The European Parliament today adopted with an overwhelming majority (546 in favour, 47 against, 31 abstentions) the Anti-SLAPP Directive, intended to protect journalists and media outlets from abusive litigations. The European Federation of Journalists (EFJ) joined the organisations of the Coalition Against SLAPPs in Europe (CASE) in welcoming an important step in the fight against SLAPPs, but regrets the considerable room for manoeuvre left to the Member States on several crucial points.
“Some refer to this law as Daphne’s law (Daphne Caruana Galizia) and I think it’s important to mention it, here in this room, named after Daphne. We achieved an additional layer of protection for journalists. There was no definition of SLAPPs in Europe, we now have one: this is important to help the courts better understand SLAPPs,” said the rapporteur Tiemo Wölken (S&D, Germany) during the press conference following the adoption in the plenary session of the European Parliament, on 27 February 2024.
The adopted Directive provides safeguards for journalists targeted by manifestly unfounded claims or abusive court proceedings, in civil matters, and with cross-border implications. These include an accelerated procedure to dismiss cases at the earliest stage, third-party support to targets during court proceedings, penalties for claimants and compensatory damages for victims.
This directive is only applicable to SLAPP cases (see factsheet ‘What is a SLAPP’) with a cross-border dimension, i.e. when both parties are domiciled in different Member States. However, the definition of “cross-border” was broadened during the final phases of the negotiations to also include “other elements relevant to the situation”, irrespective of the means of communication used. For example, information of public interest published in one country could be considered as a “cross-border” element in another country under this directive. It will be up to the national courts and Member States to implement this definition broadly to cases.
Such an addition, however incomplete, was a key demand of the CASE coalition which mapped SLAPP cases across Europe from 2011 until today. According to the research, only less than 10% of the cases identified and vetted are classical cross-border cases. A strict definition, whereby the directive would only apply to SLAPP targets sued in a purely domestic context, would have failed to counteract the growing problem of SLAPPs in the EU.
“The responsibility now lies with Member States to build on the foundation set by the Anti-SLAPP Directive and draft effective national legislation which includes a broad scope to cover also domestic SLAPP cases, robust guarantees in terms of the early dismissal mechanism to filter out SLAPPs, safeguards in national legislation on damage compensation, as well as a number of non-legal instruments detailed in the Commission’s Recommendations,” said CASE in a press release containing analyses of three key articles.
Lo“The Member States will have two years to comply with the directive and we hope to see anti-SLAPP legislations transposed on-time in all countries and going beyond the minimum guarantees provided by this text. The seriousness of the problem requires European governments to be more ambitious as SLAPPs mushroom across the European Union. We also expect the forthcoming Council of Europe Recommendation to provide further guidance,” said EFJ Director Renate Schroeder.
Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Si scorgono spiragli di novità nelle politiche dell’immigrazione dei grandi Paesi della Ue. Per circa cinquant’anni, dal primo choc petrolifero degli anni 70 del secolo scorso, la nuova immigrazione per lavoro era stata ufficialmente bandita. Rimanevano aperte le porte agli immigrati qualificati, per esempio in ambito sanitario, a un certo numero d’immigrati stagionali, e poco altro. Nel nuovo secolo, l’immigrazione dai nuovi Paesi entrati nella Ue, come Polonia, Romania, Bulgaria – cittadini ammessi nel giro di qualche anno alla piena libertà di movimento – per un certo periodo ha soddisfatto le richieste dei mercati del lavoro dei Paesi della vecchia Ue bisognosi di manodopera, tra cui l’Italia. Altri canali, come i ricongiungimenti familiari (Francia) e l’accoglienza di rifugiati (Germania, Svezia), assumevano in modo indiretto anche il compito di rifornire di manodopera il sistema economico. Ora però, nel contesto post-pandemico, le vecchie ricette stanno mostrando la corda. I datori di lavoro un po’ ovunque lamentano di non trovare i lavoratori di cui hanno bisogno, e dall’Est europeo, a quanto pare, non arrivano più candidati in numero sufficiente. Così Germania, Francia e Spagna stanno correndo ai ripari.
La Germania, con la sua robusta economia, è stata la prima a imboccare, sebbene con prudenza, la strada di una nuova politica degli ingressi. Una nuova legge, varata nel 2022, punta ad attrarre lavoratori in possesso di competenze utili al sistema economico tedesco.
Persone dotate di diplomi che attestino la loro qualificazione, conoscano sufficientemente la lingua tedesca, dispongano di un alloggio, siano in grado di mantenersi durante il periodo di ricerca di un’occupazione. La legge viene ritenuta ancora timida da molti esperti, irta di complicazioni burocratiche. D’altronde la previsione governativa di ammettere 25mila lavoratori all’anno rimane lontana dalle stime dei fabbisogni, che superano il milione di posti vacanti. È importante però il segnale, in una materia in cui messaggi e narrazioni hanno più che mai il potere di plasmare le visioni e quindi le decisioni politiche. La Germania, peraltro, in modo più discreto, si è già dotata di un meccanismo per integrare nel sistema occupazionale i richiedenti asilo diniegati, mediante corsi di formazione e accordi con le imprese. Il governo francese ha recentemente assunto un’iniziativa che va nella medesima direzione.
A fronte di un sistema d’ingressi legali per lavoro restrittivo e inefficiente, i ministri dell’Interno e del Lavoro hanno anticipato una proposta, che verrà discussa nel 2023: l’introduzione di un permesso di soggiorno per i “mestieri sotto tensione”, destinato agli immigrati irregolari già presenti, che troverebbero impiego, o l’hanno già trovato informalmente, laddove manca manodopera. Si rafforzerebbe così la corsia già in vigore delle regolarizzazioni caso per caso. Forse un nuovo strumento normativo neppure servirebbe, ma la proposta ha un significato culturale: mostrare che la Francia è di nuovo pronta ad accettare l’immigrazione per lavoro.
La Spagna conferma a sua volta una maggiore apertura a soluzioni pragmatiche e liberali in materia di politiche migratorie. Nell’agosto 2022 ha introdotto nuove norme per agevolare l’ingresso di lavoratori da Paesi terzi richiesti dal sistema produttivo. Le complesse procedure fin qui previste sono state parecchio alleggerite, soprattutto per il settore edile. Anche per chi è entrato nel Paese per motivi di studio o per un tirocinio formativo è ora più facile lavorare legalmente. La Spagna dispone inoltre di procedure piuttosto generose per regolarizzare chi non dispone di un permesso di soggiorno idoneo, e per evitare che gli immigrati che perdono il lavoro cadano nell’irregolarità. I maggiori paesi della Ue si stanno quindi riaprendo all’immigrazione per lavoro.
Il governo italiano ha annunciato di voler alzare le quote d’ingresso previste con il decreto flussi in gestazione, portandole sopra le 80mila unità. Dopo alcuni tentennamenti, sta per confermare però i vincoli che voleva introdurre: verifica della disponibilità di disoccupati percettori di reddito di cittadinanza, addirittura allargata a tutto il territorio nazionale, e scambio tra quote d’ingresso e accettazione dei rimpatri degli immigrati espulsi. Sono due mosse sbagliate, che non rispondono alle crescenti esigenze delle imprese, dei servizi pubblici e delle famiglie e tendono a mantenere una sorta di riserva dal sapore xenofobo. Soprattutto, rivelano la mancanza di una visione lungimirante e inclusiva, in grado di manifestare l’interesse del nostro Paese ad accogliere e valorizzare nuove energie. Una necessità destinata a farsi sempre più urgente.
Sono passati trent’anni dall’approvazione dell’attuale legge sulla cittadinanza, la legge 91 del 5 febbraio 1992. Già allora l’Italia si era scoperta multietnica, soprattutto per effetto dell’ampio dibattito attorno alla legge Martelli del 1990 e alla sanatoria correlata. Eppure, la reazione del sistema politico, pressoché unanime, fu quella di guardare al passato, riconoscendo una serie di diritti a figli e nipoti degli antichi emigranti italiani, guardando con favore ai concittadini della Ue (che, pure, della cittadinanza italiana non avevano bisogno), ma raddoppiando il tempo richiesto per diventare cittadini agli immigrati provenienti da Paesi extracomunitari: da cinque a dieci anni.
Nemmeno il fascismo aveva preso una misura del genere, essendo la legge precedente (quella dei cinque anni) in vigore dal lontano 1912. Il fatto che nella maggior parte dei Paesi dell’Europa Occidentale (Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Svezia…) oltre che negli Usa, vigesse la soglia dei cinque anni non scalfì l’improvvisa sete di italianità ancestrale dei nostri legislatori, trascinati all’epoca dalle argomentazioni parlamentare missino Mirko Tremaglia.
Iniziarono tempi duri anche per i figli degli stranieri residenti: la legge riconosceva loro la cittadinanza solo al compimento della maggiore età, a patto che – nati qui – fossero sempre vissuti in Italia. Sei mesi passati, anche in tenera età, coi nonni nel paese di origine della famiglia o, più grandi, all’estero per un qualsiasi motivo bastavano a sbarrare la strada.
Da allora molti flussi di persone sono passati attraverso frontiere, sanatorie, dinamiche familiari. La popolazione immigrata, stagnante nei numeri da circa dieci anni, si è attestata poco sopra i cinque milioni di persone, in prevalenza donne. È composta oggi prevalentemente di famiglie ricongiunte, in cui vivono circa un milione di minorenni. In altri Paesi europei, come Germania, Spagna, Grecia, nel frattempo le norme sono state riformate in senso più favorevole agli immigrati, sebbene con cautela.
Lo Ius soli automatico, alla nascita, per tutti, non esiste più in nessun Paese europeo, ma le norme complessivamente vanno incontro al desiderio d’integrazione delle nuove generazioni. In Spagna per chi nasce sul territorio è sufficiente un anno di residenza. In Germania si applica lo Ius soli a condizione che almeno uno dei genitori sia residente da almeno otto anni e in possesso di un permesso a tempo indeterminato. In Grecia è stata introdotta una forma di Ius culturae: cittadinanza a chi ha frequentato almeno sei anni di scuola.
Solo l’Italia è rimasta ferma al palo, prigioniera di un dibattito insieme ideologico e dominato dalla paura di un’«invasione» mai avvenuta. Deteniamo ora il poco invidiabile primato di Paese più restrittivo dell’Europa occidentale sulla materia. Anche ai legislatori idealmente più aperti a una ragionevole riforma – quella, a suo tempo, definita dello Ius culturae con elementi di Ius soli temperato – manca il coraggio di affrontare un dibattito pubblico in cui temono di essere sovrastati dalle urla di chi griderebbe al «tradimento» di un’identità italiana basata sul sangue (e rivolta sostanzialmente al passato).
Anzitutto, nonostante norme tanto sfavorevoli, un volume di cinque milioni di residenti stranieri, ormai insediati da anni, produce naturalmente ogni anno un numero consistente di candidati eleggibili per la naturalizzazione. Gli ostacoli non mancano (ricordiamo che il Ministero dell’Interno mantiene un potere discrezionale sulla materia, e può bastare molto poco per vedersi rigettare l’istanza) e i tempi sono lunghi.
Molti si scoraggiano, ma un bel numero di domande di cittadinanza ogni anno vanno in porto: 132.736 nel 2020, pari al 26,4 per 1.000 stranieri residenti. In secondo luogo, un numero considerevole di neo-cittadini si serve del nuovo passaporto italiano (ed europeo) per compiere una nuova emigrazione. Si prende la via di Paesi più promettenti: 228.000 nel decennio 2010-2019, su un totale di 898.000 (Dossier immigrazione 2021). Paradossalmente, chi vorrebbe veder diminuire il numero degli immigrati dovrebbe facilitare la loro naturalizzazione. In terzo luogo, come osservano Salvatore Strozza, Cinzia Conti ed Enrico Tucci su ‘Neodemos’, non è affatto detto che tutti gli stranieri residenti facciano la fila per diventare italiani appena se ne dischiuda l’opportunità.
Vivono in Italia oltre 1,1 milioni di stranieri con un’anzianità di presenza di oltre 15 anni che non hanno acquisito la cittadinanza. Ed è giusto che sia così: diventare cittadini dovrebbe essere una scelta, non una condizione per accedere a qualche diritto in più. Da questo punto di vista, il fatto che l’impiego pubblico continui a essere precluso agli stranieri, persino ai medici e infermieri in tempi di Covid, ha l’effetto paradossale di spingere verso la cittadinanza chi magari preferirebbe farne a meno.
Resta il paradosso di ragazzi a cui si chiede di studiare lingua, letteratura, storia, geografia e Costituzione italiane, per centinaia di ore all’anno, ma a cui si chiudono le porte della piena appartenenza nazionale, come minimo fino ai 18 anni. Ragazzi che poi scoprono l’inconveniente di essere ‘stranieri’ a casa loro quando vorrebbero andare in gita all’estero con i compagni, oppure praticare uno sport agonistico, e soprattutto quando si affacciano al mercato del lavoro, dove un numero innaturale di datori richiede la cittadinanza come requisito per l’assunzione.
Siamo in un anno pre-elettorale e gli slogan e le cattive approssimazioni minacciano ancora una volta di prevalere sulla realtà e sulla ragione. Abbiamo ancora molta strada da percorrere per diventare un Paese capace di consentire una vita normale a chi lo abita e lo vorrebbe riconoscere come sua patria. E per valorizzare tutto intero il suo patrimonio umano.
Immagine in evidenza su pixabay
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Due studenti stranieri su tre nelle scuole italiane (il 65,4 per cento) sono nati nel nostro paese. L’incidenza sale al 74,6% nelle scuole primarie e all’81,9% in quelle dell’infanzia. In totale sono oltre 860 mila gli stranieri residenti che avrebbero diritto di accesso alla cittadinanza italiana se questa fosse estesa, con efficacia retroattiva, a tutti i nati sul territorio nazionale (nel 95% dei casi bambini e ragazzi con meno di 18 anni). Sono i dati resi noti dal Centro Studi e Ricerche Idos e la Rete che promuove la campagna “Dalla parte giusta della storia” nel trentesimo anniversario della Legge 91/92. Una legge, varata il 5 febbraio di trenta anni fa e basata sullo ius sanguinis, che secondo gli studiosi oggi penalizza oltre 1,5 milioni di potenziali italiani. Se sono, infatti, oltre 800mila i nati in Italia che potrebbero usufruire di uno ius soli potenziale, sono quasi altrettanti i ragazzi cresciuti nel nostro paese che avrebbero diritto di cittadinanza con l’introduzione dello ius culturae.
Intanto il numero dei “nuovi cittadini” che vivono nel Paese è in continua crescita: erano 286 mila al Censimento del 2001, oltre il doppio, 671 mila, a quello successivo (2011), e più di cinque volte tanti nel 2020, quando se ne sono contati oltre 1 milione e mezzo. Se prima dell’ultimo decennio il numero di acquisizioni annuali era piuttosto contenuto (4 mila quelle registrate dal ministero dell’Interno nel 1992, 12 mila nel 2002 e 66 mila nel 2012 quelle rilevate dall’Istat), dal 2013 il dato annuale si è sempre attestato sopra le 100 mila unità, toccando il picco più alto nel 2016 (201.000). Più di recente, dopo la flessione registrata nel 2017 (147 mila) e 2018 (112.500), si è osservato un nuovo aumento nel 2019 (127 mila, +12,9%) e ancora nel 2020 (132 mila, +3,8%), pur con i rallentamenti delle attività amministrative dovuti all’emergenza pandemica. Inoltre, secondo Idos, nel periodo 2012-2020 le nascite di bambini stranieri in Italia sono state ben 630 mila (di cui quasi 60 mila nell’ultimo anno, rappresentando un settimo di tutti i nuovi nati, 14,8%).
“Vogliamo che sia l’ultimo compleanno di questa legge ingiusta – dichiara Ada Ugo Abara, presidentessa di ArisingAfricans, una delle associazioni delle nuove generazioni che animano la rete – Nelle settimane scorse, anche io, come la legge, ho compiuto 30 anni. E nonostante viva in Italia fin da bambina, sia trevigiana, lavori da anni come professionista, non ho ancora la cittadinanza. Attorno a noi cambia tutto, tranne questa legge. Per questo abbiamo lanciato la challenge #ècambiatoQUASItutto con cui invitiamo tutte le persone a postare una propria foto del ‘92 e raccontare cosa è cambiato da allora. Non ci accontentiamo delle promesse di questi anni: dopo il naufragio del ddl Zan ci aspettiamo che gli esponenti politici come Brescia e Letta, che sostengono di avere a cuore la riforma, non perdano l’ultima occasione di fare avanzare i diritti sociali e civili in questa legislatura”.
Gli attivisti e le organizzazioni della rete promettono battaglia lanciando una serie di iniziative, che partiranno proprio il 5 febbraio con la challenge digitale #ècambiatoQUASItutto e l’invio di una memoria alla Commissione Affari Costituzionali e ai partiti per chiedere una nuova legge entro la fine della legislatura.
Secondo Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche Idos, “soprattutto in una fase storica come quella attuale, in cui l’Italia ha un urgente bisogno di rilancio sociale, civile, economico e culturale è grave dover constatare che un ricco e fresco potenziale innovativo, come quello che saprebbero esprimere, anche in preziosa chiave transnazionale, le nuove generazioni, se solo venissero riconosciute nella pienezza dei loro diritti di cittadinanza, venga ancora mortificato e tenuto ai margini da una legge antiquata, nata già vecchia”.
Nonostante il tema della riforma della cittadinanza sia stato evocato più volte, dopo il tentativo naufragato nel 2017, ci sono attualmente tre disegni di legge fermi alla Camera (a firma Laura Boldrini, Renata Polverini e Matteo Orfini). “E’ una legge che in ben 30 anni nessuna legislatura ha avuto la dignità e il coraggio di riformare, perseguendo un immobilismo politico tanto più colpevole quanto più non cessa di venire alimentato, per un verso, da vuoti schemi ideologici e, per altro verso, da pavidi opportunismi elettorali – continua Di Sciullo -. E a farne le spese, oltre alle centinaia di migliaia di “italiani di fatto”, è l’intero sistema Paese”.
Fanno parte della Rete per la riforma della cittadinanza: Afroveronesi, ArisingAfricans, Black LivesMatter Bologna, QuestaèRoma, Festival Divercity, SonrisasAndinas, Collettivo Ujamaa, Rete degli studenti medi, Unione degli Stundenti (UDS), Unione degli Universitari (UDU), Link, Rete della conoscenza, ActionAid Italia, Rete Saltamuri, Restiamo Umani Brescia, Volare e decine di attiviste e attivisti di nuove generazioni di tutta Italia.
Di Annalisa Camilli su Internazionale
“Una donna, madre di due figli, è stata picchiata mentre era rinchiusa nel carcere di Ain Zara. È stata arrestata durante la retata che c’è stata nell’area di Gargarish. Chi gestisce la prigione controlla i rifugiati, compie abusi contro le donne. Siamo molto spaventati”: è un passaggio di una lettera inviata dai migranti rinchiusi nel carcere di Ain Zara, nella periferia meridionale di Tripoli, all’account Twitter Refugees in Libya, un account gestito da rifugiati e attivisti in Libia.
Centinaia di persone sono incarcerate in seguito al blitz avvenuto tra l’8 e il 9 gennaio, compiuto mentre un gruppo di rifugiati protestava davanti alla sede dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) chiedendo di essere trasferiti dalla Libia, un paese considerato non sicuro, in cui i migranti sono sottoposti ad abusi di ogni tipo, detenzione arbitraria e violazioni sistematiche dei diritti umani. Era il 2 febbraio 2017 quando l’allora presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni firmò il Memorandum di intesa (Mou) con Tripoli sui migranti che prevedeva di ripristinare l’accordo di amicizia Italia-Libia del 2008. Il giorno successivo i leader europei salutavano con favore il patto italo-libico sull’immigrazione in un vertice a Malta.
L’accordo prevedeva la formazione e il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica – che avrebbe avuto il compito di pattugliare le coste per fermare le imbarcazioni di migranti – e il finanziamento dei centri di detenzione libici, chiamati dall’accordo “centri di accoglienza”. Nonostante le numerose denunce di violazioni dei diritti umani, di “inimmaginabili orrori” (documentati dall’Onu nel 2018) commessi nei centri di detenzione libici finanziati dal governo italiano “dai funzionari pubblici, dai miliziani che fanno parte di gruppi armati e dai trafficanti”, in un contesto di assoluta impunità, il governo italiano nel 2020 ha prorogato automaticamente l’accordo per altri tre anni (fino al 2023). Cinque anni dopo la firma del Memorandum, la guardia costiera libica ha fermato e riportato indietro nel paese 82mila persone.
Secondo l’ong Oxfam di più di 20mila migranti riportati in Libia si sono perse le tracce. Per finanziare la guardia costiera e i centri di detenzione, l’Italia ha speso quasi un miliardo di euro. Secondo Amnesty international “uomini, donne e bambini rimpatriati in Libia devono affrontare detenzioni arbitrarie, torture, condizioni disumane, stupri e violenze sessuali, estorsioni, lavori forzati e uccisioni. Invece di affrontare queste continue violazioni dei diritti umani, il governo libico di unità nazionale continua a essere complice degli abusi e a rafforzare l’impunità, come illustrato dalla recente nomina di Mohamed al Khoja a direttore del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (Dcim). Al Khoja gestiva il centro di detenzione di Tariq al Sikka, dove sono stati documentati abusi ai danni dei migranti”.
In un rapporto del 17 gennaio 2022, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto di provare una “grave preoccupazione” per le continue violazioni dei diritti umani contro rifugiati e migranti in Libia e ha confermato che “la Libia non è un porto di sbarco sicuro per rifugiati e migranti”. Il rapporto conferma inoltre che la cosiddetta guardia costiera libica ha continuato a operare in modi che mettono a grave rischio la vita e il benessere dei migranti e dei rifugiati che tentano di attraversare il mar Mediterraneo. Nonostante questo, un rapporto interno del comandante dell’operazione navale dell’Unione europea Eunavfor Med Irini, pubblicato dall’Associated press il 25 gennaio 2022, conferma che le autorità europee sono intenzionate a continuare la cooperazione con la guardia costiera libica.
L’attuale accordo dell’Italia con la Libia scade nel febbraio del 2023, ma si rinnoverà automaticamente per altri tre anni se le autorità non lo annulleranno prima di novembre del 2022. In concomitanza con il quinto anniversario dell’accordo, centinaia di associazioni e di ong, italiane, libiche, africane ed europee, hanno chiesto che il governo italiano revochi il patto, presentando un’analisi degli effetti dell’accordo sulla vita degli stranieri nel paese nordafricano. “Il Memorandum Italia-Libia sta, nei fatti, agevolando la strutturazione di modelli di sfruttamento e riduzione in schiavitù all’interno dei quali sono perpetrate in maniera sistematica violenze tali da costituire crimini contro l’umanità”, denuncia il rapporto.
Immagine in evidenza di Mahmud Turkia/Afp
Su ASGI
Lo afferma la Corte di Giustizia dell’Unione europea in una sentenza con la quale ha dichiarato illegittima l’esclusione dei cittadini stranieri privi di permesso di lungo periodo dal bonus bebè, istituito nel 2015, e dalla indennità di maternità per le madri disoccupate.
Secondo la Corte tale esclusione è in contrasto con l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e con la direttiva 2011/98 che riconosce il diritto alla sicurezza sociale a tutti gli stranieri con un permesso di soggiorno anche breve purché consenta di lavorare.
Giunge così al termine un lungo contenzioso nel quale ASGI, tramite i suoi legali, si è impegnata in questi anni in tutti i tribunali d’Italia, dopo aver ripetutamente e inutilmente segnalato la necessità di intervenire sulle norme ora censurate dalla Corte.
“La sentenza conferma che il diritto dell’Unione può dare un contributo importante alla affermazione dei principi di uguaglianza – commenta l’avv. Alberto Guariso di ASGI, che ha assistito i ricorrenti davanti alla Corte – ma spiace constatare che per molti anni la metà delle mamme e delle famiglie straniere sono state illegittimamente escluse – per ragioni puramente ideologiche – da importanti prestazioni di sostegno che avrebbero garantito un maggiore integrazione sociale, con beneficio non solo per gli stranieri ma per l’intera collettività”.
Ora l’INPS dovrà versare le prestazioni a tutti gli stranieri che avevano fatto domanda e se l’erano vista respingere.
Alcuni dei nove casi giunti all’attenzione della Corte erano stati segnalati da altri enti e associazioni come la CGIL di Brescia e Bergamo e l’INAS-CISL di Milano.
Da gennaio prossimo, poi, le due prestazioni saranno assorbite dall’assegno unico che non presenta più la limitazione oggi dichiarata illegittima, ma che ancora non prevede una chiara estensione a tutti gli stranieri destinatari della direttiva 2011/98, rischiando di innescare nuove incertezze e nuovi contenziosi. Nel frattempo rimangono nel nostro ordinamento altre prestazioni, come il bonus asili nido, ancora riservate ai soli lungosoggiornanti, alle quali il Parlamento italiano dovrà ora mettere urgentemente mano per evitare ulteriori condanne da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Di Vittoria Casa su Domani
Tra i tanti meriti da attribuire alle vittorie olimpiche italiane, c’è sicuramente anche quello di riattualizzare il dibattito sulla cittadinanza. Se si scorre la lista della delegazione italiana ai giochi di Tokyo, ci si imbatte in cognomi come Jacobs, Herrera Abreu, Hooper, Kaddari, Lukudo, Eyob Ghebrehiwet Faniel, Abdelwaheb, Zaytsev e tanti altri. A grandi linee, un terzo delle nostre atlete e dei nostri atleti ha origini che certo non affondano nella storia d’Italia. Eppure sono italianissimi e quando gareggiano o cantano l’inno sul podio, il cuore di chi guarda la tv non può che battere più forte.
L’Italia dello sport non è lontana dall’Italia che viviamo tutti. Nel paese risiedono ufficialmente più di 5 milioni di stranieri, circa 900mila dei quali sono alunni con background migratorio. Si tratta di bambine e di bambini nati e cresciuti nella penisola che devono aspettare i diciott’anni per fare domanda di riconoscimento della nazionalità italiana (niente d’automatico, tutto sempre in mano alla burocrazia).
Ecco, per una volta proviamo a dare loro voce, proviamo a immaginarceli attraverso le parole delle nostre atlete e dei nostri atleti durante le interviste di questa estate: ragazze e ragazzi che spesso parlano un italiano con accento lombardo, romano, toscano, eccetera.
Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, ha evocato per questi giovani lo “ius soli sportivo”, ovvero il riconoscimento automatico della nazionalità italiana per chi ha compiuto 18 anni e un giorno. Niente domanda, burocrazia, prefetture o ministeri. Solo una tutela automatica per ragazze e ragazzi che dal 2016, pur non essendo ancora formalmente italiani, possono gareggiare per le rispettive federazioni sportive.
Ma non basta. Perché le legittime esigenze del mondo sportivo non possono essere derubricate dalla politica a faccenda di settore. I problemi dei nostri giovani atleti sono esattamente gli stessi problemi di un’intera generazione e la risposta dovrebbe essere data a tutti. Durante la scorsa legislatura, una legge sulla cittadinanza è stata approvata alla Camera per poi arenarsi al Senato.
Al tempo si parlava di “Ius Culturae”, ovvero di un diritto di cittadinanza legato all’istruzione. Si prevedeva che potessero chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni e che avevano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni oppure superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). Gli altri, seppur nati all’estero e compresi in un’età tra i 12 e i 18 anni, potevano ottenere il passaporto se residenti per almeno sei anni e se capaci di finire ciclo scolastico.
Lo “Ius Culturae” o “Ius Scholae” è ancora oggi il compromesso minimo di un paese che voglia dirsi civile. In primo luogo perché conferirebbe la cittadinanza a persone che hanno già una forte identità italiana. In secondo luogo perché forse avrebbe un peso sui risultati scolastici: tra i 18 e i 24 anni, i nostri ragazzi senza cittadinanza italiana che non hanno un diploma sono il 36,5 per cento contro una media italiana dell’11,3 per cento e una media europea del 10 per cento.
Dunque, per questi giovani occorre una nuova legge sulla cittadinanza così come occorre il ricorso a veri e propri patti integrativi di comunità. Enti locali, istituzioni, pubbliche e private, realtà del terzo settore e scuole dovrebbero sottoscrivere specifici accordi al fine di mettere a disposizione di questi bambini una vera e propria rete di referenti che li accompagni e li incoraggi, preveda per ognuno di loro un coordinamento specifico con obiettivi precisi, li aiuti a inserirsi nei contesti più diversi, da quello scolastico a quello sportivo.
Sta per prendere il via il Recovery Plan e con esso il più grande Piano per l’infanzia 0-6 anni della storia recente. La questione della cittadinanza dei bambini con background migratorio non può essere messa da parte. Una nuova legge sulla cittadinanza è senz’altro indispensabile. Dobbiamo investire sugli italiani del futuro, su chi viene da altrove ma sarà parte viva dell’Italia che verrà.
ORBáN “GELA” LA LEGA: NO AL GRUPPO COMUNE E ANCHE LA CSU CHIUDE (ven, 31 mag 2019 – AVVENIRE – Pag. 6)
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