Su Avvenire
La Polonia ha iniziato i lavori per erigere il muro anti-profughi al confine con la Bielorussia. Un’opera che l’opposizione attacca, definendola senza mezzi termini «il muro della vergogna».
Ad annunciare l’avvio del cantiere è stata la Guardia di frontiera: si tratta della barriera che il governo di Varsavia vuole alzare per proteggere il Paese dall’ondata di profughi usati come un’arma dal dittatore Aleksander Lukashenko. Un flusso di uomini, donne e bambini che, a piedi, sognano di raggiungere l’Europa, attraversando boschi, paludi e il fiume che separa i due Stati, sfidando in questi mesi anche il gelo.
L’esecutivo di Morawiecki ha stanziato investimenti senza precedenti per blindare 186 chilometri di frontiera a un costo enorme: 1,6 miliardi di zloty, pari a oltre 350 milioni di euro. Ma il governo è finito nel mirino delle opposizioni che lo accusano di rendere la Polonia un simbolo della mancanza di solidarietà con i migranti in arrivo dalle zone più disastrate del mondo.
La frontiera fra Polonia e Bielorussia è lunga 418 chilometri, 171 dei quali costeggiati dal fiume Bug, mentre 67 chilometri passano attraverso paludi. Il muro sarà costruito solo sulla terra ferma, ha spiegato Anna Michalska, la portavoce della Guardia di frontiera, aggiungendo che l’impatto di quest’iniziativa sull’ambiente dovrebbe essere minimo.
Non sono d’accordo però scienziati e ambientalisti legati alla Foresta di Bielowieza, che si trova esattamente sul confine e che dovrebbe ora essere divisa dal muro. È una riserva unica, popolata da bisonti e altri animali: 152 mila chilometri quadrati, 62 mila dei quali appartengono alla Polonia. Fra i vari timori, anche quello che un intervento del genere possa far cancellare la Foresta dall’elenco dei patrimoni dell’Unesco.
La costruzione del muro, stando all’opposizione, non si giustifica peraltro di fronte a numeri vanno via via diminuendo: oggi sono stati 17 i profughi che hanno cercato di attraversare il confine, ieri 20, due giorni fa 6.
Per l’europarlamentare Pietro Bartolo, che alcune settimane fa ha visitato le zone al confine polacco-bielorusso, Varsavia «volta le spalle ai valori fondanti dell’Europa». «Spero in una nuova Norimberga per tutti coloro che hanno permesso la morte dei profughi», ha detto alla Gazeta Wyborcza, ricordando le decine di persone decedute per il freddo, la fame o lo sfinimento di fronte ai respingimenti alla frontiera.
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Di Camilla Donzelli su Voci Globali
Secondo il vocabolario Treccani, integrare significa “rendere pieno, perfetto, ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni”.
Tale definizione presuppone una mancanza iniziale, un’incompletezza di fondo. Incompletezza che però non è necessariamente da intendersi in senso negativo, piuttosto come un’opportunità di miglioramento. Potenzialmente, l’integrazione è quindi un concetto fecondo e dinamico, che sottintende una costante tensione verso la perfezionabilità delle cose.
Eppure, quando si associa il verbo integrare ai fenomeni migratori, il reale significato di questa parola va perdendosi. O meglio, si snatura sotto i colpi della convinzione granitica che le nostre società – europee, occidentali, apparentemente civilizzate ed evolute – siano sistemi finiti, chiusi, che bastano a se stessi. Microcosmi escludenti in cui qualsiasi proposta di miglioria – o appunto, integrazione – proveniente dall’esterno viene rifiutata a priori, se non addirittura percepita come una possibile minaccia all’ordine stabilito.
Di conseguenza, integrare assume un’accezione diversa. Nel dibattito pubblico attuale il concetto di integrazione è ormai divenuto sinonimo di assimilazione, termine che nelle scienze sociali descrive una rinuncia totale di usi e costumi originari a favore di una totale adozione di quelli propri del luogo in cui ci si stabilisce.
In altre parole: queste sono le regole, non c’è spazio per la negoziazione, se vuoi essere ammesso nel corpo sociale devi adeguarti senza mettere in discussione nulla. Un approccio etnocentrico figlio di colonialismi vecchi e nuovi, che nega la realtà dei fatti: le migrazioni rappresentano un fenomeno globale che interagisce attivamente con le società di approdo, modificandole dall’interno. E opporsi a questa inevitabile interazione – che implica un continuo processo di scambio e ridefinizione – è controproducente.
Infatti secondo i sociologi Stephen Castles e Mark Miller, autori del libro “L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo“, il modello assimilazionista non è adatto a far fronte al modo in cui le nostre società sono cambiate, cambiano e continueranno a cambiare. Insistere sull’adesione in toto alla cultura predominante come condizione necessaria per l’accesso distorce la percezione delle differenze culturali, che da possibili e preziose spinte verso l’innovazione diventano elementi di frizione, se non addirittura di aperto scontro. E gli esiti finali sono la nascita e l’internalizzazione di quei meccanismi che purtroppo conosciamo bene: esclusione, discriminazione, razzismo.
Esiste un antidoto a tutto questo? Sembrerebbe di sì, ed è la pratica quotidiana su piccola scala.
Siamo a Roma, nel quadrante Nord-Ovest della città, quartiere Valle Aurelia. In una via non molto distante dalla fermata della metropolitana ci sono due insegne, l’una accanto all’altra: El Pueblo e Gustamundo. El Pueblo apre i battenti nel 1993 su iniziativa di Pasquale Compagnone, che dopo un viaggio zaino in spalla attraverso il Messico zapatista si innamora di quelle terre e decide di portarne con sé un pezzetto attraverso la cucina.
Poi, nel 2017, l’intuizione di un nuovo progetto da affiancare al ristorante messicano. “L’idea di collaborare con i centri di accoglienza e verificare se ci fossero delle persone provenienti da esperienze di cucina era stata pensata per creare dei momenti di aggregazione e di socializzazione fra i migranti e i clienti del ristorante”, racconta Pasquale. “Lo scopo era quello di fare delle cene tutti insieme e attraverso la cucina avere qualche serata di incontro conviviale”.
Nasce così Gustamundo. Pasquale si mette in contatto con i centri di accoglienza presenti sul territorio cittadino, avviando collaborazioni con la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas, la Croce Rossa Italiana, il Joel Nafuma Refugee Center e molte altre realtà impegnate nel lavoro con rifugiati e richiedenti asilo. Inizialmente il progetto consiste nell’individuare persone già esperte in cucina, che abbiano voglia di cimentarsi nell’organizzazione di una serata in cui presentare i piatti delle proprie terre di origine.
“Il primo anno facevamo una media di 2-3 cene a settimana, si parlava con i migranti e si raccontavano un po’ le loro storie”, continua Pasquale. “Poi lentamente è venuta fuori l’esigenza di strutturarlo un po’ di più perché erano tutte collaborazioni una tantum, legate solamente alla prospettiva di queste cene, ed è giustamente subentrata da parte loro la richiesta di avere i permessi di soggiorno per restare in Italia. È così che abbiamo iniziato a pensare ad un vero e proprio ristorante multietnico dove poter fare contratti di lavoro e dare stabilità ai collaboratori”.
Accanto al ristorante El Pueblo si libera una piccola saletta: è l’occasione perfetta per fare il salto e dare una sede fisica a Gustamundo. Deciso a gettare fondamenta stabili che permettano al progetto di perdurare nel tempo, Pasquale comincia a fare una lenta e accurata selezione. E i risultati arrivano.
“Il gruppo si è lentamente costituito attorno a una quindicina di persone, tutti richiedenti asilo, rifugiati, o comunque di origine straniera. Ad oggi siamo riusciti a costruire un gruppo che funziona, ognuno con le proprie competenze e con i propri compiti, ed è un gruppo che riesce a lavorare bene insieme. Il ristorante adesso funziona tutti i giorni e tutte le sere.”
L’unicità del progetto risiede nella natura multiculturale dello staff e nell’amplissima scelta che il menu propone: ogni collaboratore, infatti, contribuisce con pietanze tipiche del proprio Paese. Ed effettivamente dare uno sguardo al menu di Gustamundo è un po’ come fare un viaggio intorno al mondo, in cui la cucina diventa un modo per veicolare conoscenza reciproca e nuove prospettive.
“All’inizio c’era la curiosità per un progetto nuovo, inedito per la sua tipologia, non è comune trovare un ristorante dove puoi andare a mangiare 15 cucine diverse. Poi si sono creati dei bei momenti, perché si mangiava tutti insieme. Sai, si parla spesso in maniera negativa dei migranti, poche cose positive. Per me la cucina è sempre stata una cosa positiva, in grado di stimolare la curiosità. Quindi all’inizio la gente si è avvicinata per l’idea nuova, ma poi constatando la qualità e soprattutto il tipo di progetto, quanto impegno e serietà ci fossero dietro, ha risposto molto bene.
Ad oggi se c’è da fare qualche raccolta fondi o altro la gente partecipa molto attivamente. Questo perché constatano giorno per giorno la presenza dei collaboratori e la loro crescita professionale. Inoltre, i risultati fanno crescere l’autostima di chi lavora con noi, la timidezza iniziale diminuisce, si sentono più accettati, più forti, e questo facilita il processo di incontro e conoscenza – anche quando ci sono delle storie di vita e di migrazione dolorose alle spalle.”
Gustamundo è quindi un luogo in cui si recupera il significato autentico della parola integrazione. Qui, attraverso la cucina, ognuno offre un pezzetto di sé, del proprio vissuto, della propria cultura. Si crea così quella possibilità di scambio e confronto che vede la differenza non come un ostacolo divisivo, bensì come portatrice di arricchimento ed evoluzione. Ed è proprio questo il primo e fondamentale passo verso rielaborazioni identitarie originali, inclusive, allargate.
L’esperienza di Dantoura ne è la prova. 28 anni, originario del Senegal, arriva in Italia nel 2014. La sua procedura di richiesta della protezione internazionale si conclude con l’ottenimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. A questo punto Dantoura comincia a pianificare la sua vita in Italia.
“Al centro di accoglienza facevamo solo corsi di formazione”, racconta. “Li ho fatti per tanto tempo, poi ad un certo punto ho detto agli operatori che volevo cercare lavoro. Mi hanno portato all’Accademia nazionale delle professioni alberghiere, lì ho fatto quasi sei mesi di formazione come cuoco.”
All’Anpa Dantoura apprende tecniche di cucina che comprendono nozioni legate alla tradizione italiana. Impara a fare la pasta all’uovo, per esempio. Al termine dei sei mesi accede a un tirocinio formativo, dopodiché ottiene un certificato.
“Sono andato in uno di quei posti dove ti aiutano a cercare lavoro e a scrivere il CV. Ho detto subito che cercavo qualcosa nella ristorazione, sia perché avevo il certificato sia perché era un lavoro che avevo già fatto nel mio Paese. Mi hanno detto che c’era qualcuno che cercava e mi hanno dato l’indirizzo di Gustamundo.”
E così nel 2019, col suo bagaglio di competenze acquisite in Senegal e in Italia, Dantoura comincia a collaborare con Pasquale. Dopo pochi mesi scoppia la pandemia; contestualmente si avvicina la scadenza del permesso di soggiorno, che non potrà essere rinnovato a causa delle modifiche introdotte dal decreto Salvini. Pasquale, sicuro di trovarsi di fronte ad una persona con grandi potenzialità, scommette su di lui: in pieno lockdown, firmano un contratto. Dantoura entra così a far parte dello staff di Gustamundo in pianta stabile, e può convertire il suo documento in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
“A Gustamundo cucino i piatti tipici del Senegal”, spiega. “Il ceebu yapp e il ceebu ginar, per esempio. Il primo si fa con il riso e la carne, il secondo con riso, pesce e verdure. O il mafé, uno spezzatino di carne con verdure e burro di arachidi. Ma conosco anche la cucina di altri Paesi africani, quindi preparo anche piatti diversi. La gente è curiosa, spesso mi chiede come si cucinano i miei piatti e quali sono le loro origini.”
Dantoura è stato assunto in pieno lockdown perché, nonostante le difficoltà portate dall’emergenza sanitaria, la filosofia di fondo di Gustamundo rimane la stessa: il processo di scambio e inclusione passa attraverso il lavoro.
“Molti mi chiedono: ma perché non hai aperto una Onlus?“, continua Pasquale. “Le Onlus fanno di sicuro un grandissimo lavoro di sensibilizzazione, magari attraverso conferenze e incontri, ma è un lavoro a senso unico che mira ai cittadini italiani. In fin dei conti ai diretti interessati, ai migranti, torna indietro poco. Io credo che le risposte dell’inclusione debbano passare attraverso una stabilità personale che si esprime tramite il lavoro, la casa, la conoscenza del sistema locale.”
Quanto affermato dal fondatore di Gustamundo trova fondamento nei fatti. Secondo i dati raccolti dall’Istat e rielaborati da Openpolis, nel 2020 gli stranieri costituivano l’8,4% della popolazione residente in Italia, rappresentandone però allo stesso tempo più del 15% dei disoccupati. E infatti, analizzando singolarmente la categoria dei cittadini extra-comunitari, si scopre che il tasso di disoccupazione è di 8,6 punti percentuali superiore rispetto agli autoctoni.
Lo studio condotto da Simona Colucci, ricercatrice in Politiche Pubbliche per il Territorio all’Università IUAV di Venezia, ha rivelato che i rifugiati mostrano tassi di occupazione ulteriormente inferiori rispetto alle altre categorie di cittadini stranieri. Ciò ha a che fare con la natura instabile della loro posizione: un passato spesso traumatico, ostacoli burocratici, tempi d’attesa dilatati all’estremo per la definizione della richiesta di asilo, incertezza generale sulla loro sorte nel Paese ospitante.
E sempre secondo tale studio, il lavoro sarebbe centrale nel modificare in senso migliorativo la dinamica descritta: da una parte, permette di velocizzare il processo di comprensione e apprendimento degli strumenti necessari a muoversi nel nuovo ambiente; dall’altra, rafforza una rappresentazione positiva di sé, aumentando l’autostima e facilitando l’instaurazione di un legame con la comunità e il territorio.
Tutte queste nozioni sembrano essere molto chiare nella linea d’azione di Gustamundo. Tant’è che per velocizzare ulteriormente il processo viene fatto un lavoro a doppio binario.
“C’è la parte commerciale“, spiega Pasquale, “però c’è anche un occhio attento al supporto in quella che è la vita di tutti i giorni. Per questo abbiamo istituito un’associazione di promozione sociale che lavora in modo parallelo, occupandosi di formazione e di affiancamento nell’espletamento di pratiche legali e burocratiche di vario genere. L’obiettivo è la totale autonomia delle persone.”
Dilruba conferma le parole del suo datore di lavoro. Ha 33 anni, viene dall’Azerbaijan e lavora a Gustamundo dal 2020. “Questo progetto è una strada per l’autonomia, sia per me che per i miei figli”, dice. Arrivata in Italia nel 2018 con il figlio maggiore e ottenuto nel giro di pochi mesi lo status di rifugiata, avvia la procedura per ricongiungersi con le due figlie minori, che oggi hanno 9 e 11 anni.
“In passato ho lavorato nella ristorazione con mio padre, però non ho mai studiato. Avrei voluto fare un corso di cucina, ma mi dicevano sempre che prima avrei dovuto prendere almeno il diploma di terza media e poi studiare per altri cinque anni. Però io con tre figli non ce la faccio. Poi il direttore del mio centro mi ha detto che c’era un progetto per richiedenti asilo in cui davano la possibilità di cucinare i piatti del proprio Paese. E così mi ha fatta conoscere Pasquale. Abbiamo fatto una prova, piano piano ho dimostrato le mie capacità. E alla fine sono rimasta.
Io sono cuoca, ma a Gustamundo ho anche imparato a interagire coi clienti facendo la cameriera e la responsabile di sala. Questo lavoro mi piace tantissimo, è la mia passione. Abbiamo da poco firmato il contratto definitivo, e mi è stato anche finanziato un corso che si è concluso con l’iscrizione al REC [Registro Esercenti Commercio, ndr] della Camera di Commercio.”
L’iscrizione di Dilruba al REC è il primo passo verso un progetto ancora in fase embrionale: l’apertura di un Gustamundo 2, la cui gestione verrebbe affidata a lei. “Questo“, aggiunge Pasquale, “vorrebbe anche dire espandere lo staff e creare così nuove opportunità per più persone”.
Dilruba fa emergere anche un altro elemento significativo dell’esperienza Gustamundo. “È diverso rispetto a lavorare in altri ristoranti, è qualcosa che ha a che fare anche coi sentimenti“, dice. “Lavoro con altre quattro donne che come me hanno figli, e stare con loro è una bellissima cosa. Ognuno ha i suoi problemi, ma insieme riusciamo sempre a darci una mano. Da straniera, potermi confrontare con persone che stanno vivendo la mia stessa situazione e muovendo i primi passi in un ambiente nuovo è molto importante.”
Il progetto non è quindi solamente un punto di incontro fra cittadini stranieri e locali, ma anche un piccolo porto multiculturale in cui gli stessi collaboratori hanno la possibilità di familiarizzare fra loro, scoprendo che al di là di lingue e culture diverse spesso si nascondono esperienze e difficoltà comuni. E quindi si socializza, ci si supporta, si fa rete. Si trova il proprio posizionamento, più o meno comodo, intersecando vecchie e nuove identità in una sintesi del tutto originale.
Anche Anna menziona questo aspetto. Ha 27 anni, viene dall’Albania e vive in Italia da 4 anni. A Gustamundo ha portato la cucina rom, come la variante albanese della moussaka e le sarme, involtini di foglia di vite farciti con riso e carne.
“Vado sempre a lavorare volentieri, contenta. C’è comunicazione e collaborazione, il clima è sempre rilassato e pacifico, ridiamo e scherziamo continuamente. Il fatto che proveniamo da Paesi e culture diverse non è mai un ostacolo.”
Dato il successo che Gustamundo sta riscuotendo, Pasquale e i suoi collaboratori stanno valutando l’ipotesi di trasformare l’attività in un’impresa sociale o in una cooperativa, in modo da poter accedere a bandi e fondi dedicati. Questo permetterebbe di espandere ancora di più le iniziative e coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, nonché di dare più visibilità ad un progetto che sta dimostrando concretamente che l’inclusione non deve necessariamente assumere le sembianze di un processo violento e coatto.
Piuttosto, è uno scambio in cui la scoperta di differenze e punti di contatto apporta benefici ad entrambe le parti. Perché, come conclude Anna, “alla fine siamo tutti umani, questo è quello che conta.”
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Di Laura Zanfrini su Avvenire
Nell’edizione di ieri della Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Decreto Flussi 2021, firmato sul filo di lana a fine anno dal presidente del Consiglio Draghi, che fissa in 69.700 gli ingressi di lavoratori stranieri: un numero inferiore alla bozza circolata, ma più che raddoppiato rispetto alle quote degli ultimi anni e con una timida apertura verso il lavoro non stagionale con riferimento ai settori (trasporto, edilizia, turistico-alberghiero) che denunciano difficoltà nel reclutamento di personale. Peraltro, le 27.700 quote non stagionali andranno ripartite tra gli oltre 30 Paesi sottoscrittori di accordi elencati nel decreto e saranno in parte assorbite dalle conversioni di permessi già rilasciati per altri motivi. Questo – insieme alla “promessa” di possibili ulteriori decreti nei prossimi mesi – è probabilmente il massimo che si poteva fare con un governo composito come l’attuale e in un quadro ancora molto compromesso dalla pandemia.
Ancora una volta, il provvedimento ha visto la luce secondo la logica della “programmazione transitoria” e in assenza del documento programmatico cui il testo unico sull’immigrazione affidava, tra le altre finalità, quella di individuare i criteri generali per la definizione dei flussi in ingresso. L’ultimo documento di cui si ha notizia è relativo al triennio 2007-2009, rimasto eternamente “in fase di elaborazione”. Da allora, nessuno dei governi che si sono succeduti ha voluto cimentarsi nel compito, politicamente audace, del governo delle migrazioni economiche, e tutti hanno finito col ridurre la questione al contrasto dell’immigrazione irregolare.
I limiti delle procedure in vigore (a partire dalla loro rigidità, distante da un mercato del lavoro sempre più flessibile); quelli che derivano dalle scelte – o non scelte – nella loro applicazione; quelli, infine, relativi al contesto in cui gli schemi migratori si trovano a operare (dalla diffusione del lavoro irregolare ai deficit nella intermediazione istituzionale tra domanda e offerta di lavoro) hanno concorso al fallimento del sistema di programmazione dei flussi, facendo dell’Italia un caso “esemplare” del disallineamento tra il piano delle politiche e quello dei concreti processi migratori e di inclusione.
Mentre le più importanti agenzie internazionali non cessano di ricordare come le migrazioni, se adeguatamente gestite, possano rappresentare un vantaggio per tutti gli attori coinvolti, tale disallineamento risalta come dato comune perfino ai Paesi tradizionalmente considerati dei punti di riferimento in materia. In particolare, milioni di posti di lavoro essenziali sono occupati, in Canada come negli Stati Uniti e nella stessa Europa, da immigrati undocumented titolari di permessi temporanei, studenti e tirocinanti stranieri, richiedenti asilo diniegati. La necessità di politiche innovative, sostenibili nel lungo periodo, capaci di rispondere anche al consistente fabbisogno di lavoro a bassa qualificazione garantendo i diritti dei lavoratori è dunque auto-evidente. Tanto più in Italia, dove i modelli di inclusione prevalenti sono decisamente inadeguati ad agganciare una ripresa la cui cifra dovrà essere la qualità in senso lato del lavoro.
Governare le migrazioni economiche implica gestire una serie di bilanciamenti: si tratta di far convivere la dimensione economica della programmazione con la dimensione politica (in particolare, l’esigenza di offrire canali legali che scoraggino i flussi irregolari); la richiesta di rispondere a fabbisogni contingenti e spesso appiattiti sui lavori a bassa qualificazione con quella di promuovere modelli d’integrazione sostenibili nel lungo periodo; la necessità di dotarsi di regimi migratori coerenti col ruolo dell’Italia nello scenario internazionale (in particolare euro-africano) con quella di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro delle ampie componenti della popolazione residente (inclusa quella immigrata) che ne sono escluse; e, ancora, la dimensione tecnico-procedurale della programmazione – che richiede schemi migratori flessibili, che rispondano rapidamente alle richieste di persone e mercato – con il carattere politico, nel senso nobile del termine, del governo dell’immigrazione, che come tale incorpora una visione sul futuro.L’auspicato ridisegno delle politiche migratorie non può allora essere disgiunto dal compito di ripensare i regimi di accumulazione, le reti di produzione e distribuzione del valore e i modelli di riproduzione sociale cogliendone, proprio attraverso la “lente” dell’immigrazione, tutte le criticità. Basterebbe citare l’esempio del lavoro per le famiglie – da sempre il comparto più etnicizzato del mercato del lavoro italiano – per comprendere come la gestione delle migrazioni va integrata con l’insieme di interventi, a vari livelli, necessari per affrontare quella che l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) ha definito la «crisi globale della cura». Il governo e la governance delle migrazioni devono dunque diventare parte integrante di quel grande cantiere di innovazione economica e sociale che si sta aprendo nella scia del Pnrr, secondo le indicazioni contenute nella stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
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Di Laetitia Leunkeu su Valigia Blu
Emerge il video di una violenza avvenuta la notte di Capodanno, nel quale si vede l’espressione più stomachevole del machismo in azione. Abbiamo una ragazza (in realtà poi si scopre che sono molte di più) accerchiata da un branco di uomini e ragazzini che la strattonano, la denudano e la molestano. Il tutto in una piazza affollata, quella del Duomo a Milano, nella complice indifferenza generale.
Il video gira e indigna tutti per quello che è: il riflesso di una mentalità violenta, che vede nella forza e nell’umiliazione il filo che tesse i rapporti tra uomo e donna, la quale, qui, diventa oggetto di libero uso e possesso del branco. Nel giro di pochi giorni abbiamo degli indagati. Sono stati fermati una decina di ragazzi e tra questi spiccano due figure, Abdallah Bouguedra e Abdelrahman Ahmed Mahmoud Ibrahim. Per nome e origine, in pochi giorni diventano l’emblema di un degrado culturale, poco importa che i 12 indagati, tra italiani e stranieri, provengano da tre gruppi diversi.
All’improvviso quel problema di machismo, sessismo e patriarcato di cui si è parlato nei giorni precedenti sparisce come d’incanto, o meglio non è più un nostro problema. Il viceministro delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili, Alessandro Morelli (Lega), sui suoi social scrive: “Fanno arrivare qui decine di migliaia di persone senza alcun controllo né preoccupazioni su come possano integrarsi, poi però se succede qualcosa è colpa della ‘nostra società’ e del ‘patriarcato’. Ma per favore!”
La minaccia sessista che l’altro, uno straniero, incarna, è sufficiente quindi per spiegare la violenza di gruppo avvenuta in quella piazza. Sarebbe a causa della loro cultura intrinsecamente sessista, associata alla loro origine (che siano cresciuti o meno in Italia), e a causa della loro mancanza di volontà di integrazione, che gli aggressori dimostrerebbero un sessismo specifico; un sessismo straordinario, che in nulla assomiglierebbe alla violenza o al sessismo mostrato dagli uomini italiani.
Basta una semplice analisi dei sociotipi messi in prima linea nei discorsi politici e mediatici nel nostro paese per rendersi conto dell’impressionante processo di razzializzazione del sessismo nella sfera pubblica. Le origini precedono i nomi, così le identità di vittime, colpevoli e complici, svuotati di ogni connotazione soggettiva, viaggiano sull’onda di una pluralità collettiva che diventa il luogo di scontro di fazioni politiche. Le donne in tutto questo fanno da accessorio, strumenti nelle mani di chi utilizza l’escamotage del barbaro straniero per posizionarsi come figura salvifica – sia di donne straniere oppresse, che di donne bianche potenziali vittime di questa oppressione – mentre costruisce intorno a sé il muro di deresponsabilizzazione entro il quale confinare i vari “gigante buono”, i “vulcanici imprenditori”, i “raptus” e l’esasperazione dell’uomo bianco.
Questo processo di iper-individualizzazione della violenza di genere, svuotata della sua natura strutturale, per proteggersi da qualunque critica, elude che la società italiana, nel suo complesso (le sue istituzioni, i suoi cittadini), è strutturata in rapporti sociali di genere diseguali. Dimentica la socializzazione differenziale dei sessi a scuola, guarda la donna africana incatenata, dimentica i “vestita così un po’ se l’è cercata”, guarda il velo, dimentica la violenza domestica, guarda i matrimoni forzati, dimentica Agitu Gudeta, guarda Saman Abbas, dimentica i Family Day, guarda l’Islam. L’ipervisibilità del sessismo degli uomini non bianchi è la culla dell’invisibilizzazione del sessismo dell’italiano prototipo.
Percepita come un valore intrinseco al modello occidentale dominante, e non come un progetto che anche l’Occidente deve ancora costruire e portare a punto, l’uguaglianza di genere diventa lo strumento di una doppia discriminazione. Non solo verso le persone di origine straniera (estraneità effettiva o presunta che sia), ma verso tutte le donne. Attribuendo più sessismo ai gruppi razzializzati e accusando l’altro di un sessismo più forte e serio, si rafforza tanto il razzismo quanto il sessismo ordinario, eclissato da questa continua negazione dei membri del noi come partecipanti attivi a questi meccanismi. È il mito dell’uguaglianza già acquisita.
Lungi da me voler illudere che il patriarcato nelle sue modalità sia universale. Il sessismo è costruito secondo le strutture delle società in cui si svolge, non può perciò essere staccato dalla storia e dai rapporti economici che le governano. Se la denuncia della violenza di genere è legittima e necessaria, è importante anche scovare e sradicare i mezzi impiegati per lavarsi le mani dalla responsabilità sociale, di cui tutti dobbiamo farci carico per trovare soluzioni concrete a questo tipo di problema.
L’attenzione sproporzionata dei media sulla violenza contro le donne a opera degli “stranieri” porta a una stigmatizzazione di tutti gli uomini immigrati e dei loro figli. Ciò non solo rafforza il razzismo, ma produce anche un complesso sistema di vincoli per le donne immigrate e le loro figlie, sottoponendole a ingiunzioni paradossali: da un lato difendere gli uomini delle loro comunità dal razzismo, dall’altro combattere contro il maschilismo e la sopraffazione a cui sono soggette da tutti i fronti.
Così facendo diventa ancora più difficile riuscire a denunciare e rendere legittime le lotte di cui siamo portavoce. D’altronde, in quanto interne a questa cultura (subalterna), è la nostra norma. Anzi quante volte, proprio per questo, ci si aspetta che siamo più accondiscendenti con l’autorità maschile? Al lavoro permettendo al padrone di sfruttarci senza fiatare, oppure per strada, quando senza troppi giochi di parole ci viene proposto un servizietto in cambio di un “50” o perché “ti faccio avere il permesso di soggiorno”?
Il confronto tra il sessismo in Italia e quello dell’altro, quando si traduce nell’attribuirlo a priori a quest’ultimo, porta anche alla differenziazione di altri sistemi gerarchici: classe e sessualità. “Abusi di Capodanno: quei giovani di periferia a caccia di una notte da padroni”: così titola Repubblica, sottintendendo una tendenza degli uomini di classe bassa a commettere atti di violenza, come per ottenere un riscatto. La democrazia sessuale definirebbe il confine tra centri urbani e periferie. E così prendono forma e vengono legittimati i discorsi securitari come quello dello stesso sindaco di Milano Giuseppe Sala, che prima ha sottolineato che “Gran parte del branco arriva da fuori Milano”, poi ha affermato: “Porterò in Giunta nei prossimi giorni una delibera per assumere 500 vigili, lo avevo promesso in campagna elettorale. E spero che lo stesso faccia la polizia di Stato. Serve più gente sul territorio”.
I media hanno colto l’immagine dell’uomo straniero svantaggiato, che vive in condizioni precarie, per costruire la sua etno-rappresentazione, non di uno strato sociale, ma di una “razza”. La mancanza di copertura mediatica delle classi medie di famiglie con background migratorio, le cui condizioni di vita sono uguali a quelle delle famiglie di bianchi italiani di classi equivalenti, ne è la prova. Nella costruzione dell’immagine del bianco italiano i media applicano il processo opposto: i poveri sono accuratamente nascosti all’occhio della telecamera. È attraverso questo gioco diseguale e asimmetrico che le rappresentazioni così costruite rendono i bianchi una “razza dei signori” e gli altri una “razza di emarginati e selvaggi”. Il dramma dell’immigrato, specialmente se africano, e della sua stirpe è quello di un soggetto che soffre la fatalità dell’immagine, confezionato in rappresentazioni già stabilite, che consentono di non affrontare mai la propria realtà.
L’“uguaglianza” può essere proclamata come il valore centrale e inevitabile del modello occidentale, ma è più un auspicio che una realtà. L’attribuzione del sessismo all’altro consente di distogliere un occhio da questa realtà, intrisa di ingiustizie. Inoltre, definendo gli immigrati più sessisti e le loro mogli o figlie come più sottomesse dei nativi, a causa della “loro” cultura patriarcale — una seconda natura di cui non possono più liberarsi — otteniamo un vero tour de force: gli uomini italiani sarebbero egualitari, le donne italiane sarebbero libere. Attraverso questa strumentalizzazione delle problematiche di genere, queste rappresentazioni sviluppate al crocevia tra razza e relazioni sessuali, il “modello occidentale” può affermarsi come modello di uguaglianza, pretendere di essere universale e imporsi agli altri. Ma, in ultimo, l’illusione dell’uguaglianza non ha che un solo obiettivo: giustificare e mantenere il dominio reciproco.
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Di Luca Rondi su Altreconomia
È mattino presto all’esterno del rifugio Massi di Oulx, cittadina in alta Val Susa a meno di venti chilometri dal confine italo-francese. Abdullahi, originario della Somalia, mostra i documenti agli operatori legali presenti in struttura. Sono i primi di gennaio 2022. Nella notte ha tentato di attraversare la frontiera passando il tunnel del Frejus con un Flixbus per arrivare in Germania, dove lo aspettano moglie e tre figli. Ha un titolo di viaggio valido e l’asilo politico ottenuto in Grecia ma quel documento è scaduto. Anche se fosse valido il suo passaggio non sarebbe scontato: l’Europa “tradisce” se stessa con Abdullahi che torna alla stazione dei treni e riparte per tentare l’attraversamento su un altro confine. “Se l’asilo è un diritto riconosciuto da tutti gli Stati membri, non vedo perché una persona alla quale viene riconosciuto tale diritto di restare sul territorio per essere protetto non possa muoversi liberamente all’interno dello spazio Schengen. Proprio la libera circolazione è il principio fondante dell’Ue ma su questo confine viene sistematicamente negata”, spiega Giovanni Papotti, avvocato e socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (asgi.it).
La “temporanea” sospensione della libera circolazione al confine italo-francese è diventata normalità. Da quando nel 2015 l’esecutivo di Parigi ha proclamato lo stato d’emergenza in seguito agli attacchi terroristici la presenza di controlli al confine ha continuato ad aumentare di anno in anno. “I Paesi membri dell’Ue possono reintrodurre i controlli alle frontiere per un massimo di due anni ma il governo francese sembra dimenticarsene. Aumentano i militari ma il flusso non si blocca e l’unico risultato è rendere più rischioso l’attraversamento delle persone in transito” spiega Emilie Pesselier dell’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (anafè.org). Il confine dell’alta Val Susa è frastagliato. Si espande sia in ampiezza sia in altezza: si va dal colle della Scala, 1.300 metri di altitudine sopra Bardonecchia, al monte Chaberton, 3.300 metri. Tante opzioni tra cui le persone possono scegliere.
In questo quadro la presenza della polizia francese si concentra soprattutto nei diversi punti in cui confluiscono i numerosi sentieri che collegano il territorio francese a quello italiano. È la mattina del 5 gennaio quando su una pista da sci a pochi chilometri dal confine, due poliziotti schivano gli sciatori e puntano a Nord, poi improvvisamente cambiano direzione dirigendosi verso il fondo valle. Una “caccia all’uomo” orchestrata dai “piantoni” che dal pilone della seggiovia prima contano il numero di persone (straniere) che scendono alla fermata dell’autobus, nel centro di Claviere, poi seguono il loro tentativo di attraversare il confine. “Sapendo di essere controllate dall’alto spesso le persone si fermano a Claviere cercando nascondigli di fortuna e aspettando il buio per poi partire a un certo punto della notte con temperature insostenibili” spiega Michele Belmondo del Comitato della Croce Rossa italiana di Susa. Anche per questo, la Croce Rossa ha istituito pattugliamenti per cercare di presidiare i valichi di frontiera. “È capitato che qualcuno, infreddolito e al buio, cambiasse idea”.
Negli ultimi mesi, gradualmente, anche raggiungere Claviere con l’autobus non è scontato. Per servire i passeggeri del TGV che viaggiano da Parigi a Milano erano previsti degli autobus che da Bardonecchia e Oulx portavano le persone a Briançon facendo tappa anche nelle città di confine italiane. Oggi sono stati soppressi: le persone vengono fatte scendere a Modane e un autobus attraversa due volte il confine prima a Bardonecchia e poi a Claviere per garantire il servizio. Chilometri, tempo e spese in più per i cittadini francesi ma soste sul territorio italiane scongiurate. Anche l’azienda italiana Sadem ha diminuito le corse che da Oulx si dirigono verso il confine. “Le persone arrivano a Claviere con circa dodici chilometri in più sulle gambe, più stanchi e malconci, di certo non si fermano perché manca l’autobus” commenta Belmondo.
Se tra il 2017 e il 2018 la maggioranza delle persone che arrivavano in Val Susa erano originarie dei Paesi dell’Africa sub-sahariana, oggi chi arriva a Oulx ha percorso la rotta balcanica o è arrivato attraverso la nuova rotta via mare che collega la Turchia direttamente alla Calabria: gli afghani sono in questo momento la nazionalità prevalente. Il nuovo rifugio, aperto a fine dicembre 2021, ai primi di gennaio conta poche presenze sugli 80 posti disponibili. “Per il freddo bosniaco che ha temporaneamente bloccato le partenze” dicono i volontari.
Seduti ai tavoli due ragazzi afghani, di 15 e 17 anni, chiedono informazioni. Durante la mattina hanno provato ad attraversare la frontiera: vedendo la polizia hanno deviato sui sentieri ma con le scarpe da ginnastica di tela hanno desistito. Non sanno che per loro il passaggio sarebbe concesso, almeno sulla carta, per la loro età. Le regole della frontiera sono spesso poco conosciute anche se, chi percorre la rotta balcanica prima di arrivare in Val Susa conosce meglio il freddo, le montagne. Per chi è arrivato via mare, l’idea di questa frontiera si materializza invece a un passo dal confine. Samba, di origine ivoriana, al mattino ha tentato di attraversarla trascinando una valigia e percorrendo la strada asfaltata come un normale turista. È stato respinto senza grandi sforzi della polizia.
Da quando nell’estate 2021 è operativo l’ufficio di polizia di frontiera a Bardonecchia, le persone vengono “consegnate” dalle autorità francesi a quelle italiane alla stazione di polizia al confine tra Briançon e Claviere o in quella di Modane a seconda della zona di attraversamento. Tutto ruota attorno al regolamento di Dublino, il sistema che costringe le persone a richiedere protezione nel Paese di primo arrivo. “Non sembra essere concepito manifestare la domanda di asilo in frontiera ed entrare, in questo modo, in una eventuale procedura Dublino prima di essere ritrasferiti in Italia – spiega Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese (diaconiavaldese.org) che a Oulx offre un servizio di supporto a chi è in transito -. Il respingimento avviene invece in poche ore e, per il fatto che non vi è un provvedimento, risulta impossibile da impugnare”. Se le riammissioni avvengono in tarda serata le persone vengono trattenute negli uffici di polizia francesi. “Sono container con pochi letti e spazi spesso sovraffollati, soprattutto oggi considerando la pandemia. Non sempre sono presenti mediatori o interpreti che informino le persone sui loro diritti, né vi è spazio per una valutazione delle vulnerabilità”. Solamente i minori – per cui non valgono le regole di Dublino – se hanno possibilità di “confermare” la propria età riescono ad attraversare. “Soprattutto da quando è presente la polizia di frontiera italiana. In termini di rispetto dei diritti delle persone in transito è l’unica cosa che è cambiata da quando ci sono gli agenti italiani – spiega Pesselier di Anafè -. Per il resto la violazione dei diritti nelle procedure è sistematica”.
I numeri che si registrano a Oulx sono un termometro della permeabilità della frontiera. “Generalmente sono 30 transiti, in media al giorno ma a volte aumentano – spiega Belmondo di Croce Rossa -. A ottobre abbiamo accolto quasi 2mila persone, a novembre quasi 2.200 con picchi serali di 120 presenze. Da un lato l’aumento degli arrivi, dall’altra la frontiera era meno permeabile e il flusso era bloccato per diversi motivi: le persone bloccate a Briançon perché senza il green pass non potevano ripartire dalla cittadina con i mezzi pubblici, forse la situazione di Calais che ha fatto stringere le maglie al governo francese. Poi il flusso è tornato normale: questo dimostra che i controlli non fermano le persone. Semplicemente queste tentano più volte e magari su strade più pericolose”.
Il 3 gennaio la polizia francese ha diffuso la foto di un uomo di 31 anni, di origine marocchina, ritrovato morto a Freney, a Sud di Modane, che molto probabilmente ha attraversato il confine italo-francese tra il 29 dicembre e il primo gennaio 2022. “Un sentiero meno battuto ma non per questo meno ‘frontiera’. Non è però la montagna che ammazza ma i controlli di polizia -spiega Piero Gorza coordinatore dei volontari di Medici per i diritti umani (medu.org) in Piemonte -. Chi può tenta in tutti i modi. Giovani che hanno bucato una decina di frontiere e pensano di farcela anche questa volta. La disumanità di questa farsa per cui bisogna militarizzare tutto, le persone passano lo stesso ma poi qualcuno muore. E così da farsa diventa una tragedia”. Dal 2018 sono sei le persone morte su questo confine. “Ma è una stima. Spesso i soccorsi sono difficili: non si conosce la persona esatta e poi sono persone che non vengono reclamate da nessuno. Nel mese di aprile tre ricerche si sono concluse nel nulla”, sottolinea Michele.
La rete solidale è quella che salva. Perché fornisce giacche, scarponi, berretti, guanti e di fatto fa attività di prevenzione. “La particolarità di questa frontiera è forse la presenza di una rete ramificata di sostegno. Si tenta di dare una risposta dignitosa a chi transita” spiega Gorza. Una rete che è trasversale: il movimento anarchico che, occupando la casa cantoniera Chez JesOulx hanno accolto per anni chi era in transito, i volontari che quotidianamente si recano al rifugio Massi per sostenere le attività, le suore di Susa, che offrono posti letto e sostegno per i casi più vulnerabili, le Ong attive sul confine. Oggi questa accoglienza è più istituzionalizzata rispetto al passato, dopo la chiusura della casa cantoniera. “Una casa che ha salvato molte vite, ne sono convinto e che ci interroga molto – continua Gorza -. Così come a Velika Kladuša, in Bosnia ed Erzegovina, le persone forse preferiscono i posti informali. In molti ci stiamo interrogando sul perché. Si cercano così soluzioni che garantiscano un’accoglienza sempre più adeguata alle persone in transito: laddove vengono riconosciute come soggetti e meno come ‘migranti’, meno ‘cose’ oggetto della benevolenza altrui si sentono più accolte. La frontiera funziona da angolo prospettico per capire molte cose del nostro mondo”.
Un essere soggetti che interroga anche il diritto. “Gli attuali meccanismi legislativi e burocratici da Dublino all’impossibilità di circolare liberamente non rispettano i tempi della migrazione, gli affetti, la possibilità di scegliere il posto in cui vivere non solo in base a motivi economici – conclude Papotti -. È lo stesso passato coloniale degli Stati membri che influisce sul desiderio di una persona di andare in Francia, magari perché banalmente sa già la lingua. Tutto questo manca, in normative che continuano a guardare alla migrazione con la lente sbagliata. Questa frontiera lo dimostra”.
Foto in evidenza di Luca Rondi/Altreconomia
Di Anna Spena su VITA
La Libia è una spirale di abusi. Partiamo da due dati sintetici: nel Paese ci sono 621mila migranti, di oltre 43 nazionalità diverse (dati Oim aggiornati a novembre 2021); 4300 persone si trovano nei centri di detenzione. Partiamo anche dal fatto che questi, pur essendo dati ufficiali, non rappresentano la realtà: il numero di persone bloccate nel Paese è più alto, ad oggi è impossibile averne contezza. Cosa sappiamo invece? Che la Libia non è un Paese sicuro.
Lo scorso primo ottobre sono iniziati i rastrellamenti nel quartiere di Gargaresh. Sono stati arrestati circa 5mila migranti. Da quel giorno circa 600 persone hanno iniziato a protestare pacificamente all’ingresso del Community Day Centre dell’Unhcr. In alcuni momenti la protesta ha coinvolto fino a tremila persone. Proteste andate avanti fino a qualche giorno fa quando la polizia e i miliziani si sono scagliati contro i rifugiati: 565 persone sono state arrestate e deportate nei campi di detenzione. Cosa chiedevano i rifugiati? Solo di essere trasferiti in un Paese sicuro.
“Sono un richiedente asilo registrato presso l’unhcr e vivevo a Gargaresh quando improvvisamente ci hanno attaccato, siamo stati portati in prigione, poi siamo fuggiti e abbiamo fatto un sit-in al CDC per chiedere protezione. Ci sono voluti 3 mesi solo in attesa di un altro attacco”, si legge sul profilo twitter di Refugees in Libya. E ancora “C’è una situazione assolutamente disumana al centro di detenzione di Ain Zara ora. In centinaia sono tenuti in un hangar in un luogo non adatto alla vita. Anche quando le mucche sono accampate nel recinto a loro è concesso uno spazio dove fare i loro escrementi e uno spazio per muoversi. Non è così per i rifugiati innocenti, loro sono considerati niente”.
Qualcuna delle persone presenti alla protesta pacifica è riuscita a scappare, in molti sono rimasti feriti. Medici Senza Frontiere ne ha soccorse 68. «Ferite di arma da fuoco, ferite da taglio, contusioni dovute alle bastonate,un minore ci ha racconattao di essere stato calpestato», racconta Giorgia Linardi, advocacy manager in Libia per Msf. «La maggior parte delle persone che protestavano sono state portate nel centro di detenzione di Ain Zara, ma a molte di loro era già stato riconosciuto lo status di rifugiato». L’organizzazione lavora nel Paese dal 2016 e fornisce assistenza umanitaria e sanitaria nei centri di detenzione di Tripoli, Misurata, Khoms, Zliten e Dhar El-Jebel, l’ong si occupa principalmente delle patologie derivanti o aggravate dalle disastrose condizioni igieniche.
Medici Senza Frontiere assiste i migranti anche nel centro di Ain Zara: «Il centro è sovraffollato», spiega Linardi. «Ci sono molte donne e bambini. Le persone non vengono nutrite a sufficienza, non ci sono materassi a cui appoggiarsi per tutti, le persone non hanno vestiti adeguati per l’inverno, non hanno scarpe, la struttura è fatiscente. Un nostro paziente che dormiva rannicchiato vicino al bagno ha raccontato di essere stato calpestato dalle persone che dovevano usufruire. Visitiamo questo, e gli altri centri in cui lavoriamo, almeno una volta alla settimana. Ma la situazione è in continua trasformazione».
Le équipe di msf si occupano di individuare casi vulnerabili e di trasferire i pazienti che necessitano di cure specialistiche in ospedale, offrono supporto psicologico, assistono le persone agli sbarchi dopo le intercettazioni in mare, e curano i malati di tubercolosi nella città di Tripoli. «Abbiamo davanti una situazione disperata», dice l’advocacy manager di Msf. «Quelle che noi vediamo sono persone che non hanno nessuna alternativa o possibilità di lasciare il Paese in modo sicuro e legale. Non ci sono vie d’uscita e gli arresti di massa sono l’emblema della condizione dei migranti e dei rifugiati in Libia. Le persone vivono in condizioni indicibili, dopo i raid di Gargaresh, le proteste all’ingresso dell’Unhcr erano la loro ultima speranza. Sono persone che confidano nel sistema di protezione internazionale per essere supportate. Ma di fatto questo sistema, ad oggi, ancora non è stato in grado di dare risposte adeguate».
Arrivano dal Niger, dall’Egitto, dal Sudan, dalla Siria e sono bloccate in Libia perché: «si continua ad investire sulla politica di esternalizzazione. Chiunque provi a lasciare il Paese, una volta in mare, non viene soccorso dalle autorità europee ma intercettato dalla guardia costiera libica, finanziata dall’Unione Europea, e rispedito nella spirale di abusi. Invece dobbiamo ascoltare le richieste di queste persone. Chiedono di essere trattate come essere umani, chiedono protezione, chiedono di essere evacuate».
Immagine in evidenza di Maya Abu Ata/MSF
Di Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Corriere della Sera
Quasi la metà degli Stati dell’Unione Europea vuole che Bruxelles paghi la costruzione di barriere fisiche per frenare la migrazione irregolare. Lo hanno chiesto il 7 ottobre 2021 con una lettera di 4 pagine alla Commissione europea i ministri degli interni di Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia. I ministri sostengono che una recinzione è «un’efficace misura di confine che serve l’interesse di tutta l’Unione, non solo degli Stati membri del primo arrivo» e che andrebbe «adeguatamente finanziata dal bilancio dell’Ue in via prioritaria». Il ministro degli interni austriaco, Karl Nehammer, ha anche dichiarato che il sistema di quote dell’UE per la distribuzione dei richiedenti asilo sarebbe «inutile» fino a quando le frontiere esterne non saranno «rigorosamente» protette. Sono passati 22 anni dall’accordo di Schengen e l’inversione di tendenza è iniziata con la crisi in Siria del 2012. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri: a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri, tutti di difesa territoriale, a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Oggi ne conta 16 per oltre mille km, tutti in chiave anti-migranti.
La costruzione di muri e recinzioni anti-migranti è iniziata negli anni ‘90, con il caso della Spagna a Ceuta (1993) e Melilla (1996), per bloccare gli arrivi dal Marocco, ma è dal 2012 con la crisi siriana che il fenomeno è esploso in Europa. Comincia la Grecia con una barriera di fossati e doppio filo spinato di 150 km e alta 4 metri lungo le rive del fiume Evros, al confine con la Turchia, per arginare la fuga dei siriani diretti in Europa. Poi è stata la volta della Bulgaria, sempre al confine con la Turchia per bloccare i profughi siriani: il muro è stato definitivamente concluso nel 2017 per una lunghezza complessiva di circa 200 km, con filo spinato, torrette presidiate da soldati e guardia di frontiera con camere a infrarossi e sensibili al calore. La rotta balcanica, percorsa dai profughi in fuga dai conflitti in Medio Oriente e Afghanistan, è stata via via chiusa dal 2015. L’Ungheria ha prima bloccato quasi tutto il confine con la Croazia (300 km di barriera su 329) e nei due anni successivi ne ha alzato un’altra lunga tutti i 151 km di confine con la Serbia. La Macedonia ha blindato 33 km al confine con la Grecia, l’Austria ha disposto 3,7 km di filo spinato lungo il confine con la Slovenia che, a sua volta, ha chiuso 200 dei 670 km che li divide dalla Croazia. A quel punto la rotta da oriente verso l’Europa si è spostata più a nord, e così nel 2016 la Norvegia ha eretto una barriera di 200 km e alta 4 metri lungo il confine con la Russia; lo stesso hanno fatto nel 2017 la Lituania e la Lettonia. Lituania, Lettonia e Polonia hanno anche annunciato nuove barriere di 508, 134 e 130 km lungo il confine con la Bielorussia.
Scelte che non hanno funzionato, come dimostrano i dati di Iom. Gli arrivi via terra sono stati 26.395 nel 2016, 15.662 nel 2017, 31.257 nel 2018, 24.636 nel 2019, 13.666 nel 2020 e 33.296 nel 2021: per una media di 24.152 all’anno. Quelli via mare, invece, sono stati 363.581 nel 2016, 171.837 nel 2017, 115.399 nel 2018, 103.836 nel 2019, 85.809 nel 2020 e 111.144 nel 2021: per una media di 158.601 all’anno. Costruire muri ha però alimentato la strumentalizzazione politica, cavalcata dai partiti xenofobi che sono cresciuti in popolarità ed esercitano pressioni che limitano le soluzioni. Oggi tra i 28 membri dell’UE ci sono 39 partiti politici che promuovono una violenta retorica anti-migranti, e in dieci Stati membri (Austria, Danimarca, Germania, Francia, Finlandia, Svezia, Italia, Ungheria, Polonia e Paesi Bassi) hanno una forte presenza in Parlamento.
Però poi i migranti servono. Se n’è accorto il Regno Unito dopo la Brexit, rimasto senza camionisti che distribuissero le merci ed è stato costretto a mettere in campo l’esercito. Se ne accorge l’Italia: le nostre imprese hanno bisogno di braccia che sostengano la crescita ed hanno chiesto a Draghi di rivedere la politica migratoria. A dicembre il Governo ha deliberato il nuovo Decreto Flussi che disciplina l’ingresso dei lavoratori stranieri. Per il 2022 il numero è fissato a 69.700 per sostenere i settori agricolo, turistico-alberghiero, autotrasporto merci ed edilizia. Una svolta rispetto agli ultimi sei anni, quando il numero complessivo era sempre rimasto costante a quota 30.850.
Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno delle grandi divisioni. Oggi esistono 70 muri nel mondo: 40 mila chilometri di recinzioni, quanto basta per coprire l’intera circonferenza della Terra secondo i calcoli di Elizabeth Vallet dell’Università di Montreal. Undici furono costruiti tra il 1947 e il 1991, durante la guerra fredda, sette tra il 1991 e il 2001, ventidue tra il 2001 e il 2009. E ben 30 negli ultimi 10 anni. Senza considerare altri 7 già finanziati e in via di completamento. L’Asia è quella che ne ospita di più, 36, ma è anche il continente più esteso al mondo. Fra i più importanti ci sono quelli tra Macao, Hong Kong e la Cina, la barriera tra Israele e Cisgiordania, quella tra Corea del Nord e Corea del Sud e i muri tra India e Pakistan, tra Iran e i Paesi confinanti. Nessuno ha mai realmente funzionato, se non là dove sparano dalle torrette di controllo (Corea del Nord). Chi vuole fuggire trova sempre un modo, a costo della propria vita, basta leggere i numeri degli annegati sulla rotta mediterranea. Anche qui parlano chiaro i dati (fonte Unhcr): nel 2010 i richiedenti asilo e rifugiati nel mondo erano 16 milioni, saliti a 24,2 nel 2015 e diventati 34,4 nel 2020. Lo stesso trend è stato seguito dal numero e dalla percentuale dei migranti totali.
La scelta dell’Unione Europea in questi anni è stata quella di cercare di frenare i flussi migratori prima dell’ingresso, pagando, e gestire i rimpatri. In questa chiave vanno tutti gli accordi firmati con i Paesi satelliti, come quello del 2016 con la Turchia alla quale sono stati già destinati 6 miliardi di euro per evitare le partenze irregolari verso tutti gli Stati membri. Altri 3,5 miliardi arriveranno ad Erdogan nei prossimi quattro anni, mentre 2,2 miliardi andranno in Siria, Libano, Giordania e Iraq. Anche la sorveglianza è aumentata, con i sistemi informatici utilizzati per controllare la migrazione, come il sistema d’informazione visti, il sistema d’informazione Schengen e il sistema di archiviazione dei dati Eurodac. Per pagare tutti questi controlli e sorveglianza, il bilancio di Frontex è passato da 6,2 milioni nel 2005 a 543 milioni nel 2021.
Scelte che hanno consegnato un’arma di ricatto in mano ai leader politici più spregiudicati: lo fa il Marocco con la Spagna, lo sta facendo la Turchia di Erdogan, e da ultimo la Bielorussia di Lukashenko, che sta agevolando l’ingresso di profughi iracheni per poi spingerli sul confine europeo allo scopo di ottenere le cancellazioni delle sanzioni. Non si è percorsa, invece, la strada di aprire e gestire i flussi in maniera regolare, ma nemmeno quella di applicare uno schema di ridistribuzione dei migranti tra i diversi Paesi membri. La Commissione non ci è riuscita, come non è riuscita a fa passare l’idea di un contributo economico per i rimpatri da parte dei Paesi che rifiutano la redistribuzione verso quelli, come l’Italia, che si trova ad essere il primo Paese d’ingresso dalla rotta africana. In sostanza se ogni Paese pensa a sé, per quale ragione gli africani, iracheni, afgani, siriani, pakistani non dovrebbero pensare a loro stessi, e fermarsi di fronte ad un filo spinato?
Immagine in evidenza su Corriere della Sera
di Adil Mauro su Valigia Blu
“Nella tua città c’è un lager”. È la denuncia degli attivisti che si battono da anni per la chiusura dei CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri), veri e propri buchi neri nei quali finiscono, e a volte perdono anche la vita, i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno.
Con una capienza complessiva di 1.100 posti sono dieci i centri attualmente operativi a Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma-Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo e Caltanissetta-Pian del Lago.
Si tratta di strutture che in oltre vent’anni hanno prodotto una lunga scia di disperazione, violenze e morti. Istituiti nel 1998 dal governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi con la legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, i centri furono inizialmente chiamati CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza), poi CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e infine rinominati CPR con la legge Minniti-Orlando del 2017.
All’inizio le persone potevano essere trattenute per un periodo massimo di 30 giorni, diventati 60 con le modifiche apportate dalla legge Bossi-Fini del 2002. Nell’estate del 2011 il quarto e ultimo governo Berlusconi inasprì ulteriormente le misure restrittive, portando il tempo limite di trattenimento nei CIE a 18 mesi. Dopo una riduzione a 3 mesi stabilita dalla legge europea 2013-bis, il periodo è stato poi nuovamente esteso fino a 180 giorni, con l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018. Il decreto 130/2020 voluto dall’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha riportato il periodo di detenzione a 90 giorni, con la possibilità di estenderlo fino a un massimo di 120.
Nel 2011 una circolare dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni vietò alla stampa l’accesso ai centri per immigrati “al fine di non intralciare le attività loro rivolte”. Un provvedimento superato solo formalmente con la direttiva dello stesso anno firmata dalla ministra Anna Maria Cancellieri. La campagna LasciateCIEntrare ricorda che “ancora oggi la sospensione del divieto non rappresenta de facto la garanzia della libertà di informazione. Capire e raccontare cosa accade in questi luoghi è estremamente difficile a causa della discrezionalità con la quale le richieste di accesso vengono gestite e trattate”.
Gli ultimi casi collegati a queste strutture riguardano Wissem Ben Abdel Latif, 26enne tunisino trattenuto nel centro di Ponte Galeria e morto all’ospedale San Camillo di Roma dopo essere stato sottoposto a contenzione meccanica, e il connazionale 44enne Anani Ezzeddine suicidatosi nel CPR di Gradisca d’Isonzo.
Restano ancora da chiarire le cause che hanno portato alla morte di Abdel Latif. La Procura di Roma ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio colposo. I familiari ancora si chiedono cosa sia successo. Sapevano che a fine settembre era arrivato in Italia, era stato all’hotspot di Lampedusa “dove aveva dormito a terra circondato da una rete perché il centro era stracolmo” e poi trattenuto su una nave per espletare la quarantena senza aver accesso alla richiesta di protezione internazionale. Tutto questo non aveva fiaccato lo spirito di Abdel Latif, come riferisce la sorella Rania.
Una volta trasferito al CPR le cose però cambiano. Abel Latif non capisce perché era finito in cella senza aver commesso alcun reato, ricostruisce Annalisa Camilli su L’Essenziale. A ottobre gira un video all’interno della struttura in cui dice di essere pronto a proseguire lo sciopero della fame per impedire il rimpatrio. Nei giorni successivi, Abdel Latif sembra manifestare una forma di disagio psichico durante i colloqui con la psicologa del CPR al punto da richiedere una visita specialistica da parte dello psichiatra, che gli prescrive una terapia farmacologica. Dopo una nuova visita, lo psichiatra dispone il ricovero in un ambiente ospedaliero.
Come ricostruisce il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia, in entrambi gli ospedali Abdel Latif viene trattenuto in stato di contenzione (al San Camillo per 63 ore): “Sappiamo che questa degenza, che sembra essere maturata come una scelta volontaria di assistenza medica, si è protratta per cinque giorni in contenzione. Questa è una cosa che va verificata. La stretta necessità di questa contenzione, che non è un atto medico ma di cautela per la sicurezza degli ambienti e della persona, va monitorata e limitata all’indispensabile”.
Secondo quanto riportato dai media, alcune persone trattenute nel CPR hanno parlato anche di possibili maltrattamenti ma spiega sempre Anastasia, “nessuno di noi ha ricevuto denunce di maltrattamenti su Ben Wassem Abdel Latif, prima che dal CPR di Ponte Galeria arrivasse volontariamente ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura dell’ospedale San Camillo”. Stando alla documentazione attualmente a disposizione, prosegue il Garante, “questi maltrattamenti non sono emersi nell’accesso al Pronto soccorso del Grassi dove, se ci fossero stati, sarebbero stati registrati quanto meno per medicina difensiva. Dall’autopsia vedremo se ci sono altre cose che ad oggi non sono emerse”.
Una morte evitabile secondo quanto dichiarato dall’avvocato Francesco Romeo. “Il 24 novembre, mentre Abdel Latif era ricoverato e legato in stato di contenzione presso l’ospedale Grassi di Ostia, il giudice di pace di Siracusa, su ricorso del legale del giovane tunisino, sospendeva l’esecutività del decreto di respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il CPR di Ponte Galeria”.
Uno dei primi a dare la notizia della morte di Abdel Latif è stato Majdi Karbai, deputato della sinistra tunisina eletto in Italia nella circoscrizione esteri. A Valigia Blu racconta di «segnalazioni e testimonianze di connazionali che si trovano dentro i CPR o che sono già stati rimpatriati. Tutti descrivono un sistema di stigmatizzazione dove è impossibile ricevere informazioni sulla propria situazione. Ormai la Tunisia è considerato a torto un paese sicuro e quindi non ti viene data nessuna possibilità di accedere alla domanda di asilo o di protezione internazionale».
La Tunisia rientra, infatti, tra i 13 Stati presenti nell’elenco di paesi nei quali si presume sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, stilato dall’Italia il 7 ottobre 2019 in attuazione della direttiva europea numero 32 del 2013. “Una classificazione che ha prodotto effetti eclatanti”, spiega Martina Costa membro di Avocats Sans Frontières. “Non solo i tunisini sono pre-valutati ma addirittura non viene fatta un’informativa legale adeguata. Vengono etichettati come coloro che ‘abusano’ del diritto di chiedere l’asilo. La Tunisia, però, oggi non è un paese sicuro”. Questo sistema, tra l’altro, non ferma i flussi. In Tunisia le persone che vengono respinte sono pronte per ripartire dopo essere state trattenute poche ore nei commissariati di polizia.
“Abdel Latif era solo un numero dentro le carte degli accordi tra Italia e Tunisia e dentro i cassetti ammuffiti e maleodoranti dell’Unione Europea”, denuncia LasciateCIEntrare.
Per Karbai «non si può parlare di accordi, perché gli accordi vengono discussi anche in Parlamento». In effetti il primo “accordo” bilaterale Italia-Tunisia sottoscritto il 6 agosto 1998 dal ministro degli Esteri Lamberto Dini e dall’ambasciatore tunisino a Roma fu una nota verbale in cui il governo nordafricano si impegnava a mettere in atto misure efficaci di controllo delle coste in cambio di quote di ingresso annuali per cittadini tunisini.
Negli anni successivi ci sono state altre intese, alcune mai rese pubbliche come quella del 2009, fino all’ultimo accordo “fantasma” del 2020 smentito dall’Italia e confermato dal ministero dell’interno tunisino: 11 milioni di euro per un radar, la manutenzione delle motovedette, programmi di formazione per le guardie di frontiera e un sistema informativo di controllo del mare.
Un altro aspetto problematico è l’accesso ai centri, segnala Karbai. «L’anno scorso ho provato a contattare la prefettura di Milano per entrare e mi è stato detto di no. Sabato 4 dicembre quando sono andato a Roma per ascoltare i ragazzi che erano lì insieme a Wissem non mi hanno fatto entrare».
Ai Centri possono accedere, in qualunque momento, senza alcuna autorizzazione e previa tempestiva segnalazione alla Prefettura, membri del governo, parlamentari ed europarlamentari che hanno la facoltà di farsi accompagnare da un proprio assistente. Altre figure con libertà di accesso sono il delegato in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) o suoi rappresentanti autorizzati e i Garanti dei diritti dei detenuti. Associazioni, giornalisti e personale della rappresentanza diplomatica o consolare del Paese d’origine del recluso possono entrare solo se autorizzati dalla prefettura.
Nel rapporto sulle visite effettuate nei CPR dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale una delle raccomandazioni è che “venga aumentata la permeabilità e l’osmosi dei centri rispetto ai territori, con la partecipazione anche di espressioni della società civile, per la realizzazione di attività anche di tipo formativo rivolte alle persone trattenute, per un significativo impiego del tempo trascorso in privazione della libertà personale”.
Tra gli aspetti critici di carattere gestionale il Garante evidenzia infatti che “l’impermeabilità del CPR verso l’esterno, a lungo andare, gioca un ruolo negativo rispetto alla vita stessa delle strutture e di chi le abita. L’auspicabile apertura a osservatori esterni non istituzionali – università, media e associazioni – sebbene percepita come ‘fonte di pericolo’, aumenterebbe il grado di visibilità esterna delle strutture e della loro gestione, abbassando al contempo la divaricazione tra posizioni spesso di tipo ideologico e antagonista”.
Ancora più grave è la presenza di minorenni nei CPR. «Mai come nell’ultimo anno e mezzo, dopo l’accordo con la Tunisia, abbiamo visto un tale transito di minori stranieri non accompagnati nei centri, non solo a Ponte Galeria ma a Milano, Torino, Bari e Brindisi. In alcuni casi non dichiaravano la minore età perché non veniva loro chiesta. Chiaramente quando hanno avuto modo di comunicarla ci sono state tutte le verifiche di rito, ma di fatto hanno trascorso giorni, o solo qualche ora, in un luogo illegittimo», dice Yasmine Accardo di LasciateCIEntrare.
Al drammatico conteggio dei decessi legati a questi luoghi di detenzione vanno aggiunti i numerosi episodi di atti di autolesionismo compiuti dalle persone recluse: solo a Torino nei mesi di ottobre e novembre 115 casi, definiti dal segretario provinciale del sindacato di polizia Siulp Eugenio Bravo come “simulazioni di tentati suicidi”.
Dalla lettura del rapporto della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) emerge in maniera evidente quanto queste realtà possano essere redditizie. Un modello di business che ricorda il mercato delle prigioni private negli Stati Uniti. Secondo le stime di CILD, “nell’ultimo triennio sono stati spesi 44 milioni di euro per sostenere una gestione privata della detenzione amministrativa che (…) non garantisce i diritti fondamentali dei trattenuti. Una media giornaliera di spesa pari a 40.150 euro per detenere mediamente meno di 400 persone al giorno (dalle 192 persone presenti al 22 maggio 2020 alle 455 presenti al 20 novembre 2020) per poi constatare che soltanto nel 50% dei casi si realizza lo scopo della detenzione senza reato. La detenzione amministrativa è, infatti, una ‘filiera molto remunerativa‘ e la gestione privatizzata dei Centri (finanche per i servizi relativi alla salute) è uno dei nodi più controversi”.
È necessario tenere sempre a mente che questi luoghi rappresentano un tassello in un più ampio dispositivo di controllo e criminalizzazione delle persone migranti che va dai lager libici finanziati dall’Italia ai campi profughi lungo la rotta balcanica (dalla Grecia alla Bosnia e alla Croazia), passando per hotspot, “navi quarantena” e respingimenti illegittimi.
Strutture che, secondo Davide Cadeddu, autore di “Cie e complicità delle associazioni umanitarie” (Sensibili alle foglie, 2013), non sono riformabili per la loro stessa natura:
“Ciò che rende il CIE tale è la sua natura biopolitica. In questo dispositivo il potere si esercita sulla persona trattenuta non in quanto autore di un reato, ma in quanto essere vivente, vita biologica, nuda vita. Per cui, anche se in questi campi di internamento fossero garantiti standard decenti rispetto alla tutela dell’incolumità personale, all’igiene del luogo, alla qualità del cibo, all’assistenza sociale (attraverso la presenza di interpreti, psicologi, avvocati, mediatori linguistici) o alla realizzazione di attività di socializzazione, la natura di questi luoghi comunque non cambierebbe, rimarrebbero quello che sono e continuerebbero ad assolvere sempre alla stessa identica funzione all’interno della società”.
Il CPR, come denuncia il rapporto “Delle pene senza delitti”, stilato dopo l’ispezione effettuata dal senatore Gregorio De Falco e dalla senatrice Simona Nocerino all’interno del centro di via Corelli a Milano, insieme agli attivisti e alle attiviste della rete Mai più lager – NO ai CPR, è “una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti di quelli garantiti ai reclusi del sistema penitenziario, dove per giunta si capita (è il verbo corretto) senza che venga celebrato alcun processo”.
Tra i diritti negati alle persone detenute ci sono quelli alla salute e alla comunicazione. Lo spiega a Valigia Blu l’avvocato Maurizio Veglio, coordinatore del libro nero sul CPR di Torino realizzato dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI): «Dentro il CPR di corso Brunelleschi non è presente l’ASL, ma personale stipendiato dall’ente gestore i cui introiti dipendono dal numero di presenze. Se il medico è colui che decide la compatibilità della persona evidentemente si trova in una posizione di potenziale conflitto di interessi. Dal gennaio del 2020 i trattenuti vengono privati del cellulare e possono utilizzare solo un telefono fisso che non è abilitato a ricevere dall’esterno. Le chiamate sono possibili solo con una tessera prepagata del valore di 5 euro che viene distribuita ogni due giorni, in alternativa alle sigarette. Quindi la scelta è tra fumare oppure poter utilizzare 5 euro di telefonate in uscita dal centro. Il numero degli apparecchi fissi è addirittura inferiore a quello previsto dal regolamento ministeriale del 2014 e di fatto non ci sono altri canali comunicativi».
L’impossibilità di comunicare con i parenti o con le persone care ha una ricaduta pesante sul benessere psicofisico di chi è costretto a vivere in una condizione di completo abbandono, con giornate identiche che si ripetono ciclicamente.
Un problema, quello della comunicazione, che riguarda anche il diritto di contattare figure istituzionali come segnala a Valigia Blu Stefano Anastasia, il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio. «Chi è trattenuto ha la facoltà ora riconosciuta per legge di rivolgere reclami ai garanti, ma non può comunicare direttamente con loro. Il responsabile del centro ha messo un avviso dicendo che chi vuole parlare con il garante può fare richiesta e lui lo contatterà. Non metto in dubbio la sua buona fede, ma non è questo il modo con cui le persone trattenute devono entrare in contatto col garante».
Per questo motivo Anastasia ha chiesto alla prefettura di riattivare uno sportello del Garante presso Ponte Galeria. «Tanti anni fa questa attività esisteva sulla base di un protocollo sottoscritto dalla Regione, il Garante e la prefettura. Il protocollo è scaduto prima che arrivassi, ma negli ultimi anni tutti i solleciti alla prefettura non hanno prodotto alcun risultato. Nelle carceri del Lazio al più tardi ogni 15 giorni c’è una delegazione di ufficio che incontra i detenuti che vogliono parlare con il Garante per segnalare un problema. Perché questa cosa non si possa fare anche a Ponte Galeria credo sia totalmente incomprensibile».
Nel centro romano si trova una sezione femminile, al momento vuota. Durante il primo lockdown del marzo 2020, quando all’interno della struttura c’erano 40 donne, è stato impedito l’accesso ai gruppi di assistenza legale che aiutano le detenute – spesso vittime di tratta – a veder riconosciuti i loro diritti e non essere rimpatriate, un epilogo fin troppo frequente.
Veglio invece è entrato nel centro torinese per la prima volta nel 2003 e dopo tutti questi anni «il dato più rilevante è il fatto che non sia cambiato nulla. Indipendentemente dalle condizioni di vita, dalla durata massima del trattenimento e da altri fattori, il tasso di rimpatri delle persone recluse è sempre rimasto intorno al 50%. Senza contare la sofferenza giurisdizionale di un diritto che applica la sua sanzione più grave – la privazione della libertà personale – in assenza di un reato e della sua contestazione. Qui si tratta di una violazione di tipo amministrativo, oltretutto convalidata da un’autorità giudiziaria, la magistratura onoraria, che in nessun altro caso ha il potere di intervenire sulla libertà personale degli individui».
A livello europeo sono due le direttive che regolano il rimpatrio dei migranti irregolari: la 2008/15/CE che attribuisce agli stati membri il potere di detenere persone presenti irregolarmente sul loro territorio e la 2013/33/UE che riconosce ai richiedenti asilo la libertà di movimento sul territorio nazionale, ma consente anche la possibilità di detenerli per accertarne l’identità.
La regolamentazione è affidata alle singole nazioni ma, sottolinea Veglio, “una seria ridiscussione e comprensione delle storture e degli orrori collegati alle vicende di detenzione amministrativa al momento non è ancora in corso. Ci sono gesti di resistenza, ma è una battaglia tutta in salita perché purtroppo l’opinione pubblica sembra assuefatta e riuscire a ridestarla da questo sonno collettivo è un’impresa davvero impegnativa”.
LasciateCIEntrare, almeno all’inizio, ha potuto contare sul sostegno del mondo dell’informazione. «Fino al 2014 entravamo in delegazioni cospicue di 7-8 persone, producevamo rapporti, interrogazioni parlamentari, denunce di casi molto gravi», ricorda Accardo. “Adesso è diventato impossibile”.
I media ormai parlano dei CPR solo quando una persona perde la vita. Come accaduto in questi mesi con Moussa Balde a Torino e con la morte di Abdel Latif. E in precedenza con altre vittime: Harry, ventenne nigeriano con problemi psichiatrici impiccatosi nella struttura di Brindisi; Hossain Faisal, cittadino bengalese di 32 anni morto nei locali dell’Ospedaletto del CPR di Torino; Aymen Mekni, cittadino tunisino di 34 anni stroncato da un malore a Caltanissetta; Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano deceduto a Gradisca d’Isonzo; Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni ucciso sempre in Friuli-Venezia Giulia da un’overdose di metadone.
Luoghi che andrebbero invece raccontati nella loro quotidianità per capirne il loro funzionamento, la loro organizzazione e cosa accade al loro interno nella specificità delle diverse realtà. «È un sistema molto violento di cui si parla troppo poco», afferma Accardo. «Noi non accogliamo, sostanzialmente deteniamo persone in condizioni allucinanti ed è grave che debba arrivare il morto per poter parlare di quello che avviene ogni giorno. Ogni giorno ci sono trasferimenti violenti, ogni giorno c’è una disattenzione alla singola persona. Una comunicazione di tipo scandalistico, che non produce cambiamenti in termini politici, è un’informazione residuale che non dà un quadro generale di quello che sta davvero accadendo».
Di Angela Caponnetto su Articolo 21
67.040, quasi il doppio rispetto ai 34.134 del 2020 e quasi sette volte di più rispetto agli 11.471 del 2019. Questi sono i numeri delle persone sbarcate in un’ Italia popolata da 59 milioni 258.000 abitanti . Un paese che tra il 2014 e il 2017 – il periodo dei grandi flussi migratori – ha visto approdare in media 150.000 persone all’anno. Questi sono primi e ultimi numeri che verranno elencati in questo articolo perché dietro alla matematica dei numeri ci sono vite umane con le proprie storie, sogni e speranze. Vite che il Covid-19 ha quasi del tutto oscurato, complici i media concentrati sulla pandemia ancora in corso. Lasciando spazio al mero conteggio degli sbarchi che fanno notizia solo se nei nostri porti approdano navi umanitarie mentre restano marginali gli approdi autonomi: nonostante le ong abbiano soccorso una minima parte delle persone migranti che invece sono arrivate da sole, rischiando per lo più di morire annegati o di stenti durante il viaggio. Purtroppo mi devo contraddire perché devo inserire un altro numero in questo elenco: quello delle vittime tra le persone migranti che nel 2021 sono 1.600 tra morti e dispersi solo nel Mediterraneo. Uomini, donne e purtroppo sempre più bambini i cui corpi vengono recuperati nelle spiagge libiche come nelle scogliere di Lampedusa chi nel silenzio generale soccorre in ogni stagione e senza sosta.
Totalmente obnubilati dal virus, quasi timorosi di parlare dei drammi altrui in un’epoca in cui il dramma della pandemia ha sconvolto le vite di tutti, la maggior parte dei media ha trattato le notizie sui flussi con distacco e poca attenzione. Lasciando spazio alla (per fortuna sempre meno credibile) retorica dell’ “invasore”.
Così, eccetto la vicenda dei profughi afghani in fuga dai talebani e la crisi al confine tra Polonia-Bielorussia, il resto dei flussi migratori è stato citato per lo più in termini di numeri e non di storie. Chi fa questo mestiere sa che raccontare le storie fa la Storia. Come mi fa ricordare una foto che mi è capitata in questi giorni tra le mani: scattata nel 2002 sul molo di Catania dal grande inviato Pino Scaccia. Una foto che mi ritrae mente prendo appunti su un notes durante uno sbarco di mille migranti da una carretta del mare. Vent’anni fa, governo Berlusconi bis, ministro dell’Interno Claudio Scajola. In mille soccorsi dai nostri militari. Erano curdi in fuga dal conflitto con i turchi. Allora come ora, c’era chi gridava all’invasione e c’era chi addirittura chiedeva di affondare quella carretta carica di vite umane: famiglie, uomini donne e tanti bambini. Vent’anni dopo si parla ancora della stessa fantomatica invasione e si continua a non raccontare le storie e le origini di queste partenze e approdi, come invece ci esorta a fare Papa Francesco.
Non solo non si raccontano più le storie di chi lascia la propria terra ma si è smesso di cercare di capire cosa spinge a movimenti più consistenti da un anno all’atro. Cosi, se suscitano interesse le solite rotte dalla Libia Centrale e dalla Tunisia verso la solita Lampedusa, scivolano tra le notizie di secondo piano gli arrivi dalla rotta turca, egiziana e dalla Libia orientale che nel 2021 hanno portato oltre 11.000 persone migranti nei porti calabresi e altre migliaia in quelli pugliesi. Eppure è questa la vera novità nei flussi migratori dell’anno appena conclusosi: i viaggi sempre più numerosi dalla Turchia e da un’area di confine tra Egitto e Cirenaica con centinaia di persone ammassate su vecchi pescherecci con motore in avaria sempre più spesso sganciati da navi madre in area sar di competenza italiana all’altezza del Mare Jonio. Soccorsi difficili, faticosi e pericolosi. La sintesi del lavoro fatto da chi soccorre a mare come a terra è nelle parole di un ispettore di polizia intervenuto in un salvataggio di un veliero che si incaglia su una spiaggia a Crotone: in mezzo ad una tempesta rischiando di ribaltarsi. A bordo ci sono tanti bambini che i genitori lanciano tra le braccia degli uomini in divisa: “La cosa più bella è stata sentire le loro braccia attorno al collo: avevano fiducia in noi” racconta con voce rotta dall’emozione il poliziotto. Un’emozione che si prova solo essendo parte di questa storia e che va raccontata per fare la Storia. C’è un motivo per cui queste persone si sono messe in mare più dell’anno prima e dell’anno prima ancora. C’è un motivo per cui hanno rischiato la loro vita per raggiungere un porto sicuro dal quale poi cercare forse di arrivare in un altro luogo dove trovare pace.
Per questo noi giornalisti dobbiamo continuare ad esserci, a documentare e a raccontare le storie mettendo insieme i tasselli di un puzzle che potrà essere completato solo con una corretta informazione. Anche perché solo attraverso una corretta informazione noi operatori dei media potremo contribuire a dare una spinta per trovare le giuste soluzioni ai movimenti migratori. Soluzioni che non possono essere muri veri o virtuali, né vacua propaganda anti immigrazione: servono politiche di peace keeping per i paesi ancora in conflitto, controllo del terrorismo nei paesi afflitti da gruppi estremisti che terrorizzano la popolazione interna, politiche di sviluppo per i paesi più poveri controllando che i fondi per i progetti non finiscano in mano a leader corrotti e, nell’immediato, corridoi umanitari per i più vulnerabili.
Questo mi ha insegnato un grande reporter come Pino Scaccia che, alla vigilia del 2022 mi ritorna con una trasferta fatta insieme vent’anni prima. Suole consumate, penna e taccuino, la Storia va vissuta prima di essere raccontata.
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di Gianfranco Schiavone su Altreconomia
Prima sono venuti i respingimenti alle frontiere esterne dell’Unione europea: illegali, impuniti e violenti per terra come per mare. Poi ci sono stati i respingimenti a catena alle frontiere interne, chiamati riammissioni per mascherarne la natura. Infine per ampia parte di coloro che, a prezzo di inaudite sofferenze, riescono a entrare in Europa, la domanda di asilo viene esaminata, alla frontiera e non, in modo fulmineo. Le procedure sono sommarie e l’unica finalità è provare a negare ogni protezione così che il rimpatrio coattivo, attuato senza un effettivo diritto di difesa, divenga la soluzione finale di un percorso già scritto dall’inizio.
Questo gorgo oscuro nel quale siamo finiti riguarda da tempo tutta l’Europa anche se è più visibile in alcuni Paesi nei quali l’ordinamento democratico è particolarmente fragile. Nella Polonia di fine 2021 la situazione è arrivata all’estremo e lo stesso Stato di diritto è collassato; in primis per i rifugiati ma in realtà per chiunque giacché nessun cittadino è più al sicuro nel Paese.
La Polonia è riuscita a realizzare tutte le violazioni possibili del diritto d’asilo: è stato di fatto sospeso alle sue frontiere, come nel territorio, respingendo apertamente e con ogni mezzo violento i rifugiati verso la Bielorussia dove sono arrivati a seguito dell’uso criminale che viene fatto di loro dal regime di Aljaksandr Lukašėnka. In tal modo la Polonia ha annullato il divieto assoluto di non respingimento sancito dall’Art. 33 della Convenzione di Ginevra e dall’Art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Si è resa responsabile della morte di almeno 20 persone (ma il numero è probabilmente sottostimato) tra cui alcuni bambini che sono stati lasciati morire di stenti e freddo sulla linea del confine pur conoscendone esattamente la grave condizione. La difesa di scelte così estreme invoca una sorta di “guerra ibrida” che il regime bielorusso starebbe conducendo usando i rifugiati come armi e la conseguente necessità di dovere difendere, a tutti i costi, il confine dell’Europa.
Invocare l’esistenza della nuova “guerra” in atto ha permesso al governo polacco di dichiarare lo stato di emergenza in tutta l’area di confine, impedire l’accesso ai giornalisti, criminalizzare chi difende la legalità e porta soccorso alle persone a rischio di vita nella foresta giungendo, in un’escalation che al momento della stesura di questa riflessione non sembra avere fine, persino a impedire le visite dei parlamentari europei affinché nessuno possa vedere quello che sta realmente avvenendo. Su tutto ciò la Commissione europea tace, complice di fatto dello stravolgimento di quella legalità che è chiamata a difendere.
A chi, magari con travaglio interiore, ritiene che tale situazione possa essere tollerata in ragione della sua eccezionalità non oppongo una valutazione politica o etica bensì una giuridica. La Convenzione sui diritti dell’uomo del 1955, consapevole che scenari di guerra e di pericolo sarebbero stati in futuro purtroppo sempre possibili, aveva previsto la possibilità di derogare, in modo limitato e temporaneo, al rispetto di alcuni dei diritti sanciti dalla Convenzione stessa chiarendo però che “nessuna deroga” (Art. 15) può mai essere ammessa, neppure in stato di guerra, al divieto di respingimento verso luoghi dove c’è rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti. La Polonia e l’Europa non sono in guerra perché qualche migliaio di disperati disarmati si trovano al nostro confine e chiedono asilo. Affermarlo è osceno. Infine se fossimo in guerra nulla cambierebbe rispetto a ciò che non possiamo mai fare. Abbiamo superato, persino in assenza di alcuna ragione, il limite invalicabile dell’identità che ci siamo dati e lo dobbiamo sapere, senza finzioni.
Foto in evidenza di Kancelaria Premiera, via flickr, su Altreconomia
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