familiari diversi, come i genitori single, le coppie senza figli/figlie, le famiglie adottive.
Suggerimenti importanti si trovano anche nel capitolo sull’etnia. Qui infatti si legge dell’importanza di fare caso alla diversity durante gli eventi, sia tra le persone speaker di un panel sia nella formazione del proprio team di comunicazione, ma anche della necessità di non rappresentare in maniera pietistica persone provenienti da diversi background etnici e culturali. Evitare un approccio vittimista è consigliato anche nella rappresentazione delle persone con disabilità e in più si invitano le persone destinatarie del documento a non concepire e descrivere la disabilità come unico tratto distintivo dell’individuo. Per quanto riguarda gli eventi invece si consiglia di assicurarsi di poter fornire il servizio della lingua dei segni e scegliere location che siano accessibili a chi è in sedia a rotelle o ha altre disabilità. Nella comunicazione online invece è raccomandato, tra le altre cose, di ricorrere a un linguaggio semplice e accessibile, a font leggibili e, quando necessario, anche a sottotitoli, così da poter raggiungere chiunque con i propri contenuti.
A scatenare però principalmente la polemica sui media italiani, oltre alla proposta di superare la caratterizzazione di genere al maschile e dare voce e rappresentazione a chi non si riconosce nel binarismo di genere, è un fatto piccolissimo, anzi un paio di esempi che le linee guida citano al loro interno. Nel capitolo su culture, stili di vita e credi, infatti, si trova un invito a rispettare religioni e credi differenti ed evitare di presumere che tutte le persone siano cristiane o che tutte le persone cristiane celebrino le festività nelle stesse date. In Europa infatti il cattolicesimo, il protestantesimo e la fede ortodossa, tutte appartenenti alla religione cristiana, sono presenti in maniera sostanziale. Così, invece di dire “Il periodo di Natale può essere stressante”, il documento sulla comunicazione inclusiva della Commissione Europea suggerisce che si potrebbe dire “Il periodo delle feste può essere stressante”, o ancora “per chi celebra il Natale o Hannukkah”. Per le stesse ragioni, le linee guida suggeriscono anche di non ricorrere al nome di battesimo quando si nomina qualcuno ma di chiamarlo per “nome” e di usare nomi di diverse religioni quando si fanno degli esempi o si raccontano delle storie, per cui invece di usare i nomi di “Maria” o “Giovanni” si potrebbe iniziare a usare “Malika” o “Julio”. D’altro canto, stando ai numeri, l’Europa è a tutti gli effetti un territorio multiculturale e multireligioso. Se è vero, infatti, che il 76% della popolazione è cristiana, solo il 33% circa si dice cattolico. Il 7% poi è di fede musulmana e il 15% nel 2020 si è definito non religioso. Inoltre, sempre meno persone sono cristiane, soprattutto in Europa occidentale.
Presentate tutte sotto forma di invito o suggerimento, le proposte del documento europeo hanno dunque lo scopo di dare spazio a quante più voci e identità possibili già presenti in Europa, mentre, secondo Il Giornale, “hanno dell’incredibile” e rappresentano l’ennesimo tentativo di cancellare le radici cristiane. Secondo Il Foglio, invece, che si è più volte espresso contro la cosiddetta cancel culture e la presunta dittatura del politicamente corretto, quella che viene presentata come “inclusione” in realtà è “insipienza”.
In un paio di giorni, i media italiani (dalle testate di destra al telegiornale del servizio pubblico) hanno montato ad arte un caso su queste linee guida e su come la Commissione Europea volesse cancellare il Natale, spalleggiati anche da esponenti della politica come Giorgia Meloni, che su Twitter ha posto il focus sul rischio di cancellazione della storia e dell’identità del nostro paese, e Matteo Salvini, che, esaltando il Natale, ha ironizzato sulle motivazioni alla base del documento europeo. Anche il Vaticano, tramite le parole del segretario di Stato Pariolin, ha espresso preoccupazione: se è giusto l’interesse verso l’azzeramento delle discriminazioni, dice il cardinale, questo non può passare attraverso l’annullamento delle radici e dell’omologazione.
Come abbiamo visto precedentemente, però, le linee guida europee non propongono in nessuno dei capitoli di cancellare le differenze, anzi l’intento è proprio il suo opposto: dare sempre più spazio e riconoscimento alle diversità, “illustrare la diversità della cultura europea e mostrare la natura inclusiva della Commissione verso tutti i percorsi di vita e i credi delle persone europee”, come ha detto la Commissaria all’Uguaglianza Helena Dalli. Rispettare e riconoscere che oltre alle persone cattoliche, ad esempio, esistano anche coloro che professano altre religioni o che si dichiarano atee, non vuol dire cancellare il cattolicesimo e le sue tradizioni, ma più semplicemente non imporre un credo su un altro e fare in modo che quante più persone possibili si sentano viste e rappresentate. Lo stesso discorso vale per le questioni di genere: ricorrere a un linguaggio che non sia sempre declinato al maschile restituisce dignità alle varie identità.
Il 30 novembre 2021, però, a circa due giorni dalla pubblicazione del primo articolo su Il Giornale, Dalli ha affidato a un comunicato stampa la decisione di ritirare il documento sul linguaggio inclusivo: “Sono state sollevate preoccupazioni in relazione ad alcuni esempi forniti nelle Linee Guida sulla comunicazione inclusiva, che come è solito succedere con linee guida simili, è un work in progress”, si legge in un tweet di accompagnamento alla nota.
Un documento per favorire un approccio quanto più possibile scrupoloso, attento, rispettoso e inclusivo sia nelle attività interne della Commissione Europea sia in quelle rivolte all’esterno, e redatto in maniera moderata e con un atteggiamento propositivo, è stato dunque affossato da tendenze conservatrici e provocazioni politiche che, in maniera consapevole, hanno scelto di ingigantire, inventare e manipolare fatti al solo scopo di scatenare una polemica. E la ragione alla base di ciò è sempre la stessa: mantenere uno stato delle cose che dia spazio solo a pochi.
Stupisce dunque che un’istituzione europea, in seguito all’insorgere di polemiche strumentali provenienti oltretutto da un solo paese, abbia messo in qualche modo in discussione quelli che definisce come propri valori fondamentali. Secondo Luca Misculin, giornalista de Il Post ed esperto di questioni europee, però “le ragioni che hanno portato la Commissione a ritirare il documento sono state soprattutto due. La prima ha a che fare con la paura atavica delle istituzioni europee di dare fiato alla propaganda euroscettica e sovranista: soprattutto in Italia, un paese dove secondo gli ultimi Eurobarometri soltanto nell’ultimo anno l’UE ha riguadagnato consensi e fiducia. La seconda si intreccia con la prima. Ursula von der Leyen è espressione di un partito che si chiama, letteralmente, Unione Cristiano-Democratica. E in un paese dal retaggio cattolico-conservatore, in cui i due partiti più popolari secondo i sondaggi sono tradizionalisti e di estrema destra, la Commissione ha preso la scelta verosimilmente più popolare e condivisa con la maggioranza degli italiani (oltre che coerente con la storia personale della Presidente). Lo dimostra fra l’altro anche la presa di posizione dei principali quotidiani, e non solo quelli di destra: assai compatti contro il documento”. Che ci siano delle contraddizioni all’interno dell’Unione Europea, tra paesi che ne fanno parte, valori promulgati e pratiche seguite, è evidente: lo dimostrano ad esempio i recenti fatti e le posizioni sull’immigrazione, ma anche le critiche più volte mosse alle stesse istituzioni europee per la mancanza di diversity nei loro team.
Contraddizioni e strategie politiche che però non fanno altro che generare contraccolpi pericolosi. Per quanto fossero destinate a un uso interno di uno staff e dunque circoscritte a un caso specifico, le linee guida per una comunicazione inclusiva proposte dalla Commissione Europea in qualche modo rappresentavano una posizione ufficiale che promuoveva il rispetto delle diversità. Anche se non volontariamente, la scelta di ritirarle ha portato da un lato ad avallare posizioni ostili a una società inclusiva e dall’altro ad assecondare un giornalismo che contribuisce alla creazione di un clima disinformato e intollerante. Il risultato, come spesso accade in situazioni simili, è un dibattito inquinato e la perdita del focus principale: ovvero che quando parliamo di inclusività, di rispetto delle identità e di spazi da condividere, si sta pur sempre parlando di persone.
Su Rete Nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio
Con una lettera inviata direttamente alla Presidente del Senato, abbiamo espresso ieri tutta la nostra preoccupazione per la possibilità che la votazione odierna di “non passaggio agli articoli” potesse avvenire a scrutinio segreto. E che questa possibilità determinasse lo stop all’esame degli articoli e degli emendamenti del ddl, ovvero lo stop all’iter parlamentare del testo.
La preoccupazione era purtroppo fondata. Con 154 voti favorevoli e 131 contrari (con un rovesciamento di fronti rispetto alle previsioni di chi, ottimisticamente, presagiva un passaggio in aula senza sorprese), il Senato si è infatti espresso per il “non passaggio” agli articoli, decretando così – di fatto – l’affossamento del ddl.
Vista l’importanza sociale del provvedimento in discussione, fino all’ultimo abbiamo chiesto un voto palese per la seduta di oggi in Senato, e auspicato un esito positivo del confronto in aula, che portasse a una rapida approvazione del ddl per dotare anche il nostro Paese di una norma di civiltà e per garantire il rispetto della Costituzione.
Così non è stato, e chi ha voluto questo esito – anche nascondendosi dietro al voto segreto – dovrà in qualche modo risponderne di fronte al Paese, alla società civile, ai propri elettori, e soprattutto di fronte alle persone che, a seguito di questa votazione, non potranno avvalersi di un equo trattamento sul piano giuridico e di una piena cittadinanza sul piano dei diritti civili.
Inutile nasconderlo: si tratta certamente di una sconfitta bruciante per chi subisce discriminazioni per motivi di sesso, genere, identità di genere e abilismo. E quindi è una sconfitta bruciante per la società e la politica tutta, che a causa delle posizioni più retrive di molti sue/suoi esponenti, invece che estendere diritti e tutele – come sarebbe normale che fosse in un paese ‘normale’ – sancisce la liceità di discriminazioni, e quindi di discorsi d’odio e violenze, verso determinate persone e gruppi di persone.
È una sconfitta che lascia amarezza, sconcerto, rabbia. E non potrebbe essere altrimenti, visto il nostro costante e continuo sostegno al ddl Zan, e vista la grande battaglia civile e culturale portata avanti insieme a tante persone, con convinzione e determinazione.
Ma è anche – proprio per questo – una sconfitta che ci chiede, oggi più che mai, di non arretrare di un passo nella difesa dei diritti umani e nel contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. Perché se la maggioranza dei senatori e delle senatrici ha scelto oggi di seguire le istanze più conservatrici di una parte del Paese, noi continueremo a batterci insieme alla società civile contro le discriminazioni e le diseguaglianze formali e sostanziali. E per i diritti di tutte le persone.
Alla cortese attenzione della Presidente del Senato,
Senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati
P.c. alla c.a. dei/delle Capigruppo al Senato
Il 4 novembre dello scorso anno la nostra Rete – cui aderiscono studios* di rilevanza internazionale, università e dipartimenti universitari, e le più importanti realtà che da diversi anni si occupano di mappare, prevenire e combattere i discorsi ed i fenomeni d’odio – salutò con grande soddisfazione l’approvazione da parte della Camera del testo unificato di proposta di legge, con primo firmatario l’On. Zan, denominato ”Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità”.
L’approvazione arrivò, finalmente, dopo la parziale sospensione dei lavori delle Camere dovuta all’emergenza Covid nel corso del 2020, e – soprattutto – dopo che due proposte di legge contro l’omofobia furono sottratte al dibattito parlamentare durante la XVI legislatura, nel 2009 e nel 2013. E fu accolta con grande entusiasmo anche perché l’Italia era molto in ritardo, rispetto a molti altri paesi, nell’accogliere le raccomandazioni delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa e di vari documenti di soft e hard law dell’Unione Europea in tema di diritti umani delle persone LGBTI+ e di contrasto alla misoginia.
Come già avviene in molti paesi, dalla Francia alla Germania, dall’Austria alla Svizzera, il disegno di legge Zan propone – come è noto – la perseguibilità di reati motivati da stigma (in particolar modo nei confronti delle persone omosessuali, transessuali, e disabili) insieme all’introduzione di strumenti di prevenzione del crimine e di assistenza alle vittime di questi reati. La proposta di legge riguarda infatti l’estensione della punibilità già prevista dagli artt. 604 bis e 604 ter c.p. per le condotte di commissione di atti discriminatori o istigazione alla commissione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi, anche alle medesime condotte per motivi di genere, sesso, identità di genere, orientamento sessuale e disabilità.
Alla luce delle contestazioni, anche plateali, che hanno accompagnato l’iter dell’approvazione nel primo ramo del Parlamento, occorre precisare che il testo approvato dalla Camera non punisce idee, opinioni e manifestazioni di pensiero, bensì condotte: il testo licenziato dalla Camera il 4 novembre del 2020 reprime infatti l’istigazione a commettere reati di discriminazione (i c.d. discorsi che incitano all’odio) e la commissione di reati fondati sulla discriminazione, ossia i comportamenti aggressivi motivati da discriminazione, come chiaramente emerge dalla lettera del disegno di legge, e in particolare dal suo art. 4.
Sottolineiamo inoltre l’importanza degli strumenti di prevenzione e di sostegno alle vittime che sarebbero finalmente introdotti nel nostro ordinamento con la definitiva approvazione del disegno di legge, ovvero: a) la previsione di stanziamenti a favore dei centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere, per prestare assistenza legale, sanitaria, psicologica e materiale alle vittime dei reati di odio e di discriminazione; b) l’inserimento nell’offerta formativa scolastica di programmi di sensibilizzazione nei confronti di questo tipo di discriminazioni; c) il riconoscimento del 17 maggio quale giornata nazionale contro l’omofobia, dedicata alla promozione della cultura del rispetto e dell’inclusione nonché al contrasto dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Come sappiamo dal nostro costante lavoro di monitoraggio e contrasto alle discriminazioni, in Italia esiste un serio problema di discriminazione verso le persone omosessuali, transessuali e disabili, nonché un sistema di arretratezza culturale e sociale nei confronti delle donne che fomenta misoginia, violenze e femminicidi. Una realtà che è sotto gli occhi di tutti, come purtroppo ci ricordano le gravissime aggressioni omofobe che spesso si verificano lungo tutta la Penisola, e l’agghiacciante e pressoché giornaliera cronaca riguardante i femminicidi.
L’approvazione del disegno di legge anche da parte del Senato permetterebbe di dotare la magistratura di norme adeguate e le vittime di una tutela legale dei loro diritti, e consentirebbe finalmente l’avvio di percorsi culturali e sociali volti a rimuovere alla radice i pregiudizi discriminatori.
Come Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e fenomeni d’odio auspichiamo pertanto che il Senato proceda speditamente all’esame del disegno di legge e alla sua approvazione, sia per porre rimedio alla lacuna normativa e alla mancanza di tutela contro i crimini d’odio e i discorsi d’odio con riguardo al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e all’abilismo, sia per attuare il dettato costituzionale della pari dignità delle persone e in ossequio alle Convenzioni europee e internazionali, verso l’affermazione di una cultura del diritto e della prevenzione dei fenomeni d’odio come risposta ferma e duratura al culto della violenza e alle prassi discriminatorie.
Ci preoccupa, tuttavia, la possibilità che la determinante votazione di “non passaggio agli articoli”, che avrà luogo il 27 ottobre 2021, possa avvenire – a seguito di richiesta inoltrata da un gruppo di senatrici e senatori – a scrutinio segreto. Riteniamo, infatti, che l’importanza sociale del provvedimento in discussione giustifichi, da parte Sua, una scelta di prevalenza sul contenuto del decreto che La induca, così come era già avvenuto nella discussione parlamentare riguardo le unioni civili, a negare tale opzione ponendo tutte le forze politiche di fronte ad una chiara presa di posizione di fronte all’elettorato e alla società civile.
Certi che queste nostre brevi annotazioni saranno tenute in considerazione voglia accogliere i nostri più cordiali saluti.
p. Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai crimini d’odio
il coordinatore, Federico Faloppa
Di Giovanni Maria del Re su Avvenire
Quattro ore e mezzo. Tanto è durata la discussione, accesissima, dei 27 leader sulle migrazioni, tema dominante ieri al secondo giorno del Consiglio Europeo. A tener banco anzitutto la questione dei «muri» che dovrebbero – secondo un gruppo di Stati – esser finanziati dall’Ue. I più accesi sono i Paesi dell’Est che confinano con la Bielorussia: il dittatore di Minsk Aleksandr Lukashenko attira sempre più migranti per poi spingerli verso l’Ue, come «arma» contro l’Europa che lo sanziona per la repressione dei dissidenti. La Bielorussia viene citata con la promessa di nuove misure restrittive Ue.
Alcuni Paesi, come Polonia e le Repubbliche baltiche hanno già iniziato a costruire muri al confine. Già un mese fa dodici Stati (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia e Slovacchia) hanno scritto a Bruxelles chiedendo finanziamenti Ue per realizzarli. Ieri sono tornati a farlo. «Abbiamo urgente bisogno di barriere fisiche – ha dichiarato il presidente lituano Gitanas Nauseda – di fronte a quello che fa Lukashenko.
Nessuno sa che cosa accadrà domani, potremmo trovarci di fronte a 3-4-5.000 migranti che provano a passare il confine tutti assieme o in punti diversi». «Abbiamo chiaramente bisogno – ha avvertito anche il neo cancelliere austriaco Alexander Schallenberg – di contromisure alla frontiera, con droni, recinti o qualcosa del genere cofinanziati dall’Ue».
Questi Paesi hanno ottenuto l’aggiunta di un paragrafo-chiave nelle conclusioni del vertice – le cui bozze sono state riscritte varie volte – dalla formulazione ambigua – che cercheranno di vendersi come apertura: si chiede alla Commissione di proporre «i necessari cambiamenti legislativi» al sistema giuridico Ue e «misure concrete sorrette da adeguato sostegno finanziario per assicurare una risposta immediata e appropriata in linea con gli obblighi internazionali, incluso i diritti fondamentali».
In realtà, ha precisato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, «sono stata molto chiara che non ci saranno finanziamenti Ue per fili spinati o muri». Molti altri leader sono contrari, tra cui l’Italia. Su un punto però sono tutti d’accordo: la necessità di «un controllo efficace delle frontiere esterne».
A rischio è la tenuta stessa dell’area senza frontiere di Schengen, messa già a dura prova dalla crisi migratoria del 2015. «Guarderemo alle necessarie misure legali per migliorare la situazione – ha assicurato Von der Leyen – apportando modifiche al codice sullo spazio Schengen che sarà sul tavolo come nuova proposta».
L’altro punto che ha tenuto banco è quello dei movimenti secondari, che preoccupano Stati come Germania, Belgio, Olanda. Soprattutto quest’ultima chiede all’Italia di impedire che i migranti approdati sulle sue coste proseguano poi verso il Nord Europa. Le tensioni sono state forti, alla fine però si è trovato il compromesso. Il testo delle conclusioni afferma sì che «bisogna mantenere gli sforzi per ridurre i movimenti secondari», tuttavia l’Italia ha strappato un’aggiunta importante, e cioè che si tratterà anche di «assicurare un giusto equilibrio tra responsabilità e solidarietà tra Stati membri».
Nel complesso, comunque, l’impressione è che la discussione abbia almeno rafforzato la sensazione dell’urgenza di soluzioni comuni, con l’occhio rivolto al Patto sulla migrazione proposto dalla Commissione Europea e per ora bloccato soprattutto sul fronte proprio della solidarietà e della ridistribuzione dei migranti. «Posso dire – ha dichiarato il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel – che questa volta ho avuto l’impressione che vi fosse una convergenza sempre più ampia».
Di Francesco Bechis su Formiche
A fine giornata c’è il compromesso, e non era scontato. Ma nel comunicato finale manca una parola chiave: solidarietà. Il Consiglio Affari interni straordinario dell’Ue sull’Afghanistan si chiude senza grandi battaglie.
La nota conclusiva si apre con una premessa: a dispetto dell’ultimatum dei talebani, l’evacuazione da Kabul continua: “È in corso un lavoro intenso per identificare soluzioni mirate per i casi specifici rimasti di persone a rischio in Afghanistan”.
Cittadini europei, collaboratori afgani delle forze armate dell’intelligence, o semplicemente persone che rischiano la propria vita. Come le 82 studentesse afgane dell’università de La Sapienza che, ha confermato oggi il ministro della Difesa Lorenzo Guerini al Copasir, il governo italiano cercherà di strappare alle ritorsioni dell’Emirato islamico.
Poi i due grandi nodi, sciolti solo a metà. Il primo: l’accoglienza. Sullo sfondo del Consiglio aleggia lo spettro del 2015, quando una ciclopica ondata di migranti dalla Siria ha trovato impreparata l’Europa e causato un’ecatombe nel Mediterraneo.
Il comunicato dei Paesi Ue non sposa il motto “aiutiamoli a casa loro”, ma ci si avvicina molto. L’Ue vuole aiutare i rifugiati afgani “vicino” a casa loro: Pakistan, Tagikistan, Kirghizistan, Iran, ovunque riescano a trovare riparo. “L’Ue si coordinerà e rafforzerà il suo supporto ai Paesi terzi, in particolare a quelli confinanti e di transito, che ospitano un largo numero di migranti e rifugiati, per rinforzare le loro capacità di offrire protezione, condizioni di accoglienza dignitose e sicure, e uno stile di vita sostenibile per rifugiati e comunità accolte”.
È questa la via di mezzo che ha permesso l’accordo con quei Paesi dell’Europa centro-orientale, su tutti Austria, Lituania e Polonia, che hanno alzato le barricate sull’accoglienza dei rifugiati, complice la pressione elettorale interna. Di qui il passaggio successivo: “L’Ue coopererà con questi Paesi per prevenire l’immigrazione illegale dalla regione, rafforzare la gestione dei confini e impedire il traffico di migranti ed esseri umani”.
L’azione “coordinata e ordinata” dell’Unione ai nuovi flussi migratori si costruirà su tre punti. Controllo delle frontiere con Frontex, aiuti ai Paesi confinanti e “campagne mirate di informazione” per combattere “le narrative usate dai trafficanti”. Oltre ovviamente a controlli serrati dell’Europol per evitare che nella marea di rifugiati si celino terroristi pronti a colpire in Europa. Poi il secondo nodo: gli aiuti finanziari.
La linea di fondo è semplice: i fondi Ue per il sostegno degli afgani non dovranno finire in mano ai talebani. Saranno destinati all’Onu e alle sue agenzie: una garanzia in più per assicurare che i militanti a Kabul non impediscano il loro lavoro umanitario sul campo. Solo così, si legge nella nota, l’Ue potrà “garantire che l’aiuto umanitario raggiunga le popolazioni vulnerabili, in particolare donne e bambini, in Afghanistan e nei Paesi limitrofi”.
Sulla carta l’intesa c’è. E nero su bianco è scritto, con buona pace dei Paesi membri barricadieri, che gli afgani oggi sono “asylum seekers”, rifugiati. Ora inizia la parte più difficile.
Scaduto il termine fissato per l’evacuazione, e partito l’ultimo aereo statunitense, l’aeroporto Hamid Karzai è in mano ai talebani e, ammonisce il Pentagono, attualmente non c’è supporto per aerei in entrata e in uscita da Kabul. A questo punto la palla passa agli Stati membri, che dovranno negoziare singolarmente con i militanti afgani la possibilità di proseguire l’espatrio di connazionali e persone a rischio. C’è chi, come la Germania, ha già attivato i canali. Così hanno fatto anche gli Stati Uniti: secondo la Cnn l’esercito americano ha negoziato un accordo con i talebani per “scortare” all’aeroporto gli americani rimasti sul campo.
Un articolo di Stefano Vespa su Formiche
Uno schiaffo agli egoismi europei a 80 anni dal Manifesto più europeista. Sergio Mattarella ne ha per tutti e su tutto: politica migratoria, accoglienza degli afghani, necessità di strumenti di politica estera e di difesa, antieuropeisti definiti “antipatizzanti”, unione finanziaria, intervenendo con parole raramente così dure al seminario per la formazione federalista europea in occasione dell’80° anniversario del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
La tragedia dell’Afghanistan e le conseguenze sui flussi migratori che nel Mediterraneo stanno nuovamente mettendo l’Italia a dura prova sono sotto gli occhi di tutti. Per il Presidente della Repubblica è “sconcertante” che tutti esprimano solidarietà nei confronti dei diritti degli afghani “che rimangono là” perché “questo non è all’altezza dell’Europa” il cui complesso di valori è il “contributo dell’Europa alla comunità internazionale”. Secondo Mattarella, la perdita di libertà anche in un Paese lontano incide sul resto del mondo proprio perché la libertà e i diritti fondamentali “non sono confinabili in un solo territorio”.
È sull’immigrazione che il presidente è estremamente chiaro: “Si parla tanto di confini esterni dell’Unione, ma la politica migratoria non è mai diventata una politica dell’Unione europea. Questa lacuna non è all’altezza dei ruoli e delle responsabilità dell’Ue”. Alla vigilia di un mese di settembre nel quale il governo italiano tornerà a porre la questione a Bruxelles, Mattarella manda un messaggio diretto: “So bene che molti paesi sono frenati da preoccupazioni elettorali contingenti, ma così si finisce per affidare la gestione delle migrazioni agli scafisti e ai trafficanti degli esseri umani” aggiungendo che bisogna avere la “responsabilità” di spiegare alle pubbliche opinioni che non è ignorando il fenomeno che lo si governa.
Un messaggio diretto alla politica italiana e a tutti i Paesi europei, compresi quelli che pensano di essere lontani dall’origine del problema: “Bisogna spiegare che non tra un secolo ma tra venti-trent’anni la differenza demografica sarà tale da dar vita a un fenomeno migratorio scomposto che non si limiterà ai paesi di riviera ma giungerà in tutto il continente fino ai paesi scandinavi”. Quindi, il fenomeno va governato insieme, anche con le altre parti del mondo, con un “dialogo collaborativo” perché “solo una politica di gestione comune dell’immigrazione può evitarci di essere travolti da un fenomeno incontrollabile”.
La débacle americana, come The Economist ha definito la gestione della crisi afghana da parte di Joe Biden, sta intensificando il dibattito su ruolo della Nato, sulle nuove scelte statunitensi e sulle decisioni che l’Unione deve assumere: “L’Europa deve dotarsi di strumenti di politica estera e di difesa comune” ha detto Mattarella, una scelta che sarebbe “importante anche per gli Usa perché in un mondo in cui i protagonisti internazionali sono sempre più grandi, il protagonista più vicino agli Usa credo debba avere una maggiore capacità operativa”. “L’Afghanistan ha messo in evidenza la scarsa capacità di incidenza dell’Ue sugli event” e anche “le conseguenze del crollo della Siria le ha subite tutte l’Europa”. Ciò non toglie che la Nato resta un “pilastro fondamentale dell’Italia e dell’Europa”.
Per tutti questi motivi, secondo il presidente della Repubblica la Conferenza sul futuro dell’Unione è “un’occasione storica da non perdere” evitando il rischio che venga banalizzata, tradotta in uno scialbo esame della situazione contingente”. L’Unione “non tornerà indietro”, “i gelidi antipatizzanti si diano pace” e tanti strumenti messi in atto negli ultimi tempi, come quelli per reagire alla pandemia, rappresentano una svolta e “resteranno” come il Next generation Eu.
“Occorre trovare una formula che adegui quella della sovranità nazionale” e “una sovranità condivisa è l’unico modo per affrontare le sfide globali e non è una rinuncia”. Un tema scottante considerando le sempre maggiori chiusure avanzate dai Paesi sovranisti e da quelle forze che vi si riconoscono. “In questi anni agli interlocutori stranieri ho detto che i paesi Ue si dividono in due categorie: i paesi piccoli e i paesi che non hanno compreso di essere piccoli, ma cominciano a comprenderlo”. Nel Manifesto di Ventotene è scritto che “l’evoluzione dei rapporti economici mondiali fa sì che lo spazio vitale di un popolo sia ormai il globo: oggi con i mutamenti che conosciamo quella considerazione appare profetica” ha commentato Mattarella, per il quale l’Unione europea “non può avere una moneta unica, una banca centrale e non avere una vera unione bancaria e un vero sistema finanziario unitario. Se così non sarà, quello che abbiamo costruito fino a oggi rischia di essere compromesso da quello che manca”.
L’intervento del presidente rappresenta anche un sostegno agli sforzi di Mario Draghi tesi a organizzare un G20 allargato al massimo così come alle discussioni in atto per la gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo. Un tentativo di superare le polemiche quotidiane in Italia perché solo con un approccio comune ci potrà essere un barlume di soluzione.
Foto in evidenza di Formiche
ASTI, BOICOTTATO IL SINDACO PRO-MIGRANTI (gio, 30 mag 2019 – STAMPA – Autore: FEMIA FILIPPO – Pag. 1)
TRA RIACE E LAMPEDUSA L’EXPLOIT A SORPRESA NEI LUOGHI DELL’ACCOGLIENZA (mar, 28 mag 2019 – MESSAGGERO ROMA – Autore: GIANSOLDATI FRANCA – Pag. 7)
LA CHIESA SBUGIARDATA DAI NUMERI VERI (mar, 28 mag 2019 – LIBERO MILANO – Autore: -, ANTONIO SOCCI – Pag. 1)
DAL VENETO ALLE ISOLE: 3 MILIONI DI VOTI IN PIU’ PER IL CARROCCIO (mar, 28 mag 2019 – LIBERO MILANO – Autore: RUBINI FABIO – Pag. 2)
PORTI CHIUSI, TAV E FIAT TAX IL BOOM NEI LUOGHI CHIAVE (mar, 28 mag 2019 – GIORNALE – Autore: MALPICA MASSIMO – Pag. 13)
MIGRANTI RIACE, LAMPEDUSA E CAPALBIO (mar, 28 mag 2019 – IL FATTO QUOTIDIANO – Pag. 3)
BISOGNA RICOSTRUIRE L’IDENTITA’ E COSTRINGERE SALVINI A GOVERNARE (mar, 28 mag 2019 – IL FATTO QUOTIDIANO – Autore: RANIERI DANIELA – Pag. 5)
BARTOLO “IO IL PIU’ VOTATO MA NON NELLA MIA ISOLA QUI HA VINTO LA PROTESTA.” (mar, 28 mag 2019 – REPUBBLICA – Autore: FRASCHILLA ANTONIO – Pag. 11)
DA RIACE A LAMPEDUSA LA CADUTA DEI SIMBOLI DELL’ACCOGLIENZA (mar, 28 mag 2019 – REPUBBLICA – Autore: CANDITO ALESSIA – Pag. 11)
L’ITALIA LEGHISTA VUOLE SOGNARE IL RITORNO A VECCHIE SICUREZZE (mar, 28 mag 2019 – STAMPA – Autore: FELTRI MATTIA – Pag. 5)
LA SINISTRA PERDE ANCHE A RIACE E LAMPEDUSA (mar, 28 mag 2019 – STAMPA – Autore: ALBANESE FABIO – Pag. 9)
Ricevi aggiornamenti iscrivendoti qui:
Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.
Controlla la tua casella di posta o la cartella spam per confermare la tua iscrizione
Quiz: quanto ne sai di persone migranti e rifugiate?
Le migrazioni nel 2021, il nuovo fact-checking di Ispi
© 2014 Carta di Roma developed by Orange Pixel srlAutorizzazione del Tribunale di Roma n° 148/2015 del 24 luglio 2015. - Sede legale: Corso Vittorio Emanuele II 349, 00186, Roma. - Direttore responsabile: Domenica Canchano.