Di Simone Alliva su L’Espresso
Il mese è quello di maggio 2021, primi segni di “ritorno alla normalità”. Fine dei lockdown e locali che riaprono. Zaihra, ragazza trans di 21 anni, aspetta una sua amica in piazza Currò, centro di ritrovo per i giovani catanesi. Un ragazzo la fissa mentre lei parla al telefono. Poi le si avvicina e le sferra un pugno in faccia. Sviene e nessuno interviene. Occhio gonfio e mascella rotta.
Nel mese di ottobre a Roma il quartiere di San Lorenzo ritorna a pulsare tra bar e discoteche, Jamilton, romano di 26 anni con origini brasiliane esce da un locale verso le 2 di notte, saluta gli amici e si avvia verso la macchina. Prima gli insulti: «Guarda se sto negro de merda m’ha rubato er cellulare, mo lo pisto». Poi un branco di quattro uomini lo circondano, gli spaccano una bottiglia in testa e lo massacrano intonando in coro: «Brutto negro».
Omotransfobia, razzismo, abilismo, antisemitismo le voci che si uniscono per denunciare il clima di violenza montante vengono raccolte dall’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio). Da 913 episodi di discriminazione del 2020, si è passati a 1.379. Con un dettaglio non da poco conto: i dati visionati e pubblicati in anteprima da L’Espresso registrano un balzo di aggressioni fisiche rispetto all’anno precedente.
Con le “riaperture” si preferiscono calci e pugni all’offesa: l’odio virtuale scende dal 34% al 17%, mentre salgono le aggressioni fisiche: nel 2020 erano il 65 per cento (soprattutto tra le mura domestiche), nel fanno un balzo e toccano l’82 per cento.
La discriminazione abbandona il virtuale e torna a sommergere la vita reale delle persone, nelle loro relazioni familiari e di vicinato, nei luoghi che frequentano o dai quali vengono allontanati o preclusi. Figli buttati fuori casa per via del proprio orientamento sessuale o identità di genere, cittadini insultati e picchiati per strada per il colore della pelle. E ancora manifesti, striscioni, cartelli, scritte sui muri che illuminano la guerra invisibile alle minoranze.
La piramide dell’odio tracciata dall’UNAR mette al primo posto le persone aggredite per motivi etnico-razziali: il 2021 ha registrato 709 casi rispetto ai 545 del 2020. Di queste 499 vittime sono straniere. Seguono poi le persone aggredite per il “colore della pelle” (137), a cui vengono rivolti insulti che ricalcano un copione rigido e caro al vocabolario razzista: «negro di merda», «marocchino di merda», «clandestino», «vattene», «ritorna da dove sei venuto». Parole manifesto del sentimento di odio e pregiudizio di inferiorità basato sulla “razza”.
Sono invece 241 i casi denunciati di discriminazioni per “Religione o convinzioni personali”, rispetto ai 183 del 2020. In Italia è l’antisemitismo a crescere a dismisura. Si contano 170 casi rispetto agli 89 del 2020. Una recrudescenza del pregiudizio antisemita, oggi come in passato, che si esprime in forme cospiratorie, additando nelle persone di religione ebraica qualsiasi colpa. Già il rapporto della Wzo, l’Organizzazione sionista mondiale, e dell’Agenzia ebraica per Israele, aveva sottolineato come il 2021 fosse stato l’anno più antisemita dell’ultimo decennio.
Per l’Italia la conferma della tendenza arriva dall’UNAR. L’anno iniziato con insulti e minacce alla senatrice a vita Liliana Segre è proseguito con la diffusione di teorie complottiste sulla pandemia e vaccini dalle pagine social. Si è arrivati alle manifestazioni no-vax, con cartelli antisemiti. Ci sono poi le testimonianze delle aggressioni fisiche che sembrano far fare marcia indietro nel tempo: in una importante città dell’Italia centrale, nel tardo pomeriggio, un ragazzo con indosso la kippah viene colpito da dietro con un pugno e poi uno sputo. Mentre in una scuola primaria due studenti, venuti a conoscenza delle origini ebraiche di un compagno, lo sottopongono ad una serie di molestie: facendogli il saluto fascista, tentando di disegnargli svastiche sul corpo ed aggredendolo fisicamente con calci e pugni.
Non vengono risparmiate dall’odio le persone Lgbt che, come fanno notare dall’Ufficio Antidiscriminazione della Presidenza del Consiglio: scontano un’ondata di visibilità prodotta dal dibattito pubblico consumatosi nel 2021 sul ddl Zan, dentro e fuori dal Parlamento. Fake-news, stereotipi di genere e pregiudizi che si sono tradotti, nel tessuto sociale, in una vera e propria conflittualità, fatta di discriminazioni e violenze. Si registra un caso di omotransfobia ogni due giorni. Dai 93 episodi denunciati nel 2020, si è passati ai 238. Persone trans inseguite e aggredite per strada, ragazzi e ragazze costrette a terapie riparative, macchine distrutte e aggressioni fisiche a coppie colpevoli di tenersi per mano o scambiarsi un bacio pubblicamente.
È stato anche l’anno dell’abilismo, parola che rinchiude dentro tutte quelle violenze fisiche, alla proprietà e verbali perpetrate ai danni delle persone con disabilità. Il 2020 aveva registrato una flessione delle aggressioni pari a 49 casi, con il “ritorno alla normalità” i casi di abilismo toccano la punta di 141 aggressioni. Sono dati parziali, sottolineano dall’Unar, poiché fanno riferimento solo a casi denunciati oppure segnalati dalla stampa. Lo scenario, dunque, potrebbe essere peggiore.
«I dati ci dicono che l’anno trascorso sconta la rabbia accumulata e la paura dell’anno precedente. Con le maggiori aperture c’è stata una ripresa della circolazione delle persone e un aumento delle aggressioni fisiche» spiega Triantafillos Loukarelis, direttore Ufficio nazionale anti-discriminazione razziale. «Come Unar abbiamo due difficoltà: siamo poco conosciuti e poi c’è una rassegnazione, quasi una sfiducia verso le istituzioni: serpeggia la convinzione che qualsiasi denuncia sarà inefficace oppure addirittura controproducente».
Il metodo dell’UNAR sui casi di discriminazione è preciso: una volta ricevuta la segnalazione del caso, si attiva un lavoro di verifica ed eventualmente di supporto della vittima. Non tutte le segnalazioni, dunque, vengono registrate. «Molte persone nell’ultimo ci hanno contattato perché si sentivano discriminati in quanto non vaccinati. Semplicemente temevano gli effetti dei vaccini – spiega Loukarelis – Spesso sono persone che hanno paura perché non hanno le giuste informazioni. C’è questa idea che i no-vax siano solo radicali ma non è così. Così li abbiamo indirizzati verso i servizi regionali che potevano dare tutte le informazioni necessarie per comprendere».
Fornire informazioni, supporto e orientamento è il compito dell’ufficio che nell’ultimo anno si è fatto carico di qualsiasi tipo di denuncia: «I nostri operatori specializzati si prendono carico delle segnalazioni. Spesso si può agire anche sulla base di moral suasion parlando con le istituzioni locali, ad esempio. Quando ci sono questioni che possono aver, per così dire, un riflesso giudiziario, abbiamo pronto una squadra legale pronta a trasmettere un parere».
L’Unar ci prova, in sinergia con le associazioni che lottano contro l’odio. Intanto dal Parlamento arrivano nuove rassicurazioni per una ripresa del testo di legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Potrebbero ripresentare un testo ad aprile sia Alessandro Zan del Partito Democratico alla Camera, sia Alessandra Maiorino del M5s al Senato. Fuori dai palazzi però ritorna la paura, alcuni temono più di prima e tacciono, altri dicono basta e trovano la forza di denunciare cercando sostegno. In attesa di uno scatto della politica, i cittadini fanno da sé mentre la lacerazione sociale cresce.
Su Fondazione ISMU
Il Rapporto annuale ISMU sulle migrazioni giunge nel 2022 alla sua XXVII edizione e costituisce ormai un utile riferimento per chi si occupa di questo tema, in Italia e non solo. Questa edizione analizza sia l’impatto della pandemia sui flussi migratori e sugli immigrati, sia le conseguenze, sotto il profilo migratorio, della drammatica questione afghana.
Attenuata l’emergenza sanitaria nella seconda metà del 2021, si è riaccesa infatti l’attenzione sui temi delle migrazioni, facendo riemergere le sfide che il fenomeno presenta per l’Italia e l’Unione europea.
Oltre alle consuete aree di studio (salute, lavoro, quadro normativo e scuola) e agli aspetti statistici il XXVII Rapporto dedica una particolare attenzione agli atteggiamenti e orientamenti degli italiani e alle esperienze delle donne migranti in termini di discriminazione e di valorizzazione positiva. Inoltre, il volume è arricchito da approfondimenti sui rifugiati e sull’azione umanitaria, su come è stato affrontato il fenomeno migratorio nelle elezioni comunali, sulle misure alternative alla detenzione e sull’affido familiare dei minori stranieri non accompagnati. Infine, anche quest’anno è riservato uno sguardo all’Europa, in special modo alle nuove prospettive della politica migratoria dell’Unione nell’era post-Merkel, e al mondo, con una particolare attenzione alle iniziative politiche bilaterali con i paesi africani.
Il ventisettesimo Rapporto ISMU è disponibile qui.
Su Melting Pot Europa
Il primo dato che emerge dal rapporto è proprio quello di un’emergenza che non c’è, perché in tre anni, dal 2018 al 2020 le persone accolte in Italia sono diminuite del 42%.Eppure 7 su 10 sono accolti in centri straordinari, perché è il sistema di accoglienza ad essere basato sulla risposta emergenziale, evidenziando il fallimento di quanto stabilito dal primo Decreto Sicurezza.
Al nuovo rapporto si aggiunge una novità: una mappatura dettagliata – attraverso un sito web facilmente utilizzabile e liberamente accessibile – di tutti i centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo del paese. La piattaforma di monitoraggio centriditalia.it, realizzata da ActionAid insieme a openpolis, permette di avere a disposizione in formato aperto tutti i dati dei centri di accoglienza sparsi nel territorio nazionale.
E’ il risultato di un lavoro di raccolta e analisi dati sui centri esistenti in tutta Italia. Un lavoro capillare, che mostra nel dettaglio il numero dei posti disponibili nelle strutture, le presenze effettive, chi gestisce il centro, i prezzi, la localizzazione. Uno strumento per chiunque voglia conoscere, capire, monitorare il sistema, dal singolo cittadino, a giornalisti e ricercatori. E uno strumento che colma un vuoto informativo di Governo e Istituzioni: ad oggi – scrivono le organizzazioni – manca ancora la relazione annuale obbligatoria del 2020 del Ministero dell’Interno al Parlamento.
L’assenza di informazioni verificate e trasparenti ha prestato il fianco per troppo tempo a speculazioni politiche. Non serve gestire l’accoglienza con politiche emergenziali, perché l’emergenza non c’è. Nel 2020 i rifugiati e richiedenti asilo in accoglienza rappresentano solo lo 0,13% della popolazione italiana. Nonostante siano calati drasticamente gli sbarchi e gli ingressi, non c’è stata nessuna volontà di ripensare il sistema e privilegiare l’accoglienza diffusa e pubblica.
“Con un calo delle presenze di queste proporzioni, si sarebbe potuto incentivare con facilità l’accoglienza diffusa delle persone in piccoli centri. Un risultato positivo che invece si è evitato a causa di una scelta politica insita nel Decreto Sicurezza: destrutturare il sistema pubblico di accoglienza diffusa, incentivare l’approccio emergenziale e i centri straordinari e tagliare i servizi per l’integrazione, lasciando che le persone prive di mezzi scivolino verso una condizione di soggiorno irregolare e di estrema marginalità sociale” spiegano Fabrizio Coresi, Programme Expert on migration e Cristiano Maugeri Programme developer di ActionAid.
“Centri d’Italia può fornire elementi concreti per porre in essere politiche pubbliche basate sull’impatto delle riforme attuate negli anni, e non sulla strumentalizzazione della questione migratoria. Dobbiamo tuttavia rilevare che nonostante gli sforzi nella richiesta dei dati e i progressi nell’ottenimento degli stessi, rimangono ancora oscuri aspetti essenziali per la realizzazione di una trasparenza effettiva dell’accoglienza in Italia. Parliamo dei dati economico-finanziari che collegano i singoli centri agli enti gestori, che ad oggi ci sono stati negati”, continuano Michele Vannucchi e Mattia Fonzi, responsabili di progetto per openpolis.
In risposta alla diminuzione delle presenze, tra il 2018 e il 2020, i curatori del rapporto hanno assistito a una diminuzione del 25,1% del numero di centri attivi sul territorio nazionale e del 40,2% dei posti complessivamente disponibili (il 46,8% in meno nel sistema Sprar/Siproimi). A fine 2020, 7 persone su 10 sono accolte in centri di gestione prefettizia. Di questi, i centri di piccole dimensioni sono quelli ad aver perso più posti dal 2018 al 2020, quasi 22mila.
Ad aumentare è invece la centralità delle città più grandi. In 16 città vengono ospitate oltre il 18% delle persone e i centri di Roma e Milano tendono ad essere i più grandi. Due anni prima la percentuale era al 14,2%. Scendono anche i prezzi, ovvero la cifra attribuita per spese di vitto, alloggio e servizi per l’integrazione e a subire il maggior taglio sono i prezzi per i centri piccoli (-27%) e succede in particolare al nord, con punte che arrivano al -46%.
Gli autori spiegano che ci sono ancora molte informazioni fondamentali a cui non hanno avuto accesso, nonostante le molte richieste di accesso agli atti, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. Un esempio sono i codici fiscali e le partite IVA dei gestori, utili a identificarli con sicurezza e a verificare un fenomeno registrato anche in passato, ovvero l’ingresso nel sistema di società for profit prive di vocazione sociale, competenze ed esperienza necessarie. “Fino a quando la maggioranza dei richiedenti asilo che si trovano nel paese sarà ospitata in centri straordinari, non ci potrà essere approccio sistemico all’accoglienza sui territori” conclude Fabrizio Coresi di ActionAid.
La speranza per le organizzazioni è che il Ministero prenda atto della situazione e proceda e garantisca maggiore trasparenza sul sistema, quest’ultima giudicata come un antidoto contro il business sulle spalle dell’accoglienza e contro la criminalizzazione della solidarietà.
Il rapporto “L’emergenza che non c’è” è disponibile qui.
La piattaforma è disponibile qui.
Immagine in evidenza di Openpolis
Di Rabia Mehmood e Ottavia Spaggiari su Vita
Non più solo Turchia e Libia, potrebbe essere il Pakistan il nuovo alleato di Bruxelles nell’esternalizzazione delle frontiere.
Lo scorso agosto, mentre i talebani conquistavano Kabul, le truppe Nato lasciavano l’Afghanistan e il Paese piombava in quella che è stata definita l’emergenza umanitaria più grave al mondo, per l’Europa si stava profilando una nuova inaspettata intesa politica.
In quei giorni concitati, il governo pakistano aveva aiutato ad evacuare centinaia di funzionari europei e migliaia di afghani che avevano lavorato per gli Stati Uniti.
“Complimenti alle autorità pakistane per la collaborazione straordinaria,” aveva twittato l’ambasciatore tedesco in Pakistan, affermando che, senza l’aiuto di Islamabad, le evacuazioni non sarebbero state possibili. Il primo ministro pakistano, Imran Khan, aveva ricevuto una chiamata di ringraziamento anche da parte del presidente del Consiglio Europeo e, dopo anni di relazioni tese, in appena una settimana, i ministri degli esteri di Germania, Gran Bretagna e Olanda avevano visitato la capitale del Pakistan, promettendo ricompense per l’impegno nella crisi umanitaria afghana.
L’improvviso disgelo dei rapporti era stato così repentino e clamoroso che, il giornalista Saim Saeed, sul quotidiano americano Politico, aveva definito il Pakistan, “Il nuovo inaspettato migliore amico dell’Europa,” sostenendo però che l’aiuto nell’evacuazione non fosse l’unica ragione della ritrovata armonia tra Islamabad e Bruxelles, arrivata dopo anni di freddezza. Secondo Saeed e diversi analisti, già dallo scorso agosto, l’Europa aveva individuato nel governo pakistano un’altra potenzialità: il Pakistan rappresentava un nuovo potenziale alleato chiave dell’UE nelle politiche di esternalizzazione delle frontiere e nel contenimento dei rifugiati afghani diretti in Europa.
Per Jeff Crisp, ricercatore al Centro di Studi per i Rifugiati dell’Università di Oxford, la strategia europea era chiara. L’emergenza Afghanistan riportava alla memoria la crisi siriana e l’ingresso in Europa, di oltre 1milione di rifugiati nel 2015. “All’epoca, l’UE era stata presa letteralmente alla sprovvista dall’arrivo di così tanti rifugiati,” ha dichiarato Crisp ad Al Jazeera “Con la presa dei Talebani, la priorità per l’Europa è di evitare che si ripeta lo stesso scenario.”
È così che, il 31 agosto, mentre migliaia di profughi afghani cercavano disperatamente di entrare nell’aeroporto di Kabul e salire su un aereo che li avrebbe portati in salvo, i ministri dell’Interno dell’Unione Europea si incontravano in una riunione straordinaria del Consiglio. All’ordine del giorno, la possibilità di resettlement futuri e, soprattutto, l’intenzione di sostenere nel rafforzamento delle frontiere, non solo l’Afghanistan, ma anche i Paesi confinanti e quelli che avrebbero affrontato un’eventuale nuova crisi rifugiati. Poche settimane dopo, la presidente della Commissione Europea annunciava lo stanziamento di un pacchetto da 1 miliardo di euro per l’Afghanistan e le nazioni limitrofe. “I vicini diretti dell’Afghanistan sono stati i primi ad offrire sicurezza agli afghani in fuga,” si legge nel comunicato della Commissione, “Ecco perché a questi Paesi verranno destinati fondi aggiuntivi nella gestione delle frontiere.”
Il linguaggio ricorda gli assai controversi accordi con Turchia e Libia. Non è la prima volta, infatti, che l’Unione Europea premia lautamente un Paese terzo per allontanare i flussi migratori, a scapito del diritto internazionale e dei diritti umani. È del 2016 il patto da 6 miliardi di Euro con la Turchia per fermare le partenze dalle coste turche di richiedenti asilo, in gran parte siriani. Dal 2017, invece, l’UE ha versato circa €57 milioni alle autorità libiche per frenare gli sbarchi dalla Libia, ignorando gli appelli umanitari e, addirittura, il fatto che, in Libia, i migranti siano detenuti in centri di detenzione dove, secondo le Nazioni Unite, vengono commessi “crimini contro l’umanità.
Negli ultimi quarant’anni, dall’inizio dell’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, il Pakistan è diventato una destinazione chiave per gli afghani in fuga da guerre, disordini e violenza. Oggi, oltre 1.4 milioni di rifugiati afghani vivono nel Paese. Dall’inizio del 2021 ad oggi, l’UNHCR ha registrato l’ingresso in Pakistan di oltre 105mila rifugiati afghani. I profughi continuano ad arrivare, principalmente via terra, varcando il confine nelle città di Torkham, nel Pakistan Nord-Occidentale e di Spin Boldak-Chaman, nella provincia sud-occidentale del Balochistan.
Guardando al desiderio di Bruxelles di esternalizzare le frontiere, mai come ora, il Pakistan si trova nella posizione di fare cassa sulla presenza di rifugiati e richiedenti asilo sul proprio territorio.
Secondo Politico, con un occhio alla Turchia e uno alla Libia, il governo pakistano sta già negoziando con l’obiettivo di ottenere una serie di benefici non solo economici, ma anche diplomatici e reputazionali in cambio del contenimento dei profughi nel Paese.
Prima della crisi afghana, Bruxelles aveva condannato l’abuso sistematico dei diritti umani e la costante ambivalenza del Pakistan sulla situazione in Afghanistan, dove Islamabad offriva sostegno sia alla NATO che ai Talebani. Lo scorso Novembre, una delegazione del Parlamento Europeo in Pakistan aveva denunciato, ancora una volta, il pericoloso deteriorarsi della situazione dei diritti umani nel Paese, in particolare la persecuzione delle minoranze religiose e la repressione della libertà di stampa. Ma l’esternalizzazione delle frontiere è una strategia che finisce per indebolire il sistema di monitoraggio dei diritti umani della comunità internazionale. Secondo Akkerman la necessità di trovare nel Pakistan un nuovo alleato nella gestione dei flussi, spingerà sempre più l’UE a guardare dall’altra parte.
“Per anni l’Europa ha criticato il Pakistan e adesso, improvvisamente, lo ritiene un buon Paese,” dice Akkerman, “Esternalizzare le frontiere significa scendere a compromessi durissimi.”
La crescente militarizzazione delle frontiere è già iniziata. Da quando i Talebani hanno ripreso il potere, attraversare le frontiere con il Pakistan è diventato sempre più difficile. Islamabad ha iniziato a rafforzare i confini, respingendo i profughi e deportando chi è sprovvisto di un visto. La crescente fortificazione delle frontiere sta già spingendo sempre più afghani nelle mani dei trafficanti. Un rapporto recente del think tank Mixed Migration Center ha rilevato un aumento nel costo dei viaggi organizzati dai trafficanti. Mentre nel 2020 un attraversamento da Spin Boldak a Quetta costava tra gli 85 e I 105 dollari, oggi costa tra i 90 e in 125 dollari. Secondo lo stesso rapporto, anche le rotte verso ovest stanno cambiando. Mentre prima, i trafficanti trasferivano le persone dall’Afghanistan all’Iran attraverso il Pakistan, sempre più spesso adesso, cercano di evitare il Pakistan, trasferendo le persone direttamente in Iran, una rotta più breve ma molto più pericolosa. In questo caso infatti i richiedenti asilo devono utilizzare tunnel sotterranei per oltrepassare i muri al confine con l’Iran.
Per chi invece riesce ad entrare in Pakistan, la vita rimane difficile. Spesso dipinti dai media come terroristi e spacciatori e utilizzati come capro espiatorio per spiegare la fragile situazione economica pakistana, i rifugiati afghani sono sottoposti a discriminazioni costanti e, in molti casi, costretti a convivere nel terrore della deportazione. Secondo Human Rights Watch, nel 2016 le autorità Pakistane avevano costretto più di 500mila persone a ritornare in Afghanistan.
Eppure, ogni giorno, migliaia di profughi cercano di lasciare l’Afghanistan. Più dell’80% del Paese, si trova a combattere con una gravissima siccità che sta riducendo drasticamente la produzione alimentare. 22.8 milioni di persone, circa la metà della popolazione, stanno subendo gravi carenze alimentari. Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, nei prossimi mesi, l’Afghanistan potrebbe affrontare una povertà universale con il 97% della popolazione sotto la soglia di povertà di 1,90 dollari al giorno.
Dall’inizio della crisi umanitaria, circa 28mila afghani sono state accolte in ventiquattro Paesi dell’Unione Europea. A dicembre, quindici dei ventisette stati membri hanno annunciato l’intenzione di accogliere altri 40mila afghani. Più della metà delle persone arriveranno in Germania, 3.159 approderanno in Olanda e 2.500 in Spagna e Francia. Gli altri undici Paesi hanno invece annunciato che accoglieranno quote più ridotte. La decisione è arrivata dopo che, lo scorso ottobre, l’Alto Comissario delle Nazioni Unite, Filippo Grandi, aveva chiesto all’UE di ricollocare altri 42.500 afghani nei prossimi cinque anni.
Benché il Commissario per gli Affari Interni dell’Unione Europea abbia definito questo nuovo impegno, “un incredibile atto di solidarietà,” i numeri di queste nuove accoglienze impallidiscono di fronte alla portata della crisi umanitaria. Secondo il New York Times, nei quattro mesi tra lo scorso ottobre e gennaio, oltre un milione di persone si sono messe in viaggio verso Ovest.
Tra i leader europei, rimane chiara l’intenzione di bloccare l’arrivo di nuovi rifugiati afghani. Il mese scorso in una riunione del Consiglio di Sicurezza ONU, il Primo Ministro norvegese ha profilato la necessità di nuovi accordi con Paesi terzi per contenere i rifugiati. “Abbiamo bisogno di nuovi patti e impegni per assistere ed aiutare una popolazione civile estremamente vulnerabile,” ha dichiarato. “Dobbiamo fare qualsiasi cosa per evitare una nuova crisi migratoria e una nuova fonte di instabilità, nella regione e oltre.”
Secondo Akkerman, un nuovo accordo tra UE e Pakistan è molto probabile, ma mostra tutta la fragilità delle politiche europee sull’immigrazione. “L’Europa sta correndo da hotspot a hotspot,” dice Akkerman. “Sul lungo periodo questa corsa non è sostenibile.”
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Di Luca Rondi su Altreconomia
A pochi metri dal confine di ponte San Luigi, a Ventimiglia, Mosaab si affaccia dal parapetto guardando il porticciolo di Mentone, prima cittadina in territorio francese. “Dopo essere sopravvissuto alla Libia – spiega – non avrei mai immaginato che passare questo confine sarebbe stato così difficile”. Per l’ottava volta il giovane diciottenne originario del Sudan del Sud è stato identificato e riaccompagnato sul territorio italiano dalla polizia d’Oltralpe. È il numero 39 – dice il foglio che ne sancisce il divieto di ingresso – di una giornata quasi primaverile di fine gennaio. Mosaab è solo uno degli oltre 24mila respingimenti registrati al confine italo-francese nel 2021: secondo i dati ottenuti da Altreconomia provenienti dal ministero dell’Interno il 13% in più rispetto al 2020 e pari al 46% in più del 2019. “Da quando la collaborazione tra le polizie è più intensa è sempre più difficile passare e il ruolo dei passeur è sempre più rilevante”, spiega Enzo Barnabà, scrittore e storico che abita a poche centinaia di metri dal confine italo-francese.
Alla stazione italiana di Ventimiglia la polizia controlla a intermittenza gli accessi ai treni: nel primo mattino un dispiegamento di sette agenti rende pressoché impossibile a tutti coloro che hanno determinate caratteristiche somatiche salire sul treno in mancanza di documenti: due poliziotti presidiano l’uscita dalle scale che dal tunnel portano sulla piattaforma. Ma all’ora di pranzo, nel cambio turno, sulle piattaforme dei binari si perdono le tracce degli agenti almeno per un paio di ore. Allo stesso modo i francesi non riescono a garantire un controllo costante. “Il venerdì pomeriggio, quando c’è il mercato di Ventimiglia, meta da parte dei cittadini francesi, in treno praticamente non controllano nessuno” spiega Alessandra Garibaldi, operatrice legale di Diaconia Valdese (diaconiavaldese.org). “Così come quando gioca il Nizza: il prefetto concentra i controlli allo stadio e il passaggio è più facile” aggiunge Barnabà. Non sono “falle del sistema” ma la consapevolezza che non è possibile bloccare migliaia di persone in una cittadina al confine tra due Stati membri dell’Unione europea. Un confine sempre più militarizzato con “infinite” possibilità di passarlo: a piedi, in treno o in camion percorrendo le strade statali lungo l’autostrada. Tanto che da Bordighera, la città prima di Ventimiglia viaggiando in direzione Nizza, le piazzole di sosta sono chiuse e nell’ultimo autogrill italiano non è possibile la sosta per i tir con un peso maggiore di 3,5 tonnellate.
Bashir, diciottenne originario del Ciad, racconta che è la seconda volta che prova ad attraversare e viene respinto. “Ieri abbiamo pagato 50 euro per sapere dove fosse l’imbocco del sentiero – spiega -. Per passare in macchina ne servivano 300 ma io non ho tutti quei soldi”. Bashir è arrivato in Italia da appena 30 giorni ed è la seconda volta che prova ad attraversare a piedi: la polizia francese l’ha intercettato nella tarda serata del giorno prima e poi trattenuto tutta la notte. Da Grimaldi, un Paese di meno di 300 abitanti a otto chilometri da Ventimiglia parte il sentiero che è stato ribattezzato “Passo della morte”. Diversi oggetti segnano la strada: valigie, ombrelli, spazzolini, documenti “stracciati”. Chi transita si alleggerisce passo dopo passo di tutto ciò che è superfluo. Superata l’autostrada, il sentiero prosegue verso l’interno della vallata per poi risalire dritto verso il crinale della montagna. Un “buco” nella rete metallica permette l’ingresso in Francia, da quel punto in poi è più difficile seguire le tracce della strada. Di notte, le persone sono attratte dalle luci di Mentone sotto di loro. Puntano verso il basso rischiando di scivolare nel precipizio. “È un sentiero che hanno utilizzato gli ebrei che scappavano in Francia, gli ustascia che scappavano dall’ex Jugoslavia negli anni 50. Oggi lo percorrono i migranti correndo gli stessi rischi di sempre” spiega Barnabà che su quel sentiero e sui “ricorsi” storici ha pubblicato un libro dal titolo “Il Passo della Morte” pubblicato per Infinito edizioni. Un confine, quello tra Italia e Francia, che resta mortale.
Il primo febbraio è stato trovato il corpo carbonizzato di un migrante sopra il pantografo di un treno diretto da Ventimiglia a Mentone. Una notizia arrivata poche ore dopo quella dell’identificazione di Ullah Rezwan Sheyzad, un giovane afghano di 15 anni trovato morto lungo i binari della linea ferroviaria di Salbertrand, in alta Valle di Susa, lo scorso 26 gennaio mentre tentava di raggiungere la Francia attraverso la rotta alpina.
Aboubakar è stato respinto insieme a Bashir nonostante i suoi sedici anni: sul foglio di respingimento la polizia ha indicato la maggiore età. Le persone rintracciate vengono prima accompagnate nella sede della polizia francese, prima del confine del ponte San Luigi e successivamente riconsegnate, un centinaio di metri più in su percorrendo la strada in direzione Ventimiglia, alle autorità italiane di fronte alla sede della polizia di frontiera. “Teoricamente la procedura di rifiuto di ingresso implicherebbe un esame individuale delle persone e la garanzia del rispetto di certi diritti per le persone fermate – spiega Emilie Pesselier, coordinatrice del progetto sulle frontiere interne francesi dell’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (anafè.org) -. Ma alla frontiera franco-italiana questo non succede: non c’è nessuna informazione legale sulla procedura e sui diritti, nessuna possibilità di contattare un avvocato o un parente, e nessuna possibilità di chiedere l’ingresso nel territorio in regime di asilo. Inoltre, le persone arrestate possono essere private della loro libertà in locali adiacenti alla stazione della polizia di frontiera francese senza alcun quadro giuridico o diritto e in condizioni di reclusione poco dignitose: ci sono solo panche di metallo attaccate alle pareti degli edifici modulari. E le persone restano rinchiuse in queste condizioni a volte per tutta la notte. Anche le persone vulnerabili”.
Nel 2021 secondo i dati ottenuti da Altreconomia su un totale di 24.589 respingimenti la maggioranza dei respinti dalla Francia verso l’Italia proviene dalla Tunisia (3.815), seguiti dal Sudan (1.822) e dall’Afghanistan (1.769). Un aumento, nel totale, rispetto al 2019 (16.808) e al 2020 (21.654). Ormai da quasi sette anni – giugno 2015 – la Francia mantiene i controlli ai confini interni per dichiarate “ragioni di sicurezza” nonostante il periodo massimo previsto dal codice Schengen sia di 24 mesi. L’eccezionalità diventa normalità con la “benedizione” delle istituzioni europee. “La Commissione non ha mai fermato queste procedure -spiega l’avvocata Anna Brambilla dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it) – si è sempre limitata a ricordare agli Stati il rischio di progressivo svuotamento dello spazio di libera circolazione a causa del prolungato ripristino dei controlli alle frontiere interne e a suggerire misure alternative come i controlli di polizia. Oggi la Commissione torna a proporre di rafforzare la strategia degli accordi bilaterali di riammissione e di cooperazione di polizia”. È il “cambiamento di paradigma” nella cooperazione con i Paesi terzi (e non) previsto dal Patto sulla migrazione e l’asilo presentato nel settembre 2020 al Parlamento europeo: procedure di riammissione più semplici e senza garanzie in termini di rispetto dei diritti. “Da un rischio di svuotamento di significato di alcune disposizioni si passa al consolidamento di prassi illegittime al punto che si modifica il testo normativo per farle diventare legittime”.
Questi “accordi” hanno così effetti devastanti sulle persone, costrette a tentare più e più volte di attraversare ma anche su Ventimiglia. “È una città che non si è mai adattata a quello che è il transito delle persone affrontando la migrazione sempre come fenomeno emergenziale – continua Garibaldi, dal 2017 operatrice legale al confine -. Si pensa che l’unico modo di gestire la situazione sia aumentare le forze dell’ordine ma i risultati sono evidenti”. Le persone vivono per strada. Adulti, giovani, donne e bambini. La Caritas prova a sistemare le famiglie in transito negli appartamenti ma non sempre ci riesce. “La notte è il momento più complesso – spiega Christian Papini, il direttore della Caritas Intermelia -. Devi fare attenzione perché ti possono rubare la tenda, picchiare. Questa ‘paura’ si ripete ogni giorno. Non avere una rete che ti protegge, nessuna nicchia sicura porta a complicanze, spesso vulnerabilità psichiatrica. Le persone cominciano ad abusare di sostanze psicotrope e alcol e la tensione in città non può che aumentare”. La difficoltà nell’attraversare la frontiera rende tutto più complesso. “Chi non riesce a passare e resta ‘bloccato’ in un imbuto, che è Ventimiglia, inizia a vivere per strada e facilmente inizia a delinquere e magari a fare il passeur. Perché non ha alternative” conclude Garibaldi.
In questo modo, spesso le tensioni si realizzano tra i passeur che hanno promesso “false” soluzioni alle persone che vengono respinte. La Caritas nel mese di agosto 2021 ha registrato 180 interventi di ambulatorio medico legati a ferite da taglio o contusione. Piccoli “regolamenti di conti” in un contesto paradossale in cui i controlli portano ad aumentare le attività illecite. Se si considera che nel 2021 i respinti dalla Francia all’Italia sono stati 25mila e la “tassa” per conoscere anche solo il sentiero da percorrere è di 50 euro mentre il passaggio in macchina, come detto, arriva a costare fino a 300 euro a persona si capisce l’entità di un’economia sommersa ma visibile a tutti in una città militarizzata. “Le istituzioni non ci sono. Ora si parla di aprire un centro, lontano dalla città e su un’area che è a rischio dissesto idrogeologico. È tutto detto e la situazione è sempre più difficile nonostante i numeri dei transiti siano in calo” racconta Papini che lavora a Ventimiglia dal 2001. Si è passato da circa 800 persone al giorno nel 2016, alle 200 di oggi. “Ma chi arrivava all’inizio, sette anni fa, aveva speranza di passare. Oggi non è più così. Le persone sanno che dovranno tentare tante volte e sono esauste. Giusto ieri è arrivata una famiglia con due figli in carrozzina. Tutto questo è disumano”.
Immagine in evidenza di Luca Rondi/Altreconomia
Di Eleonora Camilli su Redattore Sociale
Due studenti stranieri su tre nelle scuole italiane (il 65,4 per cento) sono nati nel nostro paese. L’incidenza sale al 74,6% nelle scuole primarie e all’81,9% in quelle dell’infanzia. In totale sono oltre 860 mila gli stranieri residenti che avrebbero diritto di accesso alla cittadinanza italiana se questa fosse estesa, con efficacia retroattiva, a tutti i nati sul territorio nazionale (nel 95% dei casi bambini e ragazzi con meno di 18 anni). Sono i dati resi noti dal Centro Studi e Ricerche Idos e la Rete che promuove la campagna “Dalla parte giusta della storia” nel trentesimo anniversario della Legge 91/92. Una legge, varata il 5 febbraio di trenta anni fa e basata sullo ius sanguinis, che secondo gli studiosi oggi penalizza oltre 1,5 milioni di potenziali italiani. Se sono, infatti, oltre 800mila i nati in Italia che potrebbero usufruire di uno ius soli potenziale, sono quasi altrettanti i ragazzi cresciuti nel nostro paese che avrebbero diritto di cittadinanza con l’introduzione dello ius culturae.
Intanto il numero dei “nuovi cittadini” che vivono nel Paese è in continua crescita: erano 286 mila al Censimento del 2001, oltre il doppio, 671 mila, a quello successivo (2011), e più di cinque volte tanti nel 2020, quando se ne sono contati oltre 1 milione e mezzo. Se prima dell’ultimo decennio il numero di acquisizioni annuali era piuttosto contenuto (4 mila quelle registrate dal ministero dell’Interno nel 1992, 12 mila nel 2002 e 66 mila nel 2012 quelle rilevate dall’Istat), dal 2013 il dato annuale si è sempre attestato sopra le 100 mila unità, toccando il picco più alto nel 2016 (201.000). Più di recente, dopo la flessione registrata nel 2017 (147 mila) e 2018 (112.500), si è osservato un nuovo aumento nel 2019 (127 mila, +12,9%) e ancora nel 2020 (132 mila, +3,8%), pur con i rallentamenti delle attività amministrative dovuti all’emergenza pandemica. Inoltre, secondo Idos, nel periodo 2012-2020 le nascite di bambini stranieri in Italia sono state ben 630 mila (di cui quasi 60 mila nell’ultimo anno, rappresentando un settimo di tutti i nuovi nati, 14,8%).
“Vogliamo che sia l’ultimo compleanno di questa legge ingiusta – dichiara Ada Ugo Abara, presidentessa di ArisingAfricans, una delle associazioni delle nuove generazioni che animano la rete – Nelle settimane scorse, anche io, come la legge, ho compiuto 30 anni. E nonostante viva in Italia fin da bambina, sia trevigiana, lavori da anni come professionista, non ho ancora la cittadinanza. Attorno a noi cambia tutto, tranne questa legge. Per questo abbiamo lanciato la challenge #ècambiatoQUASItutto con cui invitiamo tutte le persone a postare una propria foto del ‘92 e raccontare cosa è cambiato da allora. Non ci accontentiamo delle promesse di questi anni: dopo il naufragio del ddl Zan ci aspettiamo che gli esponenti politici come Brescia e Letta, che sostengono di avere a cuore la riforma, non perdano l’ultima occasione di fare avanzare i diritti sociali e civili in questa legislatura”.
Gli attivisti e le organizzazioni della rete promettono battaglia lanciando una serie di iniziative, che partiranno proprio il 5 febbraio con la challenge digitale #ècambiatoQUASItutto e l’invio di una memoria alla Commissione Affari Costituzionali e ai partiti per chiedere una nuova legge entro la fine della legislatura.
Secondo Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche Idos, “soprattutto in una fase storica come quella attuale, in cui l’Italia ha un urgente bisogno di rilancio sociale, civile, economico e culturale è grave dover constatare che un ricco e fresco potenziale innovativo, come quello che saprebbero esprimere, anche in preziosa chiave transnazionale, le nuove generazioni, se solo venissero riconosciute nella pienezza dei loro diritti di cittadinanza, venga ancora mortificato e tenuto ai margini da una legge antiquata, nata già vecchia”.
Nonostante il tema della riforma della cittadinanza sia stato evocato più volte, dopo il tentativo naufragato nel 2017, ci sono attualmente tre disegni di legge fermi alla Camera (a firma Laura Boldrini, Renata Polverini e Matteo Orfini). “E’ una legge che in ben 30 anni nessuna legislatura ha avuto la dignità e il coraggio di riformare, perseguendo un immobilismo politico tanto più colpevole quanto più non cessa di venire alimentato, per un verso, da vuoti schemi ideologici e, per altro verso, da pavidi opportunismi elettorali – continua Di Sciullo -. E a farne le spese, oltre alle centinaia di migliaia di “italiani di fatto”, è l’intero sistema Paese”.
Fanno parte della Rete per la riforma della cittadinanza: Afroveronesi, ArisingAfricans, Black LivesMatter Bologna, QuestaèRoma, Festival Divercity, SonrisasAndinas, Collettivo Ujamaa, Rete degli studenti medi, Unione degli Stundenti (UDS), Unione degli Universitari (UDU), Link, Rete della conoscenza, ActionAid Italia, Rete Saltamuri, Restiamo Umani Brescia, Volare e decine di attiviste e attivisti di nuove generazioni di tutta Italia.
Di Annalisa Camilli su Internazionale
“Una donna, madre di due figli, è stata picchiata mentre era rinchiusa nel carcere di Ain Zara. È stata arrestata durante la retata che c’è stata nell’area di Gargarish. Chi gestisce la prigione controlla i rifugiati, compie abusi contro le donne. Siamo molto spaventati”: è un passaggio di una lettera inviata dai migranti rinchiusi nel carcere di Ain Zara, nella periferia meridionale di Tripoli, all’account Twitter Refugees in Libya, un account gestito da rifugiati e attivisti in Libia.
Centinaia di persone sono incarcerate in seguito al blitz avvenuto tra l’8 e il 9 gennaio, compiuto mentre un gruppo di rifugiati protestava davanti alla sede dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) chiedendo di essere trasferiti dalla Libia, un paese considerato non sicuro, in cui i migranti sono sottoposti ad abusi di ogni tipo, detenzione arbitraria e violazioni sistematiche dei diritti umani. Era il 2 febbraio 2017 quando l’allora presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni firmò il Memorandum di intesa (Mou) con Tripoli sui migranti che prevedeva di ripristinare l’accordo di amicizia Italia-Libia del 2008. Il giorno successivo i leader europei salutavano con favore il patto italo-libico sull’immigrazione in un vertice a Malta.
L’accordo prevedeva la formazione e il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica – che avrebbe avuto il compito di pattugliare le coste per fermare le imbarcazioni di migranti – e il finanziamento dei centri di detenzione libici, chiamati dall’accordo “centri di accoglienza”. Nonostante le numerose denunce di violazioni dei diritti umani, di “inimmaginabili orrori” (documentati dall’Onu nel 2018) commessi nei centri di detenzione libici finanziati dal governo italiano “dai funzionari pubblici, dai miliziani che fanno parte di gruppi armati e dai trafficanti”, in un contesto di assoluta impunità, il governo italiano nel 2020 ha prorogato automaticamente l’accordo per altri tre anni (fino al 2023). Cinque anni dopo la firma del Memorandum, la guardia costiera libica ha fermato e riportato indietro nel paese 82mila persone.
Secondo l’ong Oxfam di più di 20mila migranti riportati in Libia si sono perse le tracce. Per finanziare la guardia costiera e i centri di detenzione, l’Italia ha speso quasi un miliardo di euro. Secondo Amnesty international “uomini, donne e bambini rimpatriati in Libia devono affrontare detenzioni arbitrarie, torture, condizioni disumane, stupri e violenze sessuali, estorsioni, lavori forzati e uccisioni. Invece di affrontare queste continue violazioni dei diritti umani, il governo libico di unità nazionale continua a essere complice degli abusi e a rafforzare l’impunità, come illustrato dalla recente nomina di Mohamed al Khoja a direttore del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (Dcim). Al Khoja gestiva il centro di detenzione di Tariq al Sikka, dove sono stati documentati abusi ai danni dei migranti”.
In un rapporto del 17 gennaio 2022, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha detto di provare una “grave preoccupazione” per le continue violazioni dei diritti umani contro rifugiati e migranti in Libia e ha confermato che “la Libia non è un porto di sbarco sicuro per rifugiati e migranti”. Il rapporto conferma inoltre che la cosiddetta guardia costiera libica ha continuato a operare in modi che mettono a grave rischio la vita e il benessere dei migranti e dei rifugiati che tentano di attraversare il mar Mediterraneo. Nonostante questo, un rapporto interno del comandante dell’operazione navale dell’Unione europea Eunavfor Med Irini, pubblicato dall’Associated press il 25 gennaio 2022, conferma che le autorità europee sono intenzionate a continuare la cooperazione con la guardia costiera libica.
L’attuale accordo dell’Italia con la Libia scade nel febbraio del 2023, ma si rinnoverà automaticamente per altri tre anni se le autorità non lo annulleranno prima di novembre del 2022. In concomitanza con il quinto anniversario dell’accordo, centinaia di associazioni e di ong, italiane, libiche, africane ed europee, hanno chiesto che il governo italiano revochi il patto, presentando un’analisi degli effetti dell’accordo sulla vita degli stranieri nel paese nordafricano. “Il Memorandum Italia-Libia sta, nei fatti, agevolando la strutturazione di modelli di sfruttamento e riduzione in schiavitù all’interno dei quali sono perpetrate in maniera sistematica violenze tali da costituire crimini contro l’umanità”, denuncia il rapporto.
Immagine in evidenza di Mahmud Turkia/Afp
Di Rosita Rijtano su lavialibera
Sovraffollamento, carenza di vestiti adatti al gelo, e di cibo. Sono le condizioni in cui vivono i richiedenti asilo che nei mesi scorsi sono arrivati in Polonia attraversando il confine bielorusso. Lo denunciano associazioni umanitarie e volontari che chiedono la chiusura delle strutture in cui hanno trattenuto quasi tutte le persone che da maggio a oggi sono riuscite a superare la frontiera. Centri di sorveglianza per stranieri simili ai nostri Centri per il rimpatrio (Cpr), in cui “non ci sono gli standard minimi per il rispetto dei diritti umani”, dice a lavialibera Monia Matus di Grupa Granica, sigla sotto cui sono riunite più organizzazioni non governative polacche, aggiungendo che il Paese non ha una politica migratoria: “Una lacuna che rende difficile processare le richieste d’asilo, con il conseguente rischio di possibili abusi”. Non va meglio a chi ancora si nasconde nella foresta tentando di superare il valico polacco, dove nelle scorse ore è iniziata la costruzione del muro annunciato a novembre.
Sin dall’inizio, il governo di destra guidato da Mateus Morawiecki ha ostacolato gli aiuti umanitari al confine, agitando lo spettro dell’invasione nonostante i numeri fossero gestibili. A settembre il parlamento ha adottato lo stato di emergenza, un provvedimento che ha imposto delle restrizioni nella lingua di terra a tre chilometri dalla Bielorussia, limitando i soccorsi. Il provvedimento è stato prorogato di mese in mese fino a dicembre, quando sono state decise nuove regole. Ma nei fatti sembra che non molto sia cambiato. Il 6 gennaio Medici senza frontiere ha annunciato l’abbandono della Polonia per l’impossibilità di accedere alla zona confinaria.
Un’altra ferita aperta sono i respingimenti legalizzati a ottobre dal Sejm, la camera bassa del parlamento di Varsavia, con un emendamento alla legge sugli stranieri: i migranti che superano il confine vengono riportati in Bielorussia, senza che venga presa in considerazione la loro volontà di richiedere asilo. Una pratica che viola i trattati internazionali, ma che in questi mesi in Polonia è diventata prassi nel silenzio d’Europa. Dopo essere stato respinto più volte, chi è ritornato a Minsk ora si trova davanti poche opzioni. Stando a quanto hanno raccontanto a lavialibera alcuni di loro, nelle ultime settimane Lukashenko sta imponendo un ricatto: o vengono arrestati, o rientrano nel proprio Paese, o riprovano a entrare in Polonia.
Qui, in totale, si contano sette centri di sorveglianza per stranieri, di cui uno aperto di recente proprio per far fronte al flusso migratorio in arrivo dalla Bielorussia. Al momento si stima che ospitino circa duemila individui. Tutte le strutture, incluse quelle in cui ci sono i bambini, si trovano in condizioni pessime. “Il principale problema è il sovraffollamento – spiega Matus –. Ma le persone con cui abbiamo parlato denunciano anche la carenza di cibo e di vestiti adeguati al freddo”. Pochissime le postazioni internet, a cui ognuno ha accesso non più di quindici minuti al giorno. Banditi gli smartphone dotati di fotocamera e di strumenti di registrazione audio.
Un’altra difficoltà generale è legata ai lunghi tempi di attesa per ottenere risposta alla richiesta di asilo. In teoria, non dovrebbero passare più di tre mesi. In pratica, grazie alla possibilità di prolungare di altri tre mesi il soggiorno all’interno di queste strutture, alcuni si ritrovano imprigionati per molto tempo. “Di contro, le domande accolte sono pochissime”. Nel 2020, per esempio, hanno ottenuto protezione internazionale solo 392 persone, a fronte delle 2803 che ne avevano fatto richiesta. “Il governo polacco non ha mai brillato per la gestione dei richiedenti asilo, ora la situazione è solo peggiorata”, conclude Matus.
Molto critica la situazione a Wedrzyn, collocato all’interno di una caserma per l’addestramento militare, a circa cinquanta chilometri dalla Germania. La struttura ospita 593 uomini, con camere da 24 posti letto ciascuna. Hanna Machinska, vice garante civica (l’istituzione che in Polonia si occupa di difendere i diritti umani), ha visitato il centro il 24 gennaio scorso, documentando che la densità rende impossibile il rispetto dei diritti e riduce la funzione di Wedrzyn a quella di mero “isolamento”. L’unico spazio aperto è un piccolo cortile recintato dal filo spinato.
La vice garante ha anche fatto notare che la superficie minima prevista per gli stranieri in queste strutture (due metri quadri) è persino inferiore a quella dei detenuti nelle carceri (tre metri quadri) e al di sotto degli standard raccomandati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (quattro metri quadri). Non solo: i richiedenti asilo si trovano in un cattivo stato mentale, esasperato dal fatto di essere da molto tempo costretti a rimanere in un luogo così sovraffollato.
Da mesi, nel centro si susseguono le proteste. L’ultima qualche giorno fa. Uno sciopero della fame a cui hanno partecipato, tra gli altri, sette siriani. Il gruppo si trova a Wedrzyn da dicembre, quando spontaneamente si è presentato alla Guardia di frontiera polacca accompagnato dagli attivisti di Grupa Granica. Due di loro, Munzer e Gaith, hanno visto la propria città natale distrutta dall’Isis e sono stati più volte incarcerati dal regime siriano per la propria attività politica. In particolare – riportano i volontari dell’associazione –, Munzer ha paura delle armi e il posto in cui si trova gli riporta alla mente le traumatiche esperienze vissute in Siria. “Non possiamo restare ancora in prigione, rispettiamo il Governo polacco, ma non c’è alcuna ragione per tenerci qui”, ha detto il giovane agli attivisti.
Silvia Cavazzini, una volontaria italiana che parla ogni giorno con alcune persone all’interno della struttura, aggiunge che anche le cure mediche sono carenti: a un ragazzo che soffre di epilessia, per esempio, non gli sono state riconosciute tutte le medicine di cui aveva bisogno. “Ma al di là dei casi specifici, tutti lamentano di stare male e di non ricevere abbastanza supporto”. Inesistenti, poi, le misure anti-Covid: “Hanno detto – prosegue Cavazzini – di non aver ricevuto alcuna mascherina, né di aver fatto un tampone all’ingresso”. In uno dei cinque blocchi che compongono il centro, la situazione sarebbe persino peggiorata dopo una rivolta, quando i tafferugli avrebbero portato a una rappresaglia delle guardie che ha ripercussioni ancora oggi: un limitato accesso alla Rete.
Intanto al confine sono partiti i lavori per la costruzione di una barriera lunga circa 186 chilometri, che la Guardia di frontiera polacca, sul proprio sito ufficiale, definisce “il più grande investimento nella storia” del corpo. La struttura si compone di pali di acciaio alti cinque metri e sormontati da una rete di filo spinato. Non mancano tecnologie all’avanguardia: sensori di movimento e telecamere. Il costo è di 353 milioni di euro. “Vogliamo che la recinzione sia installata entro la fine della prima metà del 2022”, ha dichiarato a novembre il ministro degli Interni di Varsavia Mariusz Kaminsky.
Contro il finanziamento del muro con i soldi dell’Unione europea, si era espresso l’ex presidente dell’europarlamento David Sassoli, morto l’11 gennaio: “Abbiamo visto nuovi muri, i nostri confini in alcuni casi sono diventati confini tra morale e immorale, tra umanità e disumanità, muri eretti contro persone che chiedono riparo dal freddo dalla fame dalla guerra dalla povertà”, ha detto nel suo ultimo video messaggio pubblicato in occasione delle festività natalizie, aggiungendo: “Il periodo del Natale è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini e quando combattiamo contro tutte le ingiustizie”.
Ma sulla questione l’Europa è divisa. Se l’opinione di Sassoli aveva una spalla sicura nella presidente della Commissione Ursula von der Leyen, la pensano diversamente i 12 Stati Ue che hanno firmato una lettera aperta in cui si legge che “una barriera fisica è un’efficace misura di protezione della frontiera a servizio degli interessi dell’intera Europa”. Un’analisi interna al Consiglio, letta dalla testata Politico, riporta che i Paesi interessati potrebbero ottenere i fondi nel caso in cui rispettino leggi e condizioni Ue, garantendo la supervisione delle istituzioni e in particolare accesso alla frontiera a Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera). Un ultimo segnale di apertura è arrivato a novembre, quando il presidente del Consiglio Ue Charles Michel in visita a Varsavia, ha affermato che “basandosi sull’opinione del servizio legale del Consiglia, (il finanziamento, ndr) è legalmente possibile”.
Immagine in evidenza su pixabay
Su Nigrizia
Un report, il secondo, per mettere in evidenza la situazione dei minori stranieri non accompagni (msna) in Italia e la concretezza di una legge del 2017 creata ad hoc, la legge Zampa. Il Cespi, Centro studi di politica internazionale, con il suo Osservatorio nazionale sui minori stranieri non accompagnati, fa il punto su cosa sia successo, dall’inizio della pandemia, a questi 11.159 ragazzi e ragazze che si trovavano, a novembre del 2021, secondo i dati del ministero del lavoro e delle politiche sociali, sul nostro territorio nazionale.
Lo fa partendo da numeri che fotografano la presenza di oltre 11mila minori, per lo più maschi (97,3%), 17enni (62,9%) provenienti dal Bangladesh (25%), Tunisia (14%), Egitto (14%) e Albania (11%). La piccola percentuale femminile (2,7%) vede le ragazze arrivare per lo più dalla Costa d’Avorio (19,8%) e dall’Eritrea (9,6%). La maggior parte di questa popolazione straniera adolescente è accolta in Sicilia (29,7%), che è seguita da Friuli-Venezia Giulia (9%) e Puglia (8,2%).
Presentata l’entità del fenomeno msna, l’Osservatorio si sofferma sull’analisi di quel che la legge Zampa prevede nero su bianco e quel che invece è la realtà. Sottolineando l’alta ed entusiasta adesione all’indomani della promulgazione della norma, che prevede la figura del tutore volontario per i minori non accompagnati. Alla celere risposta di centinaia di persone, provenienti da ambiti del sociale, associazionismo, educazione, che hanno aderito alla richiesta di questa figura di supporto, non è corrisposta altrettanta rapidità dei tempi burocratici che avrebbero dovuto permettere effettivamente a queste persone di dare inizio al loro percorso di sostegno.
Le selezioni, le nomine, la formazione, l’accompagnamento al percorso di coloro che si erano offerti per il ruolo di tutore non hanno avuto una tempistica/modalità adatta al funzionamento della macchina tutoriale. Davanti a delle disponibilità della società civile non c’è stata una risposta organizzativa di quella governo-amministrativa.
In tutto questo non ha poi giovato l’arrivo della pandemia e le restrizioni per il covid-19. L’Osservatorio Cespi analizza nel dettaglio quali siano stati i contraccolpi su questa tutela volontaria e sulle necessarie relazioni che devono intercorrere tra la persona del tutore e quella del minore straniero. Gli oltre 10mila ragazzi e ragazze si sono infatti trovati chiusi nelle strutture e la maggior parte dei rapporti che avevano è praticamente scomparsa. Così come i corsi dedicati, le uscite occasionali e i momenti di socializzazione al di fuori dei contesti di accoglienza.
Senza contare come la prassi consolidata della quarantena obbligatoria da trascorrere sulle navi, nonostante l’esito del tampone negativo, abbia interessato anche questa fascia d’età per buona parte della fase pandemica. Tra coloro che arrivavano via mare nel 2020/2021 e venivano messi in isolamento forzato vi erano anche i msna fino a ottobre 2021. Questo è avvenuto nonostante, come riporta Osservatorio, da più parti le associazioni e organizzazioni impegnate nella tutela dei minori avessero sottolineato che tale procedura andava contro quanto stabilito dalla legge Zampa su accoglienza e accompagnamento dei minori.
Sono state necessarie ben tre morti di msna sulle navi quarantena perché i tribunali di Palermo e Catania aprissero delle inchieste su tale prassi e arrivassero a interrompere una pratica diventata abitudinaria nonostante fosse palesemente lesiva dei diritti dei minori.
Il monitoraggio della legge Zampa da parte del Cespi sottolinea la distanza tra ciò che la legge prevede e l’effettiva messa in pratica della norma in tema di accoglienza e accompagnamento delle situazioni che questi minori presentano. L’impianto di verifica dell’Osservatorio coadiuvato dall’aiuto di Defence for children international Italia prende in esame per il proprio focus quattro regioni, Sicilia, Puglia, Liguria e Marche; mettendo alla luce una criticità non da poco nel sistema accoglienza e migrazione: l’alto numero di fughe tra i minori stranieri che arrivano in Italia.
E, soprattutto, il problema concreto e diffuso dell’apolidia di chi sbarca sul territorio nazionale. La mancanza di riconoscimento di una nazionalità comporta infatti tutta una serie di problematiche nella gestione dei diritti. Problematiche cui si affianca la mancata conoscenza del fenomeno degli apolidi da parte degli operatori che hanno a che fare con questi minori e che sono figure di riferimento importanti non solo per rendere coscienti i minori stessi ma per dare inizio il prima possibile alle procedure di riconoscimento prima della maggiore età. Accanto a questa seria difficoltà, il Cespi sottolinea come sia necessario creare dei meccanismi stretti di scambio tra le istituzioni coinvolte in questo riconoscimento.
Immagine in evidenza di Nigrizia
Su Centro Astalli
Sette migranti di nazionalità bengalese, sono morti mentre tentavano di raggiungere Lampedusa su un’imbarcazione che trasportava circa 280 persone, partita dalla Libia tre giorni fa. Tre cadaveri sono stati trovati a bordo, mentre altri quattro sono deceduti sulla terraferma. Tutti vittime dell’ipotermia.
P. Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli, esprime cordoglio per le vittime: “in questo giorno di lutto rivolgiamo un appello alle istituzioni nazionali e sovranazionali: non condanniamo all’invisibilità uomini e donne in cerca di una vita dignitosa.
Ritorniamo a una politica che applichi le convenzioni internazionali, che abbia una visione di governo ispirata al rispetto dei diritti umani e che non lasci morire nell’indifferenza alcun essere umano. In un momento cruciale per il Paese, per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, queste morti richiamano ai principi fondanti la nostra Costituzione che fa dell’Italia uno Stato che accoglie lo straniero nel cui Paese non siano riconosciute le medesime libertà democratiche garantite qui (articolo 10 comma 3).
Si agisca per salvare vite creando vie di ingresso legali per i migranti che alle porte d’Europa chiedono di entrare in cerca di protezione, accoglienza e integrazione”.
Immagine in evidenza di Centro Astalli
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