Hongmu, kosso, keno, o legno venoso. Sono numerosi i termini per definire una delle specie di legname più preziose e minacciate del Sahel conosciuta come rosewood, una varietà di palissandro. Nel sud-ovest del Mali, dove si trova gran parte delle riserve della famiglia dei pterocarpus erinaceus, la popolazione locale sta subendo in silenzio gli effetti di una corsa predatoria a questo tipo di legno di inestimabile valore. Gli alberi possono raggiungere i 300 anni di età e quando vengono feriti a colpi di machete sprigionano un fluido rosso-sangue lungo i bordi interni della corteccia usato come olio essenziale.
IL LEGNO ROSA TRAFFICATO IN MALI
Trafficato in Mali come in molti altri Stati della regione, il rosewood è formalmente protetto dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (Cites) che limita la quantità di piante da abbattere e esportare. Negli ultimi dieci anni, però, il traffico di questo particolare palissandro è aumentato notevolmente.
Il sistema viene gestito da una rete di funzionari governativi nella capitale maliana, Bamako. La destinazione principale è la Cina. « Il legno rosa è un tipo tradizionalmente e culturalmente molto apprezzato nel Paese asiatico – sottolinea Haibing Ma, esperto dell’organizzazione internazionale, Environmental investigation agency (EIA) –. Per questo motivo c’è una domanda quasi insaziabile».
IL RAPPORTO DELL’EIA
Secondo un recente rapporto della Eia, dal 2017 Pechino ha importato oltre mezzo milione di alberi di kosso maliano per un valore di circa 220 milioni di dollari. Un tempo il rosewood veniva abbattuto soprattutto nel sud-est asiatico. A causa del diboscamento eccessivo, nel 1998 le autorità furono costrette a imporre un “Programma nazionale cinese per la protezione delle foreste”. È così che alcuni cinesi legati al crimine organizzato hanno iniziato a prendere di mira l’Africa.
Grazie alla sua resistenza, compattezza e durezza, il legno rosa viene utilizzato per la fabbricazione di mobi-li, pavimenti, strumenti musicali e oggetti di vario genere, come i set per gli scacchi. Sebbene il Mali ne abbia vietato l’esportazione nel 2020, da allora sono state spedite in Cina oltre 150mila tonnellate di rosewood, pari a 220mila alberi. I trafficanti hanno infiltrato gli ultimi due governi maliani: quello del defunto presidente, Ibrahim Boubacar Keita (IBK), e quello attuale del colonnello golpista Assimi Goita.
I “facilitatori” occuperebbero paradossalmente ruoli anche all’interno di organismi come l’Onu e associazioni ambientaliste dedite a contrastarne il traffico. Inoltre, viene sfruttata l’opportunità di usare i tronchi per trafficare altre merci illegali come avorio, pelli di animali e droga. Il traffico di “tek africano” è stato persino denunciato dalla propaganda jihadista che si è proclamata come l’unica forza in grado di sconfiggerlo.
DOVE SI TROVA IL LEGNO ROSA
«Al momento le principali aree di approvvigionamento in Mali si trovano nel cosiddetto triangolo sudoccidentale delle tre ‘K’: Kayes, Kéniéba e Kita», spiega ad Avvenire una fonte che per motivi di sicurezza esige l’anonimato. «Un trafficante cinese si è installato alcuni anni fa a Bamako con la sua azienda e da allora – continua la fonte – sta facendo man bassa di rosewood utilizzando personale non-maliano». Raccogliere il kosso nelle più remote aree del Mali non è semplice. La foresta brulica di animali, corsi d’acqua e alberi di altro genere che vengono abbattuti per raggiungere il “tek africano”.
I residenti stanno cercando di fare resistenza, ma senza alcun concreto successo. Seghe, accette e altre armi bianche utilizzate per ammassare migliaia di tronchi al mese sono spesso utilizzate anche per minacciare le comunità. « Ho fatto l’errore di denunciare questo commercio illegale alle autorità maliane – ammette la fonte –. Da allora sono fuggito perché la mia vita e quella della mia famiglia sono, ancora oggi, in costante pericolo».
IL MONOPOLIO DELLE ESPORTAZIONI
Per anni il monopolio delle esportazioni verso la Cina è stato gestito dalla Générale Industrie du Bois S.a.r.l. (Gib) diretta da un uomo d’affari, Aboubacrine Sidick Cissé. Già nel 2016, la federazione maliana di imprenditori del legno aveva denunciato l’illegalità di tali operazioni. «Cissé, un semplice intermediario, continua a tagliare ed esportare legname maliano non trasformato a scapito dei veri imprenditori – aveva dichiarato Hambarké Yatassaye, membro della federazione –. Con milioni di franchi CFA, Cissé ha comprato il silenzio e i favori di molti responsabili del settore». Secondo lo studio dell’Eia, un trafficante cinese ha pagato in un anno 1,7 milioni di dollari di tangenti che la Gib ha poi distribuito a una ragnatela di contatti, precedenti e attuali.
Tra i più importanti collaboratori di Cissé c’era Karim Keita, ex deputato, figlio del defunto IBK e in esilio ad Abidjan. Nel 2021, è stato oggetto di un mandato d’arresto internazionale emesso dall’Interpol e dalle stesse autorità maliane. Nel dicembre del 2022, invece, l’Office of Foreign Assets Control (Ofac) del Dipartimento del tesoro statunitense lo ha incluso tra le quaranta personalità sanzionate per atti di corruzione. Dopo il colpo di Stato nell’agosto del 2020 che ha messo fine all’amministrazione del padre, si sono comunque formate altre quattro società. Secondo gli esperti, il commercio illegale di rosewood è caratterizzato da una «corruzione profondamente radicata » che include l’uso di «permessi non validi per l’esportazione ».
Decine di funzionari pubblici che hanno ricevuto tangenti per ignorare il diboscamento e il traffico di legname occupano (o hanno occupato) a Bamako ruoli decisivi nell’esercito, nei servizi segreti, nel ministero dell’Ambiente, del Risanamento e dello Sviluppo sostenibile, e presso la Direzione nazionale delle acque e delle foreste. Altre tangenti vengono invece distribuite agli ufficiali delle amministrazioni locali, soprattutto nelle regioni dove il traffico di rosewood è più intenso.
I tronchi vengono inizialmente segati e immagazzinati nella foresta prima di essere accatastati dentro centinaia di container. Una lunga fila di camion carica quindi la merce e la trasporta verso altri magazzini fuori e dentro Bamako. Successivamente, i trafficanti cinesi con trapani fanno buchi all’interno dei tronchi e infilano zanne d’avorio, pelli di animali e droga. Quando tutto è pronto, i convogli tornano verso la regione di Kayes, oltrepassano il confine con il Senegal nella cittadina di Kidira distribuendo altre tangenti ai doganieri di entrambi i Paesi e, dopo alcuni giorni di viaggio, arrivano al porto della capitale senegalese, Dakar. Se tutto va bene, il tragitto può durare meno di una settimana.
Di recente solo due convogli di rosewood sono stati fermati dalla gendarmeria senegalese grazie all’intervento di alcune associazioni ambientaliste locali e straniere. Ma in entrambi i casi è bastato un giro di telefonate tra le più alte sfere della politica senegalese (durante l’amministrazione di Macky Sall) e maliana per permettere ai convogli di continuare il loro percorso.
LE DENUNCE DEGLI AMBIENTALISTI
Gli ambientalisti denunciano da anni di non avere abbastanza risorse per contrastare i trafficanti e sono coscienti della possibilità che all’interno delle proprie organizzazioni ci siano “impiegati-spia” pagati dallo stesso traffico che dovrebbero combattere. Arrivati al porto, le compagnie di navigazione come la danese Maersk, la francese CMA-CGM, e la Mediterranean Shipping Company (MSC) con sede in Svizzera ammettono da anni di non poter controllare ogni container che passa attraverso i loro moli. E così la merce lascia le rive di Dakar per la Cina. Nel caso del Mali, l’Onu afferma che potrebbe contrastare il traffico di rosewood solo se fosse legato ai finanziamenti di gruppi armati jihadisti poiché non ci sono più relazioni con la giunta militare al potere.
LEGNO ROSA, FONTE DI DENARO LIQUIDO
Il legno rosa rappresenta solo una delle fonti di denaro liquido sfruttate dai funzionari del momento che, senza alcuno sforzo, aspettano di essere pagati per guardare dall’altra parte e non ostacolare i trafficanti. « Il rosewood maliano è un tema troppo rischioso da affrontare per i miei connazionali – conclude la fonte –. I giornalisti locali che denunciano questa realtà finiscono in prigione o sottoterra».
fonte Avvenire https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-legno-pi-pregiato-rubato-allafrica-un-traffico-fatto-da-infiltrati-e-c#google_vignette
foto: EIA
Sono circa 6000 i professionisti della sanità italiani, di cui 4000 medici e 2000 professionisti della sanità, che nell’arco del 2023 si sono rivolti all’Amsi e UMEM e Uniti per Unire.
I medici e infermieri italiani preferiscono andare a lavorare all’estero. È quanto emerge dagli ultimi dati forniti dall’Associazione medici di origine straniera in Italia (AMSI), dall’Unione Medica Euro Mediterranea (UMEM).
Gli ingenti investimenti sulla sanità da parte di alcuni paesi arabi hanno contribuito ad aumentare un fenomeno che negli ultimi mesi è diventato sempre più diffuso.
“In Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar investono circa il 10% del Pil in sanità ed hanno strutture sanitarie all’avanguardia con tanta innovazione e macchinari ultime generazioni – spiega Foad Aodi, presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia, dell’Unione medica euro mediterranea, membro registro esperti della Fnomceo e prof. a contratto all’Università Tor Vergata.
Di non poca rilevanza poi, i turni massacranti, le aggressioni. Medici e infermieri lamentano inoltre la mancata depenalizzazione dell’atto medico e la difficile valorizzazione della carriera. Sono troppo pochi gli investimenti nella ricerca e per modernizzare le strutture sanitarie. C’è molta poca innovazione e confronti scientifici veri.
Infine, la questione economica: In Emirati Arabi, Qatar e Arabia Saudita e negli Emirati Arabi un medico viene pagato in media 15mila euro mensili, un infermiere 3mila, con compensi che possono anche raddoppiare in base all’esperienza”.
Più dell’85% delle richieste provengono dalle strutture sanitarie pubbliche.
I dati regione per regione
Secondo le statistiche formulate da Amsi e Umem, la regione con più richieste di trasferimento all’estero è la Lombardia, con 630 casi nel 2023 (di cui 430 medici e 125 infermieri e professionisti della sanità). Seguono il Veneto con 600 e il Piemonte con 550. Non va meglio però per le altre regioni: nel Lazio se ne contano 515, in Campania 475, in Calabria e Emilia-Romagna 450, in Puglia e Sicilia 300, in Toscana 275, in Liguria 250, nelle Marche 225, in Sardegna 200, in Umbria 175, in Trentino-Alto Adige 150, in Abruzzo 105, in Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta 100, in Basilicata e Molise 75.
I medici di origine straniera in Italia
Mentre tanti professionisti italiani scappano all’estero, negli ultimi cinque anni si è registrato un aumento di medici di origine straniera in Italia. “Questo grazie ad una stretta collaborazione con il Governo Conte II, che, con il decreto ‘Cura Italia’ ha disposto una deroga alle norme di riconoscimento delle qualifiche professionali sanitarie, per consentire l’esercizio sul territorio nazionale a chi ha conseguito una professione sanitaria all’estero – spiega Aodi –. Ne sono arrivati parecchi da Argentina, Venezuela, Cuba, Cile, Perù, Marocco, Tunisia, Giordania, Palestina e Algeria”. Alcuni di essi hanno deciso di rimanere in Italia. Siamo passati negli ultimi 4 anni da 77.500 professionisti della sanità di origine straniera in Italia a 100 mila professionisti della sanità stranieri, di cui il 40% lavora nel pubblico. Numeri raddoppiati rispetto a 3 anni fa. La maggioranza dei professionisti della sanità stranieri sono a Roma e nel Lazio con 8 mila unità.
“Ma questo non basta – fa notare Aodi –. Il continuo esodo dei medici Italiani ci preoccupa. Per questo abbiamo lanciato l’appello ‘Aiutarli a casa loro in Italia’, al quale stanno aderendo più di 130 tra associazioni e sindacati di professionisti della sanità, organizzazioni e associazioni di strutture sanitarie e cliniche private e poliambulatori”.
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Si scorgono spiragli di novità nelle politiche dell’immigrazione dei grandi Paesi della Ue. Per circa cinquant’anni, dal primo choc petrolifero degli anni 70 del secolo scorso, la nuova immigrazione per lavoro era stata ufficialmente bandita. Rimanevano aperte le porte agli immigrati qualificati, per esempio in ambito sanitario, a un certo numero d’immigrati stagionali, e poco altro. Nel nuovo secolo, l’immigrazione dai nuovi Paesi entrati nella Ue, come Polonia, Romania, Bulgaria – cittadini ammessi nel giro di qualche anno alla piena libertà di movimento – per un certo periodo ha soddisfatto le richieste dei mercati del lavoro dei Paesi della vecchia Ue bisognosi di manodopera, tra cui l’Italia. Altri canali, come i ricongiungimenti familiari (Francia) e l’accoglienza di rifugiati (Germania, Svezia), assumevano in modo indiretto anche il compito di rifornire di manodopera il sistema economico. Ora però, nel contesto post-pandemico, le vecchie ricette stanno mostrando la corda. I datori di lavoro un po’ ovunque lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno, e dall’Est europeo, a quanto pare, non arrivano più candidati in numero sufficiente. Così Germania, Francia e Spagna stanno correndo ai ripari.
La Germania, con la sua robusta economia, è stata la prima a imboccare, sebbene con prudenza, la strada di una nuova politica degli ingressi. Una nuova legge, varata nel 2022, punta ad attrarre lavoratori in possesso di competenze utili al sistema economico tedesco.
Persone dotate di diplomi che attestino la loro qualificazione, conoscano sufficientemente la lingua tedesca, dispongano di un alloggio, siano in grado di mantenersi durante il periodo di ricerca di un’occupazione. La legge viene ritenuta ancora timida da molti esperti, irta di complicazioni burocratiche. D’altronde la previsione governativa di ammettere 25mila lavoratori all’anno rimane lontana dalle stime dei fabbisogni, che superano il milione di posti vacanti. È importante però il segnale, in una materia in cui messaggi e narrazioni hanno più che mai il potere di plasmare le visioni e quindi le decisioni politiche. La Germania, peraltro, in modo più discreto, si è già dotata di un meccanismo per integrare nel sistema occupazionale i richiedenti asilo diniegati, mediante corsi di formazione e accordi con le imprese. Il governo francese ha recentemente assunto un’iniziativa che va nella medesima direzione.
A fronte di un sistema d’ingressi legali per lavoro restrittivo e inefficiente, i ministri dell’Interno e del Lavoro hanno anticipato una proposta, che verrà discussa nel 2023: l’introduzione di un permesso di soggiorno per i “mestieri sotto tensione”, destinato agli immigrati irregolari già presenti, che troverebbero impiego, o l’hanno già trovato informalmente, laddove manca manodopera. Si rafforzerebbe così la corsia già in vigore delle regolarizzazioni caso per caso. Forse un nuovo strumento normativo neppure servirebbe, ma la proposta ha un significato culturale: mostrare che la Francia è di nuovo pronta ad accettare l’immigrazione per lavoro.
La Spagna conferma a sua volta una maggiore apertura a soluzioni pragmatiche e liberali in materia di politiche migratorie. Nell’agosto 2022 ha introdotto nuove norme per agevolare l’ingresso di lavoratori da Paesi terzi richiesti dal sistema produttivo. Le complesse procedure fin qui previste sono state parecchio alleggerite, soprattutto per il settore edile. Anche per chi è entrato nel Paese per motivi di studio o per un tirocinio formativo è ora più facile lavorare legalmente. La Spagna dispone inoltre di procedure piuttosto generose per regolarizzare chi non dispone di un permesso di soggiorno idoneo, e per evitare che gli immigrati che perdono il lavoro cadano nell’irregolarità. I maggiori paesi della Ue si stanno quindi riaprendo all’immigrazione per lavoro.
Il governo italiano ha annunciato di voler alzare le quote d’ingresso previste con il decreto flussi in gestazione, portandole sopra le 80mila unità. Dopo alcuni tentennamenti, sta per confermare però i vincoli che voleva introdurre: verifica della disponibilità di disoccupati percettori di reddito di cittadinanza, addirittura allargata a tutto il territorio nazionale, e scambio tra quote d’ingresso e accettazione dei rimpatri degli immigrati espulsi. Sono due mosse sbagliate, che non rispondono alle crescenti esigenze delle imprese, dei servizi pubblici e delle famiglie e tendono a mantenere una sorta di riserva dal sapore xenofobo. Soprattutto, rivelano la mancanza di una visione lungimirante e inclusiva, in grado di manifestare l’interesse del nostro Paese ad accogliere e valorizzare nuove energie. Una necessità destinata a farsi sempre più urgente.
Su Centro Studi e Ricerche IDOS
In Italia gli stranieri incidono più tra i lavoratori (10,0%: 2.257.000 occupati su un totale nazionale di oltre 22,5 milioni nel 2021) che tra la popolazione nel suo complesso (8,8%: 5.194.000 residenti su una popolazione totale di 59 milioni) e, rispetto al 2020, tra gli occupati sono cresciuti del 2,4%.
Inoltre, sebbene siano impiegati per un numero di ore più basso rispetto a quelle che sarebbero disponibili a lavorare (il 19,6% degli occupati stranieri lavora in part time involontario – il 30,6% tra le sole donne – contro 10,4% degli italiani) e in lavori demansionati rispetto al livello di formazione acquisito (ben il 63,8% svolge professioni non qualificate o operaie e la quota di sovraistruiti è del 32,8% – 42,5% tra le sole donne – contro il 25,0% degli italiani), continuano a sostenere in misura rilevante l’economia nazionale.
Da una parte, infatti, vivendo e lavorando in Italia, gli immigrati pagano le tasse, consumano e versano contributi: nel 2020 hanno pagato 5,3 miliardi di euro di Irpef, 4,3 miliardi di Iva, 1,4 miliardi di Tasi e Tari, 2,2 miliardi di accise su benzina e tabacchi, 145 milioni di euro per le pratiche di acquisizione di cittadinanza e di rilascio/rinnovo dei permessi di soggiorno. Inoltre, tra comunitari e non comunitari, hanno versato 15,6 miliardi di euro di contributi previdenziali, contribuendo al sistema pensionistico italiano. Ne deriva che il saldo netto tra uscite economiche (28,9 miliardi) ed entrate (30,2 miliardi) legate all’immigrazione è stato ancora una volta positivo di circa 1,3 miliardi di euro a vantaggio delle casse dello Stato.
Dall’altra parte, gli stranieri in Italia continuano sempre più a fare impresa: le attività imprenditoriali a conduzione immigrata (642.638) costituiscono un decimo del totale (10,6%) e sono cresciute dell’1,8% (+11.481) rispetto al 2020, continuando un trend di ininterrotta espansione pure negli anni di crisi e di pandemia.
A ciò bisogna aggiungere che gli immigrati sono svolgono un’ampia gamma di lavori imprescindibili: sono il 15,3% degli occupati nel settore degli alberghi/ristoranti, il 15,5% nelle costruzioni, il 18,0% in agricoltura e ben il 64,2% nei servizi alle famiglie, dove quasi i due terzi degli addetti sono stranieri. Tutti settori che, in assenza di manodopera straniera, entrerebbero in profonda crisi. Nel caso dell’assistenza alle persone, la gran parte delle famiglie italiane con anziani, minori o disabili sarebbero più sole e prive di aiuto.
Eppure, sebbene contribuiscano in maniera irrinunciabile al benessere collettivo, ne restano sempre più esclusi. Nel 2021 gli stranieri in condizione di povertà assoluta sono saliti, in Italia, a oltre 1 milione e 600mila (+100.000 rispetto al 2020), il 32,4% di tutti quelli residenti in Italia, una quota oltre 4 volte superiore a quella degli italiani (7,2%). E la percentuale di famiglie che non riescono a soddisfare i bisogni essenziali è del 26,3% tra i nuclei misti (con almeno uno straniero) e sale al 30,6% tra quelle di soli stranieri: 5 volte in più che tra le famiglie di soli italiani (5,7%).
Anche la povertà relativa, legata alla capacità di spesa e perciò alla disuguaglianza sociale, colpisce molto più gli stranieri che gli italiani: nel 2021 ha riguardato in tutto 2,9 milioni di famiglie (l’11,1% del totale) ma, rispetto al 2020, l’incidenza di quelle che si trovano in tale stato è passata, tra i nuclei di soli italiani, dall’8,6% al 9,2%; tra quelli misti, dal 26,5% al 30,5%; e, tra quelli di soli stranieri, dal 25,7% a 32,2%, una quota oltre 3 volte superiore a quella delle famiglie di italiani.
Ma, pur in queste maggiori condizioni di indigenza, accedono molto meno degli italiani alle prestazioni di assistenza sociale (mense, trasporti, case popolari, misure di sostegno al reddito ecc.), da cui vengono esclusi attraverso l’introduzione di requisiti illegittimi e arbitrari, da parte di Comuni e istituzioni, come il possesso di un permesso di lungo-soggiorno e una residenza anagrafica almeno decennale. Sono questi i vincoli che hanno limitato ad appena il 12% la quota di stranieri tra i beneficiari del Reddito di cittadinanza, la principale misura nazionale di contrasto alla povertà economica, sebbene gli immigrati siano 3 ogni 10 poveri assoluti in Italia e questa indigenza sia, tra le loro famiglie, 5 volte superiore rispetto ai nuclei italiani.
Ancora oggi, da decenni, vigono per gli stranieri un modello di segregazione occupazionale (per cui lavorano sempre negli stessi pochi comparti, secondo una rigida ripartizione non solo di nazionalità ma anche di genere: le donne per lo più nei servizi domestici e di cura, il 38,2%, e gli uomini nell’industria e nell’edilizia, il 42,4%), una mobilità occupazionale bloccata (anche per chi ha una formazione elevata e tanti anni di attività) e una condizione di estrema precarietà (tra lavoratori a termine, contratti di apprendistato intermittenti e part-time involontari, la quota di lavoratori “non standard” tra gli stranieri è del 34,3% – il 41,8% tra le donne – contro il 20,3% degli italiani).
“Eppure – sostiene Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS – se si consentisse loro non solo di lavorare più ore regolarmente, visto che la sottoccupazione cela spesso un contestuale impiego in nero, ma anche di accedere a professioni di più alta qualifica, con contratti più stabili e tutele effettive, sarebbe valorizzato un potenziale ancora oggi mortificato, sebbene quanto mai prezioso in questa fase di crisi globale. Un potenziale che gioverebbe, oltre che agli immigrati, all’intero sistema Paese, dal momento che diminuirebbe l’economia sommersa e l’evasione, aumenterebbe ancor più il gettito in tasse e contributi, renderebbe più transnazionale e competitiva l’economia italiana”.
Il Dossier Statistico Immigrazione 2022, a cura di IDOS, in collaborazione con Centro Studi Confronti e Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, sarà presentato il 27 ottobre, alle 10.30, a Roma presso il Nuovo Teatro Orione (via Tortona 7) e in contemporanea in tutte le Regioni.
Maggiori informazioni sul sito www.dossierimmigrazione.it
Foto in evidenza di Centro Studi e Ricerche IDOS
Di Laura Zanfrini su Avvenire
Nell’edizione di ieri della Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Decreto Flussi 2021, firmato sul filo di lana a fine anno dal presidente del Consiglio Draghi, che fissa in 69.700 gli ingressi di lavoratori stranieri: un numero inferiore alla bozza circolata, ma più che raddoppiato rispetto alle quote degli ultimi anni e con una timida apertura verso il lavoro non stagionale con riferimento ai settori (trasporto, edilizia, turistico-alberghiero) che denunciano difficoltà nel reclutamento di personale. Peraltro, le 27.700 quote non stagionali andranno ripartite tra gli oltre 30 Paesi sottoscrittori di accordi elencati nel decreto e saranno in parte assorbite dalle conversioni di permessi già rilasciati per altri motivi. Questo – insieme alla “promessa” di possibili ulteriori decreti nei prossimi mesi – è probabilmente il massimo che si poteva fare con un governo composito come l’attuale e in un quadro ancora molto compromesso dalla pandemia.
Ancora una volta, il provvedimento ha visto la luce secondo la logica della “programmazione transitoria” e in assenza del documento programmatico cui il testo unico sull’immigrazione affidava, tra le altre finalità, quella di individuare i criteri generali per la definizione dei flussi in ingresso. L’ultimo documento di cui si ha notizia è relativo al triennio 2007-2009, rimasto eternamente “in fase di elaborazione”. Da allora, nessuno dei governi che si sono succeduti ha voluto cimentarsi nel compito, politicamente audace, del governo delle migrazioni economiche, e tutti hanno finito col ridurre la questione al contrasto dell’immigrazione irregolare.
I limiti delle procedure in vigore (a partire dalla loro rigidità, distante da un mercato del lavoro sempre più flessibile); quelli che derivano dalle scelte – o non scelte – nella loro applicazione; quelli, infine, relativi al contesto in cui gli schemi migratori si trovano a operare (dalla diffusione del lavoro irregolare ai deficit nella intermediazione istituzionale tra domanda e offerta di lavoro) hanno concorso al fallimento del sistema di programmazione dei flussi, facendo dell’Italia un caso “esemplare” del disallineamento tra il piano delle politiche e quello dei concreti processi migratori e di inclusione.
Mentre le più importanti agenzie internazionali non cessano di ricordare come le migrazioni, se adeguatamente gestite, possano rappresentare un vantaggio per tutti gli attori coinvolti, tale disallineamento risalta come dato comune perfino ai Paesi tradizionalmente considerati dei punti di riferimento in materia. In particolare, milioni di posti di lavoro essenziali sono occupati, in Canada come negli Stati Uniti e nella stessa Europa, da immigrati undocumented titolari di permessi temporanei, studenti e tirocinanti stranieri, richiedenti asilo diniegati. La necessità di politiche innovative, sostenibili nel lungo periodo, capaci di rispondere anche al consistente fabbisogno di lavoro a bassa qualificazione garantendo i diritti dei lavoratori è dunque auto-evidente. Tanto più in Italia, dove i modelli di inclusione prevalenti sono decisamente inadeguati ad agganciare una ripresa la cui cifra dovrà essere la qualità in senso lato del lavoro.
Governare le migrazioni economiche implica gestire una serie di bilanciamenti: si tratta di far convivere la dimensione economica della programmazione con la dimensione politica (in particolare, l’esigenza di offrire canali legali che scoraggino i flussi irregolari); la richiesta di rispondere a fabbisogni contingenti e spesso appiattiti sui lavori a bassa qualificazione con quella di promuovere modelli d’integrazione sostenibili nel lungo periodo; la necessità di dotarsi di regimi migratori coerenti col ruolo dell’Italia nello scenario internazionale (in particolare euro-africano) con quella di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro delle ampie componenti della popolazione residente (inclusa quella immigrata) che ne sono escluse; e, ancora, la dimensione tecnico-procedurale della programmazione – che richiede schemi migratori flessibili, che rispondano rapidamente alle richieste di persone e mercato – con il carattere politico, nel senso nobile del termine, del governo dell’immigrazione, che come tale incorpora una visione sul futuro.L’auspicato ridisegno delle politiche migratorie non può allora essere disgiunto dal compito di ripensare i regimi di accumulazione, le reti di produzione e distribuzione del valore e i modelli di riproduzione sociale cogliendone, proprio attraverso la “lente” dell’immigrazione, tutte le criticità. Basterebbe citare l’esempio del lavoro per le famiglie – da sempre il comparto più etnicizzato del mercato del lavoro italiano – per comprendere come la gestione delle migrazioni va integrata con l’insieme di interventi, a vari livelli, necessari per affrontare quella che l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) ha definito la «crisi globale della cura». Il governo e la governance delle migrazioni devono dunque diventare parte integrante di quel grande cantiere di innovazione economica e sociale che si sta aprendo nella scia del Pnrr, secondo le indicazioni contenute nella stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Immagine in evidenza di Agenzia Ansa
Su Morning FUTURE
«La crisi Covid finora ha colpito soprattutto i lavoratori precari e le filiere caratterizzate da ampio utilizzo di lavoro stagionale (es. turismo, agricoltura). Per questo, gli stranieri hanno subito una perdita del tasso di occupazione (-3,7 punti) molto più forte rispetto a quella degli Italiani (-0,6 punti). Nonostante questo, gli stranieri producono il 9% del PIL e risultano determinanti in molti settori».
L’ultimo rapporto della Fondazione Leone Moressa sull’economia dell’immigrazione presentato alla Camera dei deputati, contribuisce a sfatare molti miti sugli stranieri nel nostro Paese ed evidenzia come la crisi legata alla pandemia abbia colpito in particolare i lavoratori immigrati, soprattutto le donne. Per la prima volta, dopo molti anni, i dati relativi all’economia dell’immigrazione sono negativi, accompagnati anche da un calo dei permessi di soggiorno per lavoro. Mentre cresce però la quota di imprenditori stranieri.
«Se i posti di lavoro persi nel 2020 sono stati 456mila e un terzo ha riguardato lavoratori stranieri, la maggior parte erano donne».
«Il dato sui nuovi imprenditori racconta, da un lato, lo stato in cui si sono trovati molti lavoratori, costretti a mettersi in proprio per ragioni di necessità, e dall’altro l’apice di una crescita iniziata già da tempo, che quindi evidenzia sicuramente uno spirito diverso da parte degli stranieri nel nostro Paese», spiega Enrico Di Pasquale, Ricercatore della Fondazione Moressa.
A destare certamente il maggior interesse è il calo degli occupati: per la prima volta il tasso di occupazione degli stranieri (57,3 per cento) è inferiore a quello degli italiani (58,2 per cento). A livello territoriale, si nota come la percentuale sia diminuita maggiormente nel Nord Ovest e nelle Isole, mentre nel Nord Est si è registrata la più alta diminuzione nel tasso di occupazione degli italiani (-1,3 punti).
«La ragione è semplice: gli stranieri sono stati quelli che hanno risentito di più della pandemia, in quanto le loro occupazioni non erano tutelate dal blocco licenziamenti», sottolinea Di Pasquale. «Ovviamente non c’è solo questo. Notiamo come gli occupati italiani siano diminuiti dell’1,4 per cento, gli stranieri del 6,4: hanno certamente pagato anche la concentrazione maggiore nei settori più esposti alla crisi, come la ristorazione».
A risentirne sono state soprattutto le donne. «Se i posti di lavoro persi nel 2020 sono stati 456mila e un terzo ha riguardato lavoratori stranieri, la maggior parte erano donne, coloro che sono ancora meno tutelate rispetto agli uomini», rimarca Di Pasquale.
Inaspettato, invece, quanto emerge nel settore dell’imprenditoria, con la crisi legata all’epidemia di Covid che non ha fermato l’espansione di imprese a conduzione straniera. Nel 2020 gli imprenditori nati all’estero sono stati 740mila, pari al 9,8 per cento del totale e in aumento del 2,3 per cento rispetto al 2019 e addirittura del 29,3 per cento rispetto al 2011. Mentre, nello stesso periodo di tempo, gli imprenditori nati in Italia hanno registrato un calo dell’8,6 per cento.
Le nazionalità più numerose sono Cina, Romania, Marocco e Albania, ma la crescita più significativa si è registrata tra i nati in Bangladesh, Pakistan e Nigeria. Il settore più interessato da questa crescita è stato l’edilizia, dove gli stranieri sono il 16 per cento degli imprenditori del settore. «Questa però è l’unica notizia positiva nel mondo del lavoro, visto che gli altri dati non sono certamente positivi», evidenzia Di Pasquale.
Il problema è legato anche al fatto che, sempre nel 2020, si è toccato il minimo storico di appena 10mila permessi per motivi lavorativi su 106mila ingressi, la maggior parte dei quali dovuti a motivi familiari.
«Il valore aggiunto prodotto dagli occupati stranieri nel 2020, secondo i dati del rapporto, è stato pari a 134,4 miliardi di euro».
«Il dato è certamente clamoroso e può portare effetti negativi soprattutto in alcuni settori come quello agricolo, dove la manovalanza straniera è fondamentale», sottolinea Di Pasquale. Eppure, c’è anche un altro dato importante di cui tenere conto. «Nei cinque milioni di stranieri presenti non dobbiamo dimenticare che ogni anno quasi 100mila persone diventano cittadini italiani, perciò, negli ultimi dieci anni, sono quasi un milione gli stranieri diventati italiani presenti sul territorio», rimarca Di Pasquale.
Nonostante la crisi, però, gli immigrati restano centrali nell’economia italiana. Il valore aggiunto prodotto dagli occupati stranieri nel 2020, secondo i dati del rapporto, è stato pari a 134,4 miliardi di euro, il 9 per cento del PIL italiano, con un’incidenza maggiore del settore agricolo (17,9 per cento) e delle costruzioni (17,6 per cento).
I contribuenti stranieri in Italia sono attualmente 2,3 milioni e nel 2020 hanno dichiarato redditi per 30,3 miliardi e versato Irpef per circa 4 miliardi. Sommando le altre voci di entrata per le casse pubbliche (Irpef, Iva, imposte locali, contributi previdenziali e sociali), si ottiene un valore di 28,1 miliardi. Mentre l’impatto per la spesa pubblica si aggira sui 27,5 miliardi.
Per questo, conclude il rapporto della Fondazione Moressa, il saldo resta positivo, pari a 600 milioni. «Gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, le voci principali della spesa pubblica. Già da tempo però si comincia a notare come la curva della natalità sia in rapida decrescita», sostiene Di Pasquale.
Nel 2005 l’incidenza degli stranieri sulla popolazione era del 3,8%, oggi è all’8,2% e supera la media europea che si attesta al 6,7%. E se pure il saldo migratorio in Italia risulta ancora positivo, soprattutto grazie ai ricongiungimenti familiari, i livelli però sono più bassi rispetto al passato. Un fattore di cui l’economia di un Paese che invecchia, come l’Italia, dovrà tenere conto.
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Di Isabella De Silvestro su Domani
Bassirou è arrivato dal Senegal nel 2013 e per otto anni ha vissuto da irregolare. Dopo un lungo periodo passato in una baracca di lamiera condivisa con altri braccianti nel gran ghetto di Rignano, tra Foggia, Rignano Garganico e San Severo, senza acqua corrente, in balìa dell’afa estiva e del gelo invernale, ha iniziato a vagare per la provincia di Foggia. Inseguiva lavori a breve termine nelle campagne e dormiva ovunque la sua paga da tre euro all’ora gli permettesse di poggiare il corpo provato da dieci ore di lavoro quotidiano. A luglio di quest’anno ha finalmente ottenuto un permesso di soggiorno per lavoro subordinato grazie alla sanatoria promossa dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova con il governo giallorosso di Giuseppe Conte. Ma solo grazie a un amico sindacalista che l’ha aiutato a presentare la domanda, dopo un anno di attesa Bassirou è uscito dalla clandestinità.
«Sono fortunato», dice sapendo di essere stato uno dei pochi richiedenti a farcela. «Senza documenti non vali niente, ti usano come vogliono. Se un capo non ti vuole pagare quello che ti spetta non puoi denunciare perché hai paura della polizia. Sei in terra d’altri, completamente solo».
La Capitanata, il nord della Puglia, è il binario morto delle politiche migratorie italiane, dove ogni retorica sul nostro modello di accoglienza rivela la sua inconsistenza. Durante l’estate nei ghetti della campagna foggiana affluiscono migliaia di lavoratori per la raccolta di frutta e verdura che vanno ad aggiungersi agli stanziali, uomini e donne approdati in Italia anche molti anni fa e ormai rassegnati a viverne solo i meandri sudici a cui li relega la mancanza di un permesso di soggiorno.
Non si tratta di centinaia, ma di migliaia di persone, ed è il risultato di una gestione dell’immigrazione che ha progressivamente smantellato i canali di accesso regolare creando grandi sacche di irregolarità. Ne trae profitto il settore della grande distribuzione che porta sugli scaffali dei supermercati prodotti a basso costo il cui prezzo è pagato dai braccianti.
A maggio 2020 erano state riposte molte speranze nel provvedimento di emersione dall’irregolarità che ambiva a sanare fino a 220mila lavoratori impiegati nei settori dell’agricoltura, dei servizi domestici e dell’assistenza alla persona: braccianti, colf e badanti. Presentata insieme alle lacrime dell’allora ministra Bellanova come “traguardo storico” in grado di rendere visibili gli invisibili, l’operazione si rivela oggi un fallimento burocratico e politico.
Secondo l’ultimo dossier della campagna Ero straniero, pubblicato il 29 luglio scorso, sono circa 60mila i permessi di soggiorno rilasciati dal ministero dell’Interno a fronte delle 220mila domande presentate: solo il 27 per cento del totale. Inoltre, nonostante la misura sia stata presentata principalmente per gli irregolari delle campagne, le domande di emersione provenienti dal settore agricolo non sono che il 15 per cento del totale (30mila), tutte le altre riguardano colf e badanti. Si può quindi stimare che i braccianti ad oggi regolarizzati si aggirino intorno agli 8mila in tutta la penisola. Un numero irrisorio se si pensa che nella sola provincia di Foggia, secondo le stime della Flai Cgil – il sindacato dei lavoratori agricoli e dell’industria alimentare – gli irregolari impiegati nei campi sono anche 45mila, nei periodi di punta. La sanatoria è un’occasione mancata e la condizione dei braccianti è rimasta invariata, se non addirittura peggiorata.
«Non mi sono mai illuso su questa sanatoria», afferma Raffaele Falcone, il sindacalista della Flai Cgil di Foggia che ha aiutato Bassirou. «È una misura estremamente complessa, scritta male, modificata tramite infinite circolari ministeriali spesso difficili da interpretare anche per chi lavora nel settore. Gli unici che hanno la speranza di sanare la propria situazione grazie a questa misura sono quelli che avevano già un rapporto di lavoro stabile. Io ho personalmente portato a termine un centinaio di emersioni con esito positivo facendo pressione sulla prefettura, che registrava ritardi imbarazzanti. Si trattava però di lavoratori che conoscevo e seguivo da anni e che aspettavano solo un provvedimento per regolarizzare un rapporto di lavoro già consolidato, anche se irregolare. I veri marginali ne rimangono totalmente esclusi».
Non solo, infatti, la misura esclude gli altri settori dove la manodopera irregolare è largamente impiegata, come logistica, edilizia o ristorazione, ma impone requisiti tanto specifici e difficili da dimostrare che rende impossibile presentare la richiesta a chi versa in condizioni di grande marginalità. Su 45mila irregolari stimati nel foggiano per il settore agricolo, solo 1.200 hanno potuto presentare la domanda. Tanto nelle città, quanto negli insediamenti abusivi, infatti, c’è chi lavora nei campi e chi lavora per chi lavora nei campi. I ghetti ospitano moltissime attività commerciali del tutto informali ma consolidate, fonte di sussistenza più o meno stabile per molti. «Chi gestisce uno dei tanti esercizi commerciali del ghetto», continua Falcone, «come può pensare di trovare un datore di lavoro che lo regolarizzi? Chi lavora nei campi ma risponde ai comandi di un caporale e non sa nemmeno chi sia e che faccia abbia il proprietario dell’azienda agricola, a chi chiederà di presentare la domanda di emersione?».
Una delle più grandi fragilità della sanatoria risiede nell’enorme potere che la misura lascia al datore di lavoro. La norma prevede che sia questo ad autodenunciarsi e a pagare un contributo forfettario di 500 euro per l’emersione del lavoratore. Non solo è improbabile che un datore di lavoro che impiega da anni forza lavoro in nero – o più comunemente “in grigio”, registrando poche ore di lavoro rispetto a quelle realmente lavorate dal bracciante – abbia interesse a regolarizzare i lavoratori, ma altrettanto improbabile è che sia disposto a pagare il prezzo della regolarizzazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, i 500 euro vengono pagati dai lavoratori stessi, che non hanno però alcuna certezza che la loro pratica porti, dopo peripezie burocratiche insensate e psicologicamente sfiancanti, a un permesso di soggiorno per lavoro. Chi riesce a compiere la trafila assume così un’aura eroica, un fatto tanto desolante quanto più rende evidente che la regolarizzazione in Italia richiede una combinazione di fortuna, tenacia, particolare intelligenza e rapporti consolidati con italiani disposti a fare da mediatori e garanti. Pochissimi dunque i regolarizzati. Sotto di loro, una larga schiera di illusi e delusi, lavoratori irregolari esasperati e facilmente manipolabili che cadono nelle maglie di datori di lavoro che li ricattano o faccendieri e truffatori che hanno trovato nella sanatoria una fonte di denaro facile. Molti i casi di compravendita di finti contratti di lavoro, che arrivano a costare anche più di duemila euro e non portano alla regolarizzazione. Le truffe rimangono impunite, al massimo si insabbiano in una denuncia contro ignoti.
Poi ci sono le difficoltà legate alla natura stagionale del lavoro agricolo, che avrebbe dovuto essere messa in conto dai promotori della misura di emersione. La forte mobilità richiesta dal settore agricolo raramente permette un rapporto di lavoro stabile e continuativo che copra l’intero anno.
«C’è una netta disconnessione tra una certa politica e il mondo reale», afferma Aboubakar Soumahoro, sindacalista e attivista da anni in lotta per i diritti dei braccianti. «È una misura scritta senza conoscere l’àmbito di intervento. Nessuno si è curato di indossare gli stivali e visitare le campagne, entrando nei tuguri dove vivono i diretti interessati a cui viene negato ogni diritto. Il migrante serve fintanto che è funzionale, fintanto che lavora fino allo sfinimento senza avanzare pretese».
La sanatoria è stata varata come misura emergenziale durante il primo lockdown, quando si registrava una mancanza di lavoratori stagionali nelle campagne e il governo avvertiva l’urgenza di assicurare la frutta e la verdura negli scaffali dei supermercati. Mentre tutto si fermava, ai braccianti veniva richiesto di continuare a lavorare senza che venissero forniti dispositivi di protezione individuale o garantite condizioni igieniche di base per lavorare e vivere in sicurezza. Daniela Zitarosa, operatrice dell’organizzazione umanitaria Intersos che opera nei ghetti delle campagne foggiane, mette l’accento sulle gravi condizioni igieniche in cui versano uomini e donne: «Non solo era impossibile chiedere di rispettare il distanziamento, ma era anche ridicolo pretendere certe precauzioni per noi scontate. Mentre spiegavo ad una bracciante l’importanza di lavarsi le mani di frequente, lei scaldava un ferro da stiro per gettarlo in un secchio d’acqua: era l’unico modo che aveva per lavarsi con acqua calda».
La pandemia ha acuito le disuguaglianze. I lavoratori senza documenti sono finiti in fondo alla coda nella campagna vaccinale e l’introduzione del green pass ha creato problemi agli stagionali costretti a spostarsi da una regione all’altra per cercare lavoro.
Se la sanatoria prometteva di porre rimedio alla marginalità anche in ambito sanitario, la situazione non è rosea neppure per chi ha fatto richiesta di emersione. I richiedenti, al momento della presentazione dell’istanza, venivano forniti di una tessera sanitaria provvisoria con un codice numerico – e non alfanumerico, come per le normali tessere dei cittadini regolari – che non permetteva di registrarsi sui sistemi digitali della sanità pubblica.
Un’impasse burocratica che non è formale. Determina l’ennesima esclusione di centinaia di migliaia di persone dai diritti basilari che dovrebbero essere garantiti a chiunque risieda nel nostro paese.
Ritardi, inadempienze, leggerezze sembrano il frutto della mancanza di interesse reale. Per il governo la regolarizzazione degli invisibili non è una priorità.
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Su Avvenire
Papa Francesco ha salutato e abbracciato, durante l’Udienza Generale di oggi, oltre 100 tra operatori e migranti del centro di accoglienza Mondo Migliore di Rocca di Papa. “Il Santo Padre ha consolato e incoraggiato gli operatori che stanno per perdere il lavoro a causa dei padri Oblati di Maria Vergine, proprietari dell’immobile, e della Croce Rossa Italiana che dal primo ottobre gestirà il centro”, scrive in un comunicato la cooperativa. “Né Oblati né Croce Rossa, infatti, hanno ancora risposto ai continui appelli lanciati dai lavoratori e dai sindacati”.
Il gruppo, composto anche da circa 40 bambini, è stato guidato da Angelo Chiorazzo, fondatore della Cooperativa Auxilium, e daDomenico Alagia, coordinatore del centro accoglienza. Un centro all’avanguardia che in cinque anni di attività ha accolto oltre7000 migranti (con oltre 600 minori) con professionalità e umanità riconosciuta anche dal pontefice e dalle più alte cariche istituzionali.
“È per tutti noi un momento triste – ha dichiarato Angelo Chiorazzo -. È impossibile collaborare con rappresentanti di Ordini religiosi che avendo una visione principalmente economica dell’accoglienza dei migranti rischiano di far perdere la fiducia nelle istituzioni ecclesiastiche. Come ci ricorda papa Francesco: nella vita vengono prima le persone“.
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di Antonio Maria Mira su Avvenire.it
«Siamo di fronte alla rimozione del tema dell’immigrazione dal dibattito politico. È molto grave che iniziative nuove non siano prese a livello nazionale e europeo. Non è che il problema non c’è più perché non se ne parla più sulle prime pagine dei giornali». È la forte denuncia di Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione con il Sud. Che non sta a guardare. «In attesa di un vero salto culturale c’è bisogno di alcune iniziative specifiche che rendano meno drammatiche le cronache che abbiamo sotto gli occhi». Iniziative concrete come il bando della Fondazione che ha come obiettivo l’inserimento lavorativo degli immigrati e il contrasto allo sfruttamento. Scade il 17 settembre ed è rivolto alle organizzazioni del Terzo settore, con uno stanziamento di 2 milioni di euro, per sostenere iniziative esemplari nelle regioni del Sud. Su questo tema Fondazione con il Sud e “Avvenire” hanno promosso un forum di riflessione e proposta. Perché, sottolinea Borgomeo, «bisogna far scattare contemporaneamente una molla di solidarietà e il tema che al Paese conviene una politica di accoglienza».
E proprio questo doppio binario è stato al centro degli interventi al Forum. «Oggi conviene aprire ai flussi migratori – afferma Stefano Granata, presidente di Federsolidarietà –. Nella fase pandemica i bisogni di welfare si sono moltiplicati a fronte di alcune mansioni che sono totalmente mancate e continuano a mancare, tanto è vero che il Piemonte ha avviato una sanatoria temporanea per permettere alle badanti di poter lavorare nelle strutture di accoglienza per anziani, pur non avendo titolo, altrimenti avrebbero dovuto chiudere».
Ma, avverte, «se andremo avanti così nei prossimi 15-20 anni saremo costretti veramente ad andare a cercarli per convincerli a venire nel nostro Paese ». Inoltre «questi flussi hanno bisogno di essere accompagnati dal punto di vista dell’inserimento lavorativo» e «un Paese come il nostro non può immaginare di tutelarsi chiudendo le frontiere: l’emergenza pandemica ci ha fatto capire che non solo non abbiamo la necessità di arginare un fenomeno, ma abbiamo bisogno di qualificarlo, altrimenti non faremo altro che sommare disagi e vulnerabilità dei nostri cittadini a quelli dei cittadini stranieri».
Esemplare è da questo punto di vista il cammino intrapreso dalla città di Palermo. Il sindaco Leoluca Orlando ricorda che «la nostra città è stata per cento anni repressa dal governo mafioso che aveva un’idiosincrasia per le diversità. Il cambio culturale di Palermo deve ringraziare le vittime innocenti della mafia che ci hanno fatto scoprire la cultura della legalità, e le sofferenze dei migranti che ci hanno fatto scoprire che tante volte la legge nega i diritti». Per questo, aggiunge, «non possiamo ignorare la strage nel Mediterraneo». «Ho proposto ai vertici Ue – spiega ancora Orlando – un Servizio europeo di salvezza delle vite umane, perché non possiamo affidarci soltanto alle Ong, spesso bloccate da cavilli giuridici».
Per quanto riguarda la città, «il compito di un’amministrazione comunale è garantire prima della convenienza la sicurezza, che in democrazia si fonda sul rispetto dei diritti di tutti. La premessa è la visibilità di tutti, perché se sono invisibile sono pericoloso e non faccio differenza tra un criminale latitante e un cittadino senza documenti. Per questo ho firmato decine e decine di residenze anagrafiche a dispetto del cosiddetto decreto sicurezza. Nonostante le mille critiche ho avuto il conforto dalla Consulta che eversiva era la legge e non le mie firme».
Per questo, insiste, «abbiamo proposto l’abolizione del permesso di soggiorno a livello europeo, perché è la nuova schiavitù. La dimensione dell’accoglienza deve cedere il passo a quella della coabitazione consentendo a tutti di sentirsi a casa propria». E in questo si cala il contrasto al caporalato, come sottolinea il segretario generale della Fai-Cisl, Onofrio Rota. «Se non c’è una visione d’insieme del fenomeno, volontà e pragmatismo nell’affrontarlo, non si va da nessuna parte. Il fenomeno del caporalato si contrasta soltanto se c’è un’azione corale di tutte le parti ». La Fai ha promosso un servizio SOS Caporalato, con un numero verde (800.199.100) e un’app, «dove raccogliamo le segnalazioni dei lavoratori».
E ancora «il camper dei diritti che va a presidiare le periferie e i ghetti dove vivono sia irregolari che regolari». Infine «stiamo lavorando anche a livello europeo: la Pac non solo deve dare i contributi alle imprese agricole per lo sviluppo, l’aggiornamento della meccanizzazione, il benessere degli animali. Per questo abbiamo chiesto delle clausole di sostenibilità sociale e questo vuol dire che le aziende che godono dei contributi pubblici devono garantire ai lavoratori non solo il rispetto del contratto ma anche di tutte le norme relative alla prevenzione e alla sicurezza».
Ma bisogna «anche contrastare le pratiche sleali che avvengono attraverso le aste al doppio ribasso. Abbiamo lanciato una proposta: come parliamo di tassi antiusura per i cittadini che si rivolgono al sistema bancario, dovremmo avere anche i prezzi anticaporalato, cioè che i prodotti agricoli non possono essere venduti alla grande distribuzione se non vanno giustamente a remunerare l’impresa e il costo del lavoro».
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